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di Carlo Musilli
"E' necessaria un'azione decisiva e immediata per fermare la repressione in Bahrein". L’ha scritto Ali Akbar Salehi, ministro degli esteri iraniano, in una lettera spedita la settimana scorsa al segretario delle Nazioni Unita, Ban Ki-Moon. In questo momento l'unica voce interessata a riportare l'attenzione internazionale sul piccolo arcipelago del Golfo sembra essere quella di Teheran. Il mondo occidentale, Stati Uniti in testa, ha scelto di nascondere la crisi del Bahrein sotto al tappeto. "Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu - ha aggiunto Salehi - pur avendo svolto un ruolo determinante a favore delle rivolte in altri Paesi arabi, sembra rimasto indifferente di fronte alla morte di molti civili bahreiniti".
Da metà febbraio la maggioranza sciita del Paese (circa il 70% della popolazione) continua a protestare contro la famiglia reale sunnita, gli al-Khalifa, al potere da oltre 30 anni. Con l'autorizzazione degli Usa e in virtù di un trattato di difesa siglato dalle monarchie del Golfo nel 1984, lo scorso 14 marzo il re saudita Abdullah ha spedito in Bahrein mille soldati. Da allora la repressione si è fatta più sanguinosa. Ad oggi, il bilancio è di 24 morti e centinaia di feriti.
Fin dall'inizio della protesta l'Iran ha espresso il suo totale appoggio ai manifestanti, accusando l'Arabia Saudita di aver indebitamente occupato l'arcipelago, "come Saddam fece col Kuwait". Teheran ha anche intimato al Pakistan e alla Giordania di non inviare più mercenari a Manama. Da questi Paesi infatti proviene la maggior parte degli uomini delle forze di sicurezza sunnite fedeli agli al-Khalifa.
Su una cosa gli iraniani hanno sicuramente ragione: gli Usa e le Nazioni Unite non considerano la sollevazione del Bahrein degna di attenzioni come le altre "primavere" del mondo arabo. Le richieste di democrazia dei ribelli di Manama non vanno sostenute. E questo per una banale valutazione costi-benefici. Il paesetto del Golfo è strategicamente centrale per gli Stati Uniti, che qui hanno stanziato la Quinta Flotta della loro Marina Militare.
Non solo. Se la maggioranza sciita prendesse il potere (ma per il momento si limita a chiedere riforme), il Bahrein entrerebbe facilmente nella sfera di controllo dell'Iran. Una prospettiva inaccettabile anche per il più importante fra gli alleati di Washington, l'Arabia Saudita. Con la minaccia iraniana così vicina alle sue coste, Riyadh vedrebbe moltiplicarsi le possibilità di essere contagiata dal virus della rivolta sciita.
Per queste ragioni, fino ad ora, Ban Ki-Moon non è andato oltre un monito per l'eccessivo uso della forza da parte del regime degli al-Khalifa. Gli americani invece hanno espresso solo "preoccupazione", ma nessuna vera condanna. Il segretario di Stato Hilary Clinton la settimana scorsa ha chiesto che "sia avviato un processo politico in cui trovino spazio i diritti e le aspirazioni della maggior parte della popolazione del Bahrain".
Una frase formale, da copione, buttata lì nel mezzo di un discorso generico sulle diverse crisi mediorientali. Niente di più lontano da una reale presa di posizione. L'amministrazione Obama non ha ritirato il proprio ambasciatore da Manama, né tanto meno si è sognata di proporre per il Bahrein le stesse sanzioni imposte alla Libia.
La settimana scorsa Human Rights Watch ha denunciato la morte di quattro delle oltre 430 persone arrestate dal regime bahreinita nell'ultimo mese. Pare che altri tre membri dell'opposizione siano morti in carcere in circostanze sospette: il governo parla di "cause naturali", ma a sentire l'organizzazione umanitaria i loro corpi rivelavano "segni di orribili torture". Secondo l'opposizione, addirittura 720 manifestanti sarebbero finiti in galera, mentre altri 210 sarebbero ancora dispersi.
