di Mario Braconi

In corrispondenza del sessantaduesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza di Israele (14 maggio 1948), la stampa anglosassone ha dimostrato un insistente interesse per la storia di Lifta, un villaggio ad una decina di chilometri a nord-ovest di Gerusalemme. Ha aperto le danze un pezzo del 7 aprile scorso di Edmund Sanders sul Los Angeles Times, seguito da un puntuto commento della scrittrice, accademica ed attivista di origine palestinese Ghada Karmi, ospitato sulle colonne dello stesso giornale. Seguono Catrina Stewart su The Independent (30 aprile) e Harriet Sherwood sul Guardian, il 29 maggio.

E’ una brutta storia di speculazione edilizia a far accendere i riflettori sul villaggio abbandonato tra il 1947 e il 1948 che, nei suoi tempi di massimo splendore, contava tra i duemila e i tremila abitanti. A gennaio di quest’anno il catasto israeliano ha infatti annunciato la sua intenzione di vendere a privati porzioni del terreno su cui sorgeva Lifta (cui è stato attribuito un nome ebraico nuovo di zecca, Mei Naftolah): presto, al posto delle vestigia del paese, potrebbero sorgere 200 abitazioni residenziali, un numero imprecisato di negozi “chic”, un albergo, un museo ed una sinagoga.

Oltre cinquanta dei suoi edifici originali in pietra con finestre ad arco e graziosi balconi sono ancora in piedi; per motivi non del tutto chiari, sono sfuggiti all’obliterazione della memoria il vecchio cimitero e la pressa da olio. Tutto il resto, è andato perduto: scomparsi i 1.200 ettari di terreno con gli alberi di albicocco, fico, olivo, mandorlo, susino e melograno, e i campi a spinaci, cavolfiori, piselli e fagioli. Al loro posto, edifici istituzionali israeliani: la Corte Suprema, la Knesset e l’Università. Sparsi tra il West Bank, Giordania, e Gerusalemme Est, invece, i circa tremila arabi che vi abitavano, un tempo abili ricamatori.

A differenza di quanto è accaduto ad altri ex villaggi arabi, dopo il 1948 Lifta non è stata “riconvertita” in agglomerato ebraico: si può invece dire che è un villaggio fantasma, oggi più che altro meta di coppiette clandestine e di tossici senza tetto. Per ironia della sorte, oggi ad usufruire delle terme al centro del paese sono solo alcuni giovani ultra-ortodossi: una piccola provocazione che è come sale su una ferita per persone come Yacoub Odeh, che ai tempi dell’evacuazione forzata del paese aveva solo otto anni.

La sua memoria è marchiata a fuoco da quella sera del 1948 quando, per sfuggire agli attacchi ebraici, fu costretto ad abbandonare la sua casa assieme alla famiglia. Come molti decine di migliaia di arabi, anche gli Odeh se ne andarono portando con sé solo la chiave di casa, inconsapevoli che non vi avrebbero più fatto ritorno.

In realtà, la situazione a Lifta era molto tesa già alla fine del 1947: secondo lo storico Ilan Pappe, a dicembre di quell’anno membri della Haganah e della Stern Gang assassinarono 6 abitanti di Lifta, ferendone altri sette, nel corso di un attacco condotto per rappresaglia (sembra infatti che ci fosse tra gli abitanti di Lifta chi avvisava la resistenza araba della partenza dei convogli ebraici da Tel Aviv). Yacoub si unì alla resistenza anti-ebraica, ma venne arrestato e passò ben diciassette anni in carcere.

I genitori di Yacoub fuggirono a Gerusalemme Est, ai tempi controllata dalla Giordania. Quando Israele la conquistò, nel 1967, a Yacoub fu concesso di visitare alla sua casa, che, per un certo periodo, aveva ospitato immigrati ebrei yemeniti e iracheni. Grazie ad una legge del 1950, però, la casa di Yacoub Odeh, come quella di migliaia di altri arabi “invitati” ad andarsene, era stata requisita dallo Stato di Israele, cosa che gli impediva di prenderne possesso, anche se era vuota.

Molte ONG israeliane che si occupano di conservazione storica sono unite agli ex residenti di Lifta per bloccare il progetto del Governo. Il fratello di Yacoub Odeh, Zacharias, direttore della Lifta Society, che si occupa di tutelare i diritti degli abitanti del villaggio e di mantenere vivo il ricordo delle sofferenze che essi hanno dovuto patire, la mette così: “Questa faccenda riguarda la nostra memoria, la nostra tradizione, la nostra cultura. Molti di noi hanno ancora titolo legale alle proprie case. Anche se non siamo autorizzati a tornarci a vivere, tale diritto dovrebbe essere preservato”.