Da circa un mese il principale ospedale di Manama è sotto occupazione militare. I medici sono stati selezionati dall'esercito, che ha anche posto limiti alle attrezzature utilizzabili. Il governo ha giustificato il provvedimento sostenendo che la struttura fosse utilizzata come centro organizzativo delle proteste. Venerdì scorso il regime sunnita ha annunciato un'indagine sull'attività dei principali partiti d'opposizione, gli sciiti "al-Wefaq" e "Azione Islamica". Tutto lasciava presupporre che le due organizzazioni sarebbero state messe fuori legge, ma alla fine il governo di Manama ha rinunciato al progetto. Sembra che siano arrivate delle tirate d'orecchi direttamente da Washington e da Londra.
La censura dei media invece continua indisturbata. La settimana scorsa è stato impedito a un reporter del Financial Times di prendere un aereo. Un altro giornalista della Bbc è stato trattenuto per ore dall'esercito in aeroporto. Tutto questo senza dare la minima spiegazione. Alcuni giorni fa il regime ha anche messo sotto controllo il principale quotidiano del Paese, costringendo il direttore alle dimissioni.
"Non prendiamo la decisione di intervenire sulla base dei precedenti o di principi come la coerenza", così Danis Mc Donough, consigliere di Obama per la sicurezza nazionale, ha risposto a chi gli chiedeva ragione delle diverse politiche americane in Libia e in Bahrein. Candido come la neve, Denis ha poi aggiunto: "Prendiamo questo genere di decisioni in base a quale sia il modo migliore per sostenere i nostri interessi nella regione".
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Una tragedia incomprensibile. Non c'è alcuna spiegazione per il barbaro assassinio di Vittorio Arrigoni, giornalista, attivista, cooperante. Veglie di lutto a Gaza, Betlemme, Ramallah, Londra e molte altre città si moltiplicano, tra lo sgomento e l'incredulità. Tutte le fazioni palestinesi, senza distinzione, hanno condannato l'assassinio e il premier del governo Hamas a Gaza, Haniyeh, ha telefonato alla madre di Vittorio per porgerle le condoglianze dell'intero popolo palestinese.
La presenza di Vittorio a Gaza era continua. Era entrato a Gaza nel 2009 con una delle barche che forzavano il blocco navale israeliano. Durante l'ultima invasione israeliana di Gaza nel Gennaio 2009, Vittorio era stato l'unico italiano a rimanere nella Striscia per aiutare la popolazione sotto i bombardamenti.
I suoi reportage sulla guerra erano le uniche notizie disponibile per i media italiani, per il divieto da parte dell'esercito israeliano di far entrare giornalisti nella Striscia. Proprio durante la guerra, un gruppo estremista israeliano aprì un sito in cui incitava ad uccidere Vittorio, unica fonte di notizie da una zona che lo stato ebraico voleva invece oscurare.
Vittorio venne sequestrato e picchiato più volte dall'esercito israeliano, insieme ad attivisti e pescatori palestinesi. Durante la battaglia al campo profughi di Nahr al-Bared in Libano, fu uno dei pochi cooperanti a portare aiuto ai civili intrappolati tra il fuoco incrociato. Nelle parole del suo collega Khalil Shaheen dell'International Solidarity Movement, Vittorio è stato “un'eroe palestinese,” e il governo Haniyeh lo ha proclamato martire.
Il suo corpo senza vita è stato trovato in un casolare abbandonato alla periferia nord di Gaza City. Impiccato, forse già morto da ore, ben prima che scadesse l'ultimatum dei suoi rapitori. Le circostanze del delitto restano finora un mistero. Il sedicente gruppo terrorista al-Tawhid Wal-Jihad, dopo aver in un primo momento rivendicato l'assassinio, ha ritirato la rivendicazione.
Si tratta di una sigla diversa da quella che giovedì aveva rilasciato il video in cui Vittorio appariva bendato e tenuto per i capelli di fronte alla telecamera. I rapitori avevano dato al governo di Hamas un ultimatum di trenta ore per liberare i “prigionieri jihadisti,” tra cui spiccava la figura dello sceicco Al Sudani, patriarca dell'omonima famiglia, arrestato in Marzo da Hamas.
Le ultime notizie confermano che la polizia di Hamas ha arrestato due dei presunti rapitori e sta dando la caccia al resto della banda. Il governo palestinese ha dichiarato alla televisione francese di essere in possesso dei nomi di tutti gli altri responsabili. Il premier Haniyeh ha ordinato di dare priorità assoluta all'indagine per trovare i responsabili. Durante una riunione d'urgenza del governo palestinese per affrontare la crisi, Haniyeh ha promesso che “gli assassini saranno portati davanti alla giustizia al più presto, perché questa barbarie non si ripeta mai più.” Il movimento islamico teme che questa violenza insensata contro un attivista amato da tutta la popolazione porti alla fuga dei cooperanti stranieri, gli unici a prestare aiuto ai palestinesi sotto l'assedio israeliano da oltre tre anni.
Intanto continuano i bombardamenti israeliani sulla Striscia, in risposta ai razzi lanciati da militanti jihadisti palestinesi. I gruppuscoli estremisti, responsabili dei lanci di razzi contro Israele, stanno mettendo in pratica una vera e propria strategia della tensione contro Hamas e le altre fazioni palestinesi. Sparando i razzi e così facendo si assicurano il contrattacco israeliano, che inevitabilmente va a indebolire le strutture del governo di Hamas o colpire la popolazione civile, invece di colpire gli autori degli attacchi.
Il tragico rapimento di Vittorio Arrigoni ricorda una vicenda avvenuta nel 2007, quando un gruppo autoproclamatosi “Esercito dell'Islam” rapì Alan Johnson. Il giornalista della BBC venne liberato dalle forze di Hamas, dopo che il gruppo islamico conquistò il potere cacciando la fazione rivale Fatah in una sanguinosa guerra civile.
Nonostante i tentativi di far passare il rapimento per un'azione religiosa (proprio come nel video dei rapitori di Vittorio), si scoprì che il vero motivo era un attacco della potente famiglia mafiosa Dugmush, i cui sgherri avevano inventato la sigla “Esercito dell'Islam” contro il movimento di Hamas. Un rapimento dai contorni religiosi era in realtà conseguenza di una disputa per il controllo del territorio o dei tunnel sotto il valico di Rafah.
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di Michele Paris
A conferma del progressivo deterioramento dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Pakistan, il governo di Karachi qualche giorno fa ha chiesto a Washington un considerevole disimpegno dalle operazioni in corso sul proprio territorio. Le richieste di Islamabad sono giunte in concomitanza con alcuni incontri bilaterali ad alto livello e s’inseriscono in un’atmosfera di crescente ostilità nei confronti degli americani, diffusa ormai non solo tra la popolazione locale ma anche tra le élites pakistane, sempre più diffidenti verso gli obiettivi del potente alleato.
Ad esporre ufficialmente la nuova presa di posizione del governo pakistano agli USA sarebbe stato l’autorevole capo delle forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani. Agli americani sarebbe stato chiesto di ridurre sensibilmente il numero di agenti CIA e delle Operazioni Speciali impiegati in Pakistan, così come lo stop ai bombardamenti nelle aree di confine con l’Afghanistan che gli stessi servizi segreti a stelle e strisce conducono con i cosiddetti droni (velivoli senza pilota).
Gli agenti operativi da richiamare in patria, secondo fonti pakistane anonime citate da alcuni giornali americani, sarebbero più di trecento, compresi tutti i contractors privati; il numero corrisponde a circa il 40 per cento del totale dei loro uomini attivi nel paese. Il messaggio di Kayani agli americani è stato recapitato il giorno successivo alla visita di lunedì scorso negli Stati Uniti del numero uno della principale agenzia di intelligence pakistana (ISI), generale Ahmed Shuja Pasha. Quest’ultimo ha incontrato a Washington il direttore della CIA, Leon Panetta, e il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen.
Nonostante i portavoce della CIA abbiano assicurato che durante le quasi quattro ore di colloquio non si sia fatto alcun riferimento all’imminente richiesta di ridurre le operazioni statunitensi in Pakistan, ciò risulta in realtà estremamente probabile e rivela a sufficienza le tensioni più o meno latenti tra i servizi segreti dei due paesi. Tanto più che l’ISI (Inter-Services Intelligence Directorate) è alle dipendenze proprio delle forze armate pakistane, guidate dal generale Kayani, e che quest’ultimo è in piena sintonia con Pasha. Recentemente, infatti, è stato proprio Kayani a chiedere al suo governo di prolungare la permanenza di Pasha al vertice dell’influente agenzia spionistica.