Il caso sorto attorno a Lifta tocca un nervo scoperto della società e della cultura israeliane: come nota Edmund Sanders sul LA Times, la città fantasma di Lifta, con le sue costruzioni che si ergono in mezzo alla vegetazione, rappresenta “l’incarnazione di una delle questioni più urticanti nei colloqui di pace del Medio Oriente: i Palestinesi hanno o meno diritto a tornare nelle loro case attualmente all’interno del territorio israeliano? E, se sì, quali sarebbero le conseguenze del riconoscimento di questo diritto sulla futura esistenza di Israele in quanto stato ebraico?”.

Benché una soluzione a questo immane problema non sia a portata di mano, non si può non concordare sul fatto che Lifta debba rimanere così come è (e che per inciso sarebbe cosa buona impedire le provocazioni degli ultraortodossi, come il bagno nelle terme). A rappresentare “un monumento fisico all’ingiustizia e alla sopravvivenza”, come sostiene la cattedratica palestinese naturalizzata britannica Ghada Karmi, anche lei cacciata da Lifta quando era solo una bambina.

La questione sollevata dal caso di Lifta è un emblema di quanto si sia rivelata errata la profezia di Ben Gurion, secondo cui “i vecchi sarebbero morti e i giovani avrebbero dimenticato” la nabka (la catastrofe della cacciata di oltre 700.000 arabi): Lifta dimostra che i vecchi ancora ricordano, così come è evidente che milioni di giovani mai usciti dai campi profughi dove sono stati ricollocati i loro genitori non possono che continuare a ricordare.

di Carlo Musilli

Dopo il terremoto, lo tsunami e il disastro nucleare di Fukushima, il premier giapponese Naoto Kan è sopravvissuto ancora una volta. Con un colpo di reni è riuscito a schivare le pugnalate che gli sono arrivate da ogni anfratto del suo malandato Parlamento. Due giorni fa la Camera bassa di Tokyo ha respinto con 293 voti contrari e 152 favorevoli la mozione di sfiducia sollevata contro il primo ministro. Lo hanno accusato di aver affrontato in modo "debole" la crisi seguita al cataclisma dell'11 marzo. Eppure l' Agenzia internazionale dell'energia atomica ha espresso ammirazione per il lavoro del governo dopo la tragedia.

Ma non è stata una reale vittoria. Per evitare di cadere subito, Kan ha dovuto promettere le dimissioni. Con ogni probabilità uscirà di scena in autunno, o comunque "non appena sarà passata la fase peggiore della crisi nucleare". Un compromesso umiliante, cui il premier è stato costretto dal suo stesso schieramento, il Partito Democratico (Dpj).

La principale disgrazia del Parlamento nipponico è proprio la guerriglia interna all'Esecutivo. Nelle fila del Dpj si agitano almeno un paio di correnti animate da shogun assetati di sangue. La prima è fa capo all'ex presidente Yukio Hatoyama, dimissionario l'anno scorso.

La seconda è guidata da quella vecchia volpe di Ichiro Ozawa, ex presidente del partito, oggi sotto inchiesta per non aver dichiarato delle tangenti (può sembrare cinico, ma in Giappone le mazzette sono ammesse, purché vengano dichiarate). Dopo aver fatto per giorni la voce grossa minacciando il ribaltone, Ozawa si è astenuto dal voto, ma ha lasciato benevolmente che gli ottanta parlamentari al suo seguito sostenessero il Premier. Anche le poltrone del Parlamento giapponese sono piuttosto comode.

Al termine di questa miserabile via crucis, l'unico risultato ottenuto da Kan è di aver guadagnato tempo. Nei mesi che gli restano conta di finanziare un extra budget per la ricostruzione. Verrebbe da pensare che dopo quello che é accaduto al Paese i parlamentari nipponici dovrebbero fare quadrato in vista del bene comune. Non è così. Gli obiettivi di Kan sembrano già oggi una missione impossibile. Se tra gli stessi membri del governo sono in pochi a non voler tagliare la testa del leader a colpi di katana, le cose ovviamente non migliorano volgendo lo sguardo agli avversari.