Da parte della CIA, come ha riportato il Washington Post, si continua a negare che le autorità pakistane abbiano chiesto di ritirare agenti e interrompere gli attacchi con i droni. L’intelligence USA ha tuttavia confermato i contrasti con il Pakistan, annunciando che verranno prese alcune iniziative per soddisfare le preoccupazioni dell’ISI, a cominciare dalla trasmissione di maggiori informazioni circa gli agenti di stanza nel paese e da una maggiore collaborazione nella scelta degli obiettivi dei droni.
La contesa sul ruolo degli agenti della CIA è esplosa in particolare dopo la vicenda della spia americana Raymond Davis, arrestato a Lahore lo scorso gennaio per l’uccisione di due cittadini pakistani che seguivano la sua auto a bordo di una motocicletta. Gli USA avevano chiesto la liberazione immediata del loro uomo, facendo appello all’immunità diplomatica. Dopo alcune settimane di carcere, Davis è stato rilasciato grazie ad un accordo, perfettamente legale secondo la legge pakistana, che ha garantito alle famiglie delle due vittime un cospicuo risarcimento in denaro.
Il caso di Raymond Davis, sia pure risolto secondo quanto auspicato fin dall’inizio dai due governi, ha peggiorato innegabilmente i rapporti tra Stati Uniti e Pakistan. L’insistenza con cui gli Stati Uniti ne chiesero il rimpatrio - lo stesso presidente Obama fece un appello al governo di Islamabad - tradisce l’importanza e la delicatezza del ruolo da lui ricoperto in Pakistan. Per questo, gli americani andarono su tutte le furie di fronte alle resistenze della giustizia pakistana e, soprattutto, dopo i quattordici giorni d’interrogatori a cui Davis venne sottoposto dai servizi segreti locali.
Su molti giornali sono apparse in queste settimane rivelazioni inquietanti sull’incarico di Raymond Davis in Pakistan. I suoi oscuri rapporti con alcune organizzazioni ribelli, è stato ipotizzato, potevano essere finalizzati a favorire attacchi terroristici in Pakistan, così da destabilizzare un governo centrale già debole e giustificare un intervento diretto degli americani. Non è un segreto, d’altra parte, che le forze armate pakistane ritengano che il vero obiettivo degli USA sia un’escalation delle operazioni militari nel loro paese, così come la messa in sicurezza delle armi nucleari di cui dispone.
Le possibili informazioni estorte a Raymond Davis dagli interrogatori dell’ISI e il crescente malcontento popolare nei confronti degli Stati Uniti, potrebbero aver spinto dunque le autorità pakistane - significativamente quelle militari, di gran lunga più autorevoli e influenti rispetto a quelle civili - ad alzare la voce con Washington. La campagna dei droni, in particolare, risulta avversata dalla popolazione locale, alla luce delle numerose vittime civili innocenti causate da questi attacchi che dovrebbero colpire invece esclusivamente esponenti di gruppi terroristici.
Queste incursioni si sono intensificate negli ultimi due anni e, secondo gli americani, sarebbero indispensabili per rimediare all’incapacità del Pakistan di colpire i gruppi ribelli che operano oltre il confine, nell’Afghanistan occupato. Anche da Washington, peraltro, non vengono risparmiate lamentele nei confronti di Islamabad, dove ogni anni viene recapitato qualcosa come un miliardo di dollari in aiuti. Solo qualche giorno fa, ad esempio, un rapporto della Casa Bianca al Congresso ha evidenziato come gli sforzi del governo pakistano per contrastare i talebani e le altre organizzazioni estremiste non abbiano praticamente alcuna possibilità di successo.
L’atteggiamento ambiguo del Pakistan riflette d’altronde una risaputa necessità strategica di vitale importanza. I militari pakistani non intendono cioè distruggere realmente la resistenza dei ribelli, continuando a considerare i talebani un potenziale alleato per esercitare la propria influenza sull’Afghanistan in un futuro senza la presenza americana, ovviamente in funzione anti-indiana. Non a caso i talebani pakistani (Lashkar-e-Taiba) continuano a mantenere stretti legami con i servizi segreti pakistani.
In questi oscuri intrecci di rapporti tra i vari protagonisti sul campo e con interessi contrastanti in gioco, è evidente come le relazioni tra Stati Uniti e Pakistan si basino su fondamenta assai precarie. La mano pesante degli americani ha finito poi, inevitabilmente, per suscitare la dura reazione del governo di Islamabad, mettendo a repentaglio una collaborazione che da Washington si continua a ritenere fondamentale nella guerra di occupazione in corso in Asia centrale.
Ciò che attende i due paesi nell’immediato futuro sembra essere allora una revisione complessiva dei loro rapporti bilaterali, le cui conseguenze sul futuro della guerra in Afghanistan e sugli equilibri nell’intera regione saranno tutte da valutare.
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di Carlo Musilli
Dove non arriva la lunga mano di Washington, forse può arrivare quella di Riyadh. La crisi yemenita non sembra ancora vicina a una soluzione, ma può darsi che i negoziati abbiano finalmente imboccato una strada credibile. Il piano di mediazione proposto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo prevede che Ali Abdullah Saleh, dittatore del Paese da oltre 30 anni, lasci la poltrona al suo vice, Abdrabuh Mansur Hadi. A quel punto verrebbe costituito un governo provvisorio guidato dall'opposizione, che avrebbe il compito di traghettare lo Yemen fino alle sue prime elezioni democratiche, probabilmente nel 2013.
Agli insorti il piano è apparso subito un po' troppo vago e indulgente. Lunedì è arrivato un secco rifiuto da parte dei partiti di opposizione. Secondo il Washington Post, addirittura decine di migliaia di persone sarebbero scese in piazza a Sana'a, Taiz, Hudaydah, Ibb e nella provincia meridionale di Hadramaut per protestare contro il piano del Consiglio.
Già dopo 24 ore, tuttavia, i loro rappresentanti hanno abbassato la tensione, cercando di aprire un dialogo coi mediatori del Golfo. In particolare, hanno chiesto loro di spiegare se siano previste le dimissioni immediate di Saleh, condizione primaria per arrivare a un accordo. Il piano non specifica, infatti, quali siano i tempi della transizione al potere. Altro nodo fondamentale è il destino che attende il dittatore e i membri della sua famiglia, alcuni dei quali ricoprono ancora oggi ruoli di primo piano nel governo e nell'esercito. Il Consiglio sembra orientato a garantire loro l'impunità, con tanto di esilio dorato chissà dove. Per l'opposizione questo è impensabile: devono essere tutti processati. Mercoledì i capi dei partiti ribelli hanno incontrato gli ambasciatori di Arabia Saudita, Kuwait e Oman per avere chiarimenti su questi aspetti.
Saleh dal canto suo ha accettato subito la proposta. Sono mesi che temporeggia proprio per evitare di finire alla berlina come Mubarak. Questa è un'occasione irripetibile. L'unica incomprensione si è avuta giovedì scorso, quando l'incauto primo ministro del Qatar, Sheik Hamad bin Jassim al-Thani, ha detto che la mediazione del Golfo avrebbe finalmente levato di mezzo il dittatore yemenita. Saleh gli ha subito risposto per le rime, dicendogli di non intromettersi. Parole che i media hanno interpretato come un ripensamento circa la disponibilità a trattare. Ma non era così. Solo uno screzio, nulla di grave.
Intanto in ogni angolo dello Yemen migliaia di manifestanti anti-Saleh continuano a scontrarsi con militari e poliziotti fedeli al leader. La conta dei morti prosegue ogni giorno. Ormai è evidente che la rivoluzione armata non è una strada percorribile fino in fondo. Gli insorti possono contare sull'aiuto di alcuni reparti dell'esercito passati dalla loro parte, ma non hanno comunque una capacità militare adeguata alle dimensioni del conflitto.