L'opposizione, guidata dal Partito Liberaledemocratico, controlla la Camera alta del Parlamento e per le prossime sedute ha promesso fuoco e fiamme. C'è davvero di che preoccuparsi.

L'Esecutivo è talmente frammentato che da solo non riuscirà mai a portare a termine le riforme di cui avrebbe bisogno per arginare il debito pubblico, che attualmente è pari al doppio del Pil. Pur di affossare l'odiatissimo Kan, i liberaldemocratici hanno già annunciato di voler adottare la tattica dell'ostruzionismo a oltranza. Perfino su quelle leggi da cui dipende la sopravvivenza stessa del Giappone.

Parliamo di una finanziaria speciale per la ricostruzione delle aree danneggiate dal sisma e dallo tsunami e di una nuova tassa sui consumi: soltanto un primo passo verso la resurrezione del Paese. Secondo il ministro dell'Economia, Kaoru Yosano, i costi complessivi potrebbero raggiungere i 184 miliardi di dollari.

"Il terremoto ha causato la contrazione del Pil, limitando i rifornimenti e fiaccando la fiducia e gli investimenti - ha spiegato il ministro - e il momento debole dell'economia continuerà probabilmente a lungo". Nel frattempo, per le popolazioni colpite dal disastro sono stati realizzati 30mila prefabbricati in meno rispetto alla tabella di marcia.

Come sottolinea in modo lapidario l’Economist, "il Giappone si trova ad affrontare la più grossa situazione di emergenza dalla fine della Seconda guerra mondiale con un governo azzoppato". In effetti, la paralisi politica del Paese è ben più antica delle recenti disgrazie. Kan è stato eletto appena nel giugno scorso: il quinto primo ministro in cinque anni.

Oggi è certamente più difficile per lui concentrarsi sulla ricostruzione se ogni giorno deve schivare i più diversi tentativi di sabotaggio. Mentre cerca di disinnescare il tradimento dei suoi alleati, il Premier deve guardarsi anche dal fondamentalismo ottuso e quasi certamente in malafede dell'opposizione. Nel complesso, il Parlamento giapponese sta mettendo in scena un gigantesco harakiri politico che appare lontano anni luce dall'etica dei samurai.

 

di Eugenio Roscini Vitali 

Alla manifestazione pro Mladic organizzata il 29 maggio scorso di fronte al parlamento di Belgrado dal Partito Radicale Serbo - SRS (di estrema destra) erano presenti circa 15 mila persone, ultranazionalisti contrari all’estradizione dell’ex generale serbo bosniaco scesi in piazza per protestare contro la “collaborazione” anti serba del presidente Tadic. Tra loro qualche centinaio di giovani incappucciati che, dopo aver devastato il centro, si sono scontrati con le forze di polizia messe in campo dalle autorità, circa tremila agenti in tenuta anti sommossa che hanno risposto alle provocazioni con diverse cariche e più di 170 arresti. Consueto il bilancio degli incidenti: 26 poliziotti e 12  manifestanti feriti, questo nonostante dal carcere Ratko Mladic, tramite il suo avvocato Miloš Šaljic, avesse invitato alla calma.

Provocatori o filo nazionalisti? Fotografati da decine di giornalisti di tutto il mondo, i giovani “patrioti” hanno celebrato l’ex generale intonando slogan del tipo «siamo tutti Ratko» ed hanno affrontato le forze dell’ordine lanciando pietre e bottiglie ed accettando senza paura lo scontro fisico; questo mentre sul palco campeggiava la scritta “Tadic non è la Serbia” e dalla piazza i dimostranti meno violenti sventolavano insegne cetniche e cartelloni raffiguranti le immagine di Mladic, Karadžic e Šešelj.

Alla manifestazione erano presenti anche la moglie dell’ex generale, Bosiljka Mladic, e il figlio Darko, che alla piazza ha ricordato più volte che il padre «ha combattuto per la libertà del suo popolo e non ha mai ordinato l’uccisione di civili e prigionieri»; tra la folla anche Mladen Obranovic, leader del movimento ultranazionalista serbo Obraz, incriminato nell’ottobre scorso per i disordini avvenuti al gay pride di Belgrado.

La latitanza di Mladic é finita 26 maggio 2011, scovato grazie ad una denuncia anonima nella casa di un lontano cugino a Lazarevo, un villaggio tranquillo della Voivodina, nel nordest della Serbia. Riconosciuto grazie all’anello che portava all’anulare sinistro avrebbe detto: «Ecco la mia carta di identità e il mio tesserino militare. È finita!». Secondo la ricostruzione dell’arresto fatta dal quotidiano serbo Blic, Mladic avrebbe offerto agli agenti prosciutto, formaggio e rakija, la celebre vodka balcanica; si sarebbe poi sfilato l’anello e l’orologio e li avrebbe consegnati affermando: «Dateli ai miei familiari». Alla domanda se avesse con sé delle armi, l’ex generale avrebbe poi risposto: «Che generale sarei se non avessi delle armi. Ecco qui le mie due pistole. In tutti questi anni non mi sono mai separato da esse».

Conosciuto con il nome di Milorad Komadic, Mladic avrebbe lavorato come addetto alle scavatrici per una paga giornaliera di 1.300 dinari (13 euro), impiegato in un cantiere edile di Zrenjanin, una piccola città a circa dieci chilometri da Lazarevo. Della cattura di quello che i compagni di lavoro delle ultime settimane hanno definito come un uomo discreto, che parlava poco e si limitava a rispondere alle domande, Boris Tadic ha subito detto: «In nome della Repubblica di Serbia vi posso confermare che stamani Ratko Mladic è stato arrestato. Credo che l’operazione che ha portato all’arresto di Mladic renda il nostro Paese più sicuro, e più credibile. Sono fiero del risultato raggiunto, è una cosa buona per la Serbia che questa pagina della storia si sia chiusa. E che si sia conclusa la fuga di Mladic. Ora bisogna continuare a cercare i suoi complici, quelli che l’hanno aiutato a nascondersi per tutti questi anni, anche tra membri del governo. Arresteremo Goran Hadžic». Verità inconfutabili che elogiano la cattura del boia di Srebrenica e toccano il problema dei tantissimi criminali di guerra ancora in circolazione, inclusa la protezione offerta anche dalle alte sfere della politica e delle forze armate serbe.

In Bosnia Erzegovina la notizia dell’arresto di Mladic è stata accolta con favore e soddisfazione: secondo quanto dichiarato dal ministro della Sicurezza bosniaco, Sadik Ahmetovic, l’arresto di Ratko Mladic sarebbe avvenuto anche grazie alla collaborazione tra i servizi di sicurezza della Bosnia Erzegovina e le autorità serbe; notizia confermata anche da Bakir Izetbegovic, rappresentante bosgnacco della presidenza tripartita, e dal croato Željko Komšic, il quale è convinto del fatto che le autorità serbe hanno sempre saputo dove si trovasse Mladic, così come sapevano dove si trovava Radovan Karadžic.

Meno limpida la posizione dei vertici della Republika Srpska (RS), con il primo ministro, Aleksandar Džombic, che si è detto certo che Mladic avrà la possibilità di presentare la sua versione dei fatti, e con il  presidente Milorad Dodik, che auspica «un processo equo, con tutte le garanzie previste dalle convenzioni sui diritti umani». Ma all’interno dell’entità serba della Bosnia Erzegovina c’è anche chi chiede che il governo della Republika Srpska sostenga finanziariamente e in ogni modo possibile la difesa del generale all’Aia e chi è pronto è pronto ad organizzare manifestazioni pro Mladi?.

Sembra comunque che per quello che l’eurodeputato della Lega Nord Mario Borghezio ha definito un “patriota” sia arrivato il momento di pagare il conto. La prima apparizione davanti ai tre giudici del Tribunale penale internazionale è stata fissata per oggi alle 10: insieme al capo politico dei serbi di Bosnia, Radovan Karadžic, e al fondatore del Partito Radicale Serbo, Vojislav Šešelj, Mladic è accusato di genocidio e altri crimini commessi contro la popolazione civile. Secondo la Procura internazionale, Mladic ha fatto parte di un’associazione criminale il cui fine era l’eliminazione fisica o la deportazione dei bosniaco musulmani (bosgnacchi), dei bosniaco croati e di altre persone di nazionalità non serba da vaste aree della Bosnia Erzegovina.