Martedì la polizia ha attaccato alcuni ufficiali schierati dalla parte del generale ribelle Ali Mohsen. E' successo in un posto di blocco ad Amrane, 170 chilometri dalla capitale Sana'a. Il bilancio è stato di cinque morti e dieci feriti. Vittime anche nel sud del Paese, ad Aden, dove le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro una folla di dimostranti scesi in piazza per uno sciopero generale. Due i manifestanti uccisi.
Nel frattempo, secondo quanto riferito dall'agenzia cinese Xinhua, l'esercito yemenita è impegnato anche su un altro fronte. Domenica i militari si sono scontrati con i miliziani di Al Qaeda in diverse regioni della provincia meridionale di Abiyan. Prima hanno indietreggiato, poi si sono ritirati.
Tutte le parti in campo sanno che, se non si trovasse un accordo di pace per via politica, la guerra civile continuerebbe ancora per molto tempo e probabilmente consegnerebbe il Paese nelle mani dei capi tribù, dei gruppi indipendentisti e dei terroristi islamici. Un rischio che fuori dallo Yemen nessuno ha intenzione di correre.
Gli Stati Uniti da tempo facevano pressioni sull'Arabia Saudita perché intervenisse a riportare la stabilità. E il principale alleato arabo di Washington alla fine si è mosso. Al Consiglio di Cooperazione del Golfo prendono parte anche i ministri degli esteri di Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, e Emirati Arabi Uniti. Ma, com'è ovvio, quando si tratta di prendere decisioni cruciali è il loro collega saudita a stabilire le mosse.
Non a caso la settimana scorsa il Consiglio aveva invitato Saleh e i suoi oppositori a incontrarsi proprio a Riyadh (ma anche in questo caso non era stata proposta alcuna data). La mediazione che si profila all'orizzonte potrebbe avere successo anche perché l'Arabia Saudita è da sempre il primo tra i finanziatori esteri dello Yemen. Soldi che, negli anni, hanno comprato la fiducia di Saleh.
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di Michele Paris
Con un ennesimo voltafaccia, qualche giorno fa l’amministrazione Obama ha annunciato la rinuncia a qualsiasi tentativo di garantire un processo equo a cinque detenuti nel carcere di Guantánamo accusati di aver progettato gli attacchi dell’11 settembre 2001. Il cambiamento di rotta della Casa Bianca nega ai presunti terroristi la garanzia di un giudizio di fronte ad un tribunale civile e, invece, rimette in moto il discutibile sistema fondato sui tribunali militari istituito da George W. Bush, i cui sistemi di “lotta al terrore” il presidente democratico ha ormai finito per abbracciare completamente.
La decisione, che ha di fatto smentito quanto da lui stesso stabilito poco più di un anno fa, è stata resa nota dal Ministro della Giustizia americano (Attorney General), Eric H. Holder, in una conferenza stampa. Dietro sua indicazione, i pubblici ministeri militari di Guantánamo potranno ora presentare le loro accuse di crimini di guerra contro gli imputati.
L’accusato di spicco è Khalid Sheikh Mohammed, pakistano membro di Al-Qaeda, ritenuto una delle menti degli attentati alle Torri Gemelli. Con lui saranno alla sbarra anche gli yemeniti Waleed bin Attash, accusato di essere a capo di un campo di addestramento in Afghanistan, e Ramzi bin al-Shibh, sospettato di aver selezionato le scuole negli USA dove i dirottatori presero lezioni di volo.
Insieme a lui anche il pakistano Ali Abd al-Aziz Ali (ovvero Ammar al-Baluchi), accusato di aver facilitato l’ingresso degli attentatori negli Stati Uniti e di aver trasferito loro circa 120 mila dollari per far fronte alle spese, e il saudita Mustafa al-Hawsawi, anch’egli sospettato di aver aiutato economicamente e materialmente gli autori degli attacchi.
Nel novembre 2009 era stato appunto lo stesso Holder a deliberare che il processo a questi cinque imputati doveva essere celebrato in una corte civile di New York, sollevando immediate polemiche da più parti. Nei mesi successivi, il Congresso, con l’appoggio di parlamentari repubblicani e democratici, aveva allora approvato una serie di provvedimenti per impedire lo stanziamento di fondi per trasferire i detenuti di Guantánamo sul suolo americano.