A quest’associazione criminale avrebbero aderito militari della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina e rappresentanti politici del Partito Democratico Serbo (SDS), personalità di spicco dell’ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, poi Repubblica di Serbia, delle forze armate jugoslave (JNA) e membri di unità volontarie e paramilitari serbe. In particolare Mladic deve rispondere dei reati di omicidio, sterminio, deportazione e persecuzione per motivi politici, razziali e religiosi commessi nelle aree di Banja Luka, Bihac, Bijeljina, Bosanska Gradiška, Bosanska Krupa, Bosanski Novi, Bratunac, Brcko, Doboj, Foca, Gacko, Kalinovik, Kljuc, Kotor Varoš, Nevesinje, Novi Grad, Prijedor, Rogatica, Sanski Most, Srebrenica, Teslic, Vlasenica, Vogošca e Zvornik; di aver guidato l’assedio di Sarajevo e ordinato il massacro di Srebrenica, portato a termine con l’appoggio dei gruppi paramilitari guidati da Željko Ražnatovic, meglio conosciuto come Arkan.

 

di Michele Paris

Il raid americano che lo scorso 2 maggio ha portato all’assassinio di Osama bin Laden in una cittadina pakistana ha causato un evidente peggioramento nei già complicati rapporti tra Washington e Islamabad. Le successive pressioni da parte di Stati Uniti e India sul Pakistan per troncare ogni legame con i gruppi islamici che operano sul suo territorio ha ulteriormente spinto il governo di quest’ultimo paese a riconsiderare le proprie priorità strategiche.

Si è svolto in questo quadro il più recente viaggio in Cina del primo ministro pakistano, Yousuf Raza Gilani, tra il 17 e il 20 maggio scorso. Il terzo incontro di Gilani con le autorità cinesi in meno di un anno e mezzo è andato in scena ufficialmente per celebrare i 60 anni di relazioni diplomatiche tra Pakistan e Cina. I contenuti della visita hanno evidenziato la volontà dei due storici alleati di rafforzare una partnership che, oltre ad essere motivo di nuove frizioni tra Pakistan e Stati Uniti, promette di contribuire all’inasprirsi della rivalità tra Cina da una parte e USA e India dall’altra.

Tra i motivi di maggiore apprensione a Washington c’è la decisione di accelerare la produzione e la consegna di 50 aerei da combattimento “JF-17 Thunder”, nati appunto dalla collaborazione tra Cina e Pakistan. L’assegnazione del porto di Gwadar, in Belucistan, al controllo cinese è poi un’altra questione scottante. Al ritorno dalla trasferta a Pechino, il Ministro della Difesa pakistano, Chaudhry Ahmad Mukhtar, ha infatti annunciato l’accettazione da parte della Cina della gestione del porto affacciato sul Mare Arabico - assieme alla costruzione di una base navale - una volta risolto il contratto con una compagnia di Singapore che non avrebbe investito a Gwadar il denaro promesso.

Il controllo di Gwadar consentirebbe ai cinesi di avere una base navale sul Mare Arabico e di facilitare il trasporto delle forniture di petrolio e gas naturale provenienti dal Medio Oriente, evitando lo Stretto di Malacca. Nonostante le mire della Cina verso questa località costiera pakistana, il Ministro Mukhtar è stato però gelato dall’immediata smentita ufficiale di Pechino.

Come ha scritto la testata on-line Asia Times, l’atteggiamento cauto della Cina sembra essere dovuto a una serie di ragioni, a cominciare dalla pericolosità nell’investire in un porto commerciale poco frequentato e carente di infrastrutture. Ancora più importanti possono essere stati i calcoli cinesi sull’opportunità politica e strategica di gestire Gwadar. Una presenza cinese qui darebbe cioè la giustificazione agli Stati Uniti di prolungare la loro presenza nella regione e di continuare a premere sul Pakistan. Infine, l’instabilità del Belucistan, dove è attivo un movimento indipendentista, può aver contribuito alla diffidenza cinese.

L’equivoco sul porto di Gwadar può riflettere da una parte la cautela di Pechino nell’espandere la propria influenza nel continente asiatico, mentre dall’altra rappresenta un’infelice uscita del governo di Gilani, ansioso di far capire a Washington che la Cina è pronta ad accogliere il Pakistan nel caso i rapporti tra i due paesi dovessero giungere ad un punto di non ritorno. Tutto ciò non contraddice comunque l’affermarsi di un asse tra Cina e Pakistan, come confermano molti altri segnali.

Sulla morte di bin Laden, ad esempio, Pechino non ha condannato apertamente l’azione americana ma ha elogiato gli sforzi del Pakistan nel combattere il terrorismo. La Cina avrebbe anche chiesto agli Stati Uniti di riconoscere questo ruolo e di tenere in considerazione la complicata situazione in cui le autorità di Islamabad si trovano ad operare. Secondo un quotidiano locale, addirittura, il Ministro degli Esteri cinese in una recente visita a Washington avrebbe avvertito gli americani che un eventuale attacco nei confronti del Pakistan verrebbe interpretato come un attacco alla Cina.

Inoltre, nel dicembre dello scorso anno, al termine di un vertice sino-pakistano a Islamabad, vennero firmati decine di accordi bilaterali in vari settori per un totale di 35 miliardi di dollari. Il tutto nel quadro di un commercio tra i due paesi che è cresciuto del 30 per cento tra il 2009 e il 2010, fino a sfiorare i 7 miliardi di dollari l’anno. Alla partnership economica va sommata quella militare, suggellata dalle esercitazioni congiunte del marzo scorso. In quell’occasione l’aviazione cinese ha operato per la prima volta nello spazio aereo pakistano, mentre nuove manovre di terra sono già programmate per i prossimi mesi.

Per le élites pakistane la collaborazione con gli Stati Uniti rappresenta da tempo un punto fermo, soprattutto alla luce dei circa venti miliardi di dollari in aiuti versati da Washington nell’ultimo decennio. Le relazioni tra i due paesi, rese già difficili da un vasto sentimento anti-americano tra la popolazione del Pakistan, sono peggiorate dopo l’11 settembre, quando gli USA hanno imposto i propri interessi strategici in Asia centrale (dal controllo delle fonti energetiche nella regione al contenimento della Cina).

I legami del Pakistan con i Talebani, prima e dopo la loro cacciata da Kabul, erano e continuano però ad essere visti come fondamentali per evitare un accerchiamento ad opera dell’India. Quando poi gli Stati Uniti hanno fatto dell’India un partner strategico, in funzione anti-cinese, incoraggiando una maggiore partecipazione di Nuova Delhi alla ricostruzione dell’Afghanistan, a Islamabad si è cominciato a temere per la propria stessa esistenza. Da qui, la necessità di allentare le pressioni di Washington, diventate ancora più insistenti dopo l’uccisione di bin Laden e le accuse di fornire sostegno ai terroristi, rafforzando i legami con la Cina.

Se la risposta indiana è stata quella di minacciare una possibile nuova corsa agli armamenti per contrastare questa doppia minaccia, dagli USA le reazioni sono finora piuttosto misurate, almeno pubblicamente.

Per gli americani, d’altronde, il Pakistan rimane un alleato decisivo per risolvere il pantano afgano, per aprire colloqui di pace con i talebani e per continuare ad assicurarsi le rotte dei rifornimenti alle forze NATO, che partono dal porto di Karachi e attraversano il confine nei valichi situati nelle province nord-occidentali del paese.

Gli stessi vertici politici e militari pakistani, al di là delle talvolta dure prese di posizione pubbliche verso Washington, hanno cercato finora di mantenere un delicato equilibrio tra gli Stati Uniti e la Cina, anche se in prospettiva futura una maggiore vicinanza a Pechino sembra essere ora più produttiva, secondo i calcoli di Islamabad.

L’affrancamento del Pakistan dagli USA e l’ulteriore avvicinamento alla Cina, tuttavia, appare tutt’altro che scontato o privo di ostacoli. Se da Pechino ci si muove tradizionalmente con circospezione e pragmatismo per non sconvolgere equilibri di potere consolidati e mettere a rischio i propri interessi strategici ed economici, gli stessi pakistani non possono disfarsi facilmente di un legame con Washington che garantisce ingenti aiuti economici e forniture militari, soprattutto in vista di una prolungata occupazione del vicino Afghanistan.

In questo complesso intreccio, in ogni caso, il sovrapporsi agli antagonismi locali delle rivalità che dividono le due principali potenze del pianeta rischiano di aggravare i conflitti esplosivi che ruotano attorno al controllo della regione centro-asiatica, con pericolose conseguenze per l’intero pianeta.

di Carlo Musilli

Se ne sono ricordati a Deauville, ma ormai è tardi per evitare il peggio. Nel corso dell'ultima riunione in Francia, i Paesi del G8 sono tornati a parlare di Yemen. Hanno chiesto le dimissioni del dittatore Ali Abdullah Saleh, in carica da 33 anni. Nel documento finale del vertice hanno esortato il Presidente a firmare l'accordo proposto dalle monarchie del Golfo Arabo per una transizione democratica dei poteri. Intanto a Sana'a continua la mattanza. E i ministri degli esteri europei ogni giorno "deplorano l'accaduto".