Di fronte alla dura opposizione bipartisan, l’amministrazione Obama aveva così fissato una serie di procedure per dare una parvenza di legalità al sistema dei tribunali militari. Ai primi di marzo, poi, era giunta la decisione del presidente di annullare l’ordine da lui emanato due anni prima e che fermava gli stessi procedimenti militari contro i presunti terroristi.
Il più recente annuncio di Holder, infine, ha suggellato la definitiva rinuncia da parte del governo americano di smantellare l’edificio pseudo-legale costruito da Bush per combattere il terrorismo dopo l’11 settembre e che Obama aveva fortemente criticato durante la campagna elettorale per la Casa Bianca.
Lo stesso proposito iniziale dell’attuale amministrazione prevedeva in realtà un doppio approccio alle sorti dei detenuti di Guantánamo. Il dirottamento verso i tribunali civili doveva riguardare infatti soltanto alcuni casi, mentre per i prigionieri più problematici - cioè quelli troppo pericolosi per essere eventualmente rilasciati e allo stesso tempo difficilmente perseguibili in sede civile - rimaneva l’opzione della detenzione indefinita senza alcun processo.
Il tentativo, ora definitivamente abortito, di istituire alcuni procedimenti civili non era insomma nient’altro che una manovra esteriore, adottata per dimostrare la volontà di prendere le distanze dagli eccessi della precedente amministrazione. Nonostante l’ordine firmato da Obama all’indomani del suo insediamento nel gennaio 2009, infatti, non si è mai andati nemmeno vicini alla chiusura del carcere di Guantánamo e, in ogni caso, le detenzioni senza fondamento legale sono proseguite.
Mentre i repubblicani e buona parte dei democratici al Congresso hanno applaudito al voltafaccia di Obama, le associazioni a difesa dei diritti umani hanno mostrato tutto il loro sdegno. Il direttore dell’ACLU (American Civil Liberties Union), Anthony Romero, ha definito “il cambio di rotta del Ministro della Giustizia devastante per il sistema legale” americano.
Nel dicembre 2008, Khalid Sheikh Mohammed e gli altri quattro co-imputati avevano espresso l’intenzione di dichiararsi colpevoli anche di fronte ad un tribunale militare. L’arrivo di Obama alla Casa Bianca poco più tardi aveva però bloccato il lavoro delle commissioni di Guantánamo, ordinando la revisione dell’intera politica del suo predecessore.
Per gli oppositori dei processi civili nei confronti dei presunti ideatori dell’11 settembre i timori principali sembrano essere legati a motivi di sicurezza. Soprattutto, però, a destare preoccupazioni tra i falchi dell’antiterrorismo negli USA è la possibilità che gli stessi imputati possano anche non essere condannati in sede civile, come accadde in parte ad Ahmed Khalfan Ghailani, accusato degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania del 1998 e prosciolto da ben 280 capi d’accusa da un tribunale civile di New York.
Il ricorso esclusivo alle commissioni militari, in definitiva, rappresenta un sistema di dubbia legalità per avere la certezza che gli imputati non potranno sfuggire ad una condanna. Un obiettivo quest’ultimo troppo incerto con un procedimento civile che fornisca pieni diritti alla difesa.
In un tribunale civile, inoltre, esiste il rischio concreto di mettere in piazza ancora una volta i sistemi brutali impiegati in questi anni nei confronti dei detenuti con l’accusa di terrorismo, per non parlare degli oscuri legami tra l’intelligence d’oltreoceano e gruppi terroristici come Al-Qaeda.
Le cosiddette prove di colpevolezza sono state infatti frequentemente estorte tramite tortura o grazie a testimonianze tutt’altro che affidabili. Metodi insomma non ammissibili per la giustizia civile. Lo stesso Khalid Sheikh Mohammed, come ammesso dal governo americano, è stato sottoposto a “waterboarding” in ben 183 occasioni.
Con la ratifica dei tribunali militari per i detenuti definiti “nemici combattenti illegittimi” dal Military Commissions Act firmato da Bush nel 2006, l’amministrazione Obama continua così a negare ai sospettati di terrorismo i diritti costituzionali previsti dal sistema legale statunitense e assicura tristemente la permanenza in vigore di quei sistemi aberranti che hanno segnato una delle pagine più nere della storia americana.