Dal summit francese è arrivata almeno una conferma: agli occhi dei potenti le primavere arabe non sono tutte uguali. Le grandi democrazie occidentali non ritengono valga la pena di sporcarsi le mani in un pantano da cui non si può ricavare (quasi) nulla. Hanno stanziato 40 miliardi di dollari per i Paesi arabi in cui c'è una democrazia da ricostruire e per quelli in cui la guerra ancora continua. Quei soldi non sono ancora stati spartiti, ma con ogni probabilità saranno destinati in primo luogo a Egitto e Tunisia, poi a Libia e Siria. Fino ad ora per lo Yemen non è stata sprecata nemmeno una risoluzione Onu.

Eppure le sorti del Paese stanno a cuore almeno agli Stati Uniti, che fino a pochi mesi fa erano i migliori amici di Saleh. Agli americani interessa che la crisi yemenita non si prolunghi eccessivamente e abbia un esito politicamente accettabile. Si tratta di evitare che Al Qaeda nella Penisola Arabica ampli eccessivamente i suoi spazi di manovra.

Per diverse settimane gli Usa hanno riposto quasi tutte le loro speranze nella mediazione Consiglio di cooperazione del Golfo, guidato dall'Arabia Saudita, l'alleato di sempre. Da qualche giorno sembra che stiano finalmente valutando l'opportunità di ricorrere alle Nazioni Unite. Peccato che la strategia internazionale di cui si parla non preveda sanzioni di rilievo, ma solo l'ennesima richiesta di dimissioni al dittatore.

Davvero poco per pensare di risolvere una crisi che ogni giorno diventa più complessa. La settimana scorsa il conflitto yemenita ha subito una metamorfosi decisiva. Dopo che Saleh ha rifiutato per la quarta volta di firmare il piano di mediazione del Golfo, a Sana'a sono iniziati gli scontri più sanguinosi dall'inizio delle proteste.

Cinque mesi fa la sollevazione iniziò per iniziativa di alcuni studenti universitari della capitale. Ma se la forza propulsiva del conflitto è nata dal basso, la sua capacità di resistere proviene dall'alto. Ormai il movimento popolare ha un'importanza secondaria. Il vero scontro è quello fra le alte sfere del potere politico e militare. Come rileva un rapporto dell'International Crisis Group, "la guerra è diventata una lotta personale tra la famiglia del Presidente e la confederazione degli Hashed", il gruppo tribale più importante del Paese, capeggiato dallo sceicco Sadiq Al Ahmar.

In particolare, "nel tentativo di mediazione tra le tribù rivali - si legge ancora nel report - le rivalità personali e la competizione per il potere tra i figli di Sadiq, i suoi nove fratelli, i figli e i nipoti del presidente Saleh sono il primo ostacolo ai negoziati per un pacifico trasferimento dei poteri". Non è solo lo scontro tribale a mettere il Paese sui binari di un'anarchia che pare senza soluzione, ma anche la lotta intestina che si registra all'interno delle singole fazioni.

Intanto il sangue continua a scorrere in tutto il Paese. Le forze di sicurezza di Saleh e i miliziani Hashed si fronteggiano ogni giorno in battaglie di strada. Soltanto la settimana scorsa gli scontri hanno provocato un centinaio di morti (su un totale di 250 vittime dall'inizio delle proteste, secondo una stima della France Presse). Venerdì fra le due parti è stata siglata una tregua. Ma si trattava di un bluff. Subito dopo il “cessate il fuoco”, alcuni gruppi tribali hanno attaccato un check point a nord della capitale, uccidendo una decina di persone.

Eppure, a sentire Sadiq, una mediazione sarebbe ancora possibile: "Se Saleh vuole una rivoluzione pacifica, noi siamo pronti - ha detto il leader di Hashed - ma se vuole la guerra, noi combatteremo". Il rischio concreto è che alla fine della guerra il potere finisca davvero nelle mani dei capotribù. Se così fosse, sarebbe difficile per gli studenti yemeniti immaginare un futuro migliore. La soluzione in cui tutti sperano è che Saleh sia costretto all'esilio dalle pressioni internazionali. Fino ad ora però siamo andati poco oltre il solletico.

 


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