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di Martina Iannizzotto
DAMASCO. Da più di un mese l’aria é cambiata in Siria e non solo perché é scoppiata prepotentemente la primavera metereologica. Del resto sarebbe stato difficile credere che la primavera araba non avrebbe toccato un paese così importante e significativo per la regione come la Siria. Un mese fa la paura di parlare di politica, di esprimere dissenso era totale, nei caffè ci si guardava continuamente intorno per vedere se agenti della polizia segreta, il temuto mohabarat, stessero ascoltando e osservando. Ora la paura é ancora presente, gli agenti dal mohabarat ancora attivi, si avverte tensione e preoccupazione, ma non si può fare finta che non sia accaduto niente.
Dal quindici marzo in un’ondata di proteste senza precedenti migliaia di manifestanti sono scesi in piazza a Daraa, Latakia, Homs, Hama ed altre località del paese per chiedere riforme, libertà, la fine dello stato d’emergenza, la liberazione dei prigionieri politici. Non si sono viste le folle oceaniche come in Piazza Tahrir a il Cairo, ma questi eventi erano impensabili fino ad alcune settimane prima nel sistema siriano, dove dal 1963 é in vigore lo stato d’emergenza che proibisce ogni dissenso e la popolazione vive sotto il controllo della polizia segreta.
Il primo episodio si é registrato già il 18 Febbraio nel mercato centrale (suq) di Damasco, quando due poliziotti hanno picchiato il figlio di un negoziante - un genere di incontro con l’aurorità che vivono spesso i cittadini dei paesi arabi - e nel giro di qualche ora si é radunata una folla di mille persone che urlava “il popolo siriano non può essere umiliato”. E’ intervenuto personalmente il Ministro degli Interni assicurando un’indagine sull’episodio. Il video della scena ha avuto un’enorme diffusione su youtube, il cui accesso, insieme a facebook, era stato liberalizzato ad inizio febbraio. Una scena senza precedenti in Siria, indicativa di come la popolazione sia soprattutto stanca di subire una burocrazia autoritaria e corrotta.
La rivolta é partita da Daraa, cittadina rurale conservatrice al confine con la Giordania, anche in questo caso legata ad episodio specifico: la liberazione di 15 teenagers arrestati per aver scritto dei graffiti contro il regime galvanizzati dai moti tunisini ed egiziani. Venerdì 18 marzo, chiamato giorno della dignità, la prima manifestazione repressa dalla polizia ha provocato quattro vittime. Il giorno seguente, i funerali delle vittime, considerate martiri, a cui hanno partecipato migliaia di persone, si sono trasformate in nuove proteste, con nuove repressioni e nuove vittime.
Si va a Daraa con un bus di linea, perché la città é circondata da soldati e non é permesso l’ingresso ai giornalisti; la sensazione è che tutta la città, non solo le espressioni più religiose, sia compatta dietro la rivolta, si senta ferita nella propria dignità: “karama” è un concetto fondamentale per capire la natura delle rivolte nei paesi arabi. Questa spirale manifestazioni-repressione-vittime ha allargato la protesta a villaggi vicini a Daraa e ad altre città. A Latakia, città portuale multi religiosa, da cui proviene la famiglia Assad, cecchini hanno sparato dai tetti contro manifestanti causando dodici vittime.
Secondo l’agenzia ufficiale Sana si tratta di bande armate che tentano di terrorizzare la popolazione e di alimentare uno scontro interreligioso, secondo gli attivisti si tratta delle stesse forze di sicurezza speciali e di milizie para-governative. Venerdì primo Aprile, il terzo venerdì di manifestazioni, definito “giorno dei martiri”, con chiamata alla mobilitazione fuori dalle moschee dopo la preghiera, uno degli slogan era “il sangue dei martiri non é invano”, “con i nostri corpi e le nostre anime ci sacrifichiamo per te Daraa”. Le forze di sicurezza hanno provocato dieci vittime a Duma, sobborgo vicino Damasco.
Lo spettro di un conflitto settario e confessionale é particolarmente avvertito dalla popolazione siriana, che ha ben presenti i casi dei vicini Iraq e Libano. La Siria é un paese multi religioso e multietnico: oltre ad una maggioranza sunnita (circa 75%), sono presenti alauiti, una setta sciita cui appartiene la famiglia Assad e da cui provengono i vertici dell’apparato militare e politico (12%), cristiani di vari riti (circa 8%), druzi, ismailiti. Una significativa porzione della popolazione (circa il 15%) é di etnia curda, concentrata soprattutto nel nord-est del paese.
Secondo organizzazioni dei diritti umani circa 300.000 curdi non hanno cittadinanza siriana e sono privi di diritti. Il regime secolare nazionalista del partito Baath e la concentrazione del potere nelle mani della minoranza alauita ha garantito stabilità ed equilibrio interno tra le varie comunità.
Le proteste in Siria sono variegate come la composizione comunitaria e geografica del paese: é sicuramente forte la componente dell’islam politico che rivendica maggior potere così come ci sono i ragazzi della generazione facebook, del tutto simili ai loro coetanei egiziani, che utilizzano twitter ed il gruppo facebook “Syrian revolution 2011”, ma sembra che tutti convergono nella richiesta fondamentale: hurryat, libertà. Che praticamente significa via lo stato d’emergenza e l’apparato del mohabarat, elezioni libere e multipartitiche, media indipendenti, liberazione dei prigionieri politici.
Il regime ha risposto con il bastone e la carota: repressione violenta che ha causato trenta vittime secondo fonti governative ed oltre cento secondo attivisti e difensori dei diritti umani, ma anche alcune concessioni (nuovo Esecutivo, sostituzione del governatore di Daraa e Homs, concessione della cittadinanza ai curdi apolidi) e promesse di riforme.
Il presidente Bashar Al Assad, dopo aver tenuto il paese in sospeso per giorni, ha pronunciato un attesissimo discorso in cui ha accusato una cospirazione internazionale di voler destabilizzare la Siria e ha reiterato vaghe promesse di riforme, senza alcun impegno concreto come la cancellazione dello stato d’emergenza che molti si aspettavano. Larga parte della popolazione é rimasta delusa, anche se la popolarità del presidente rimane alta.
Nei raduni organizzati a sostegno di Assad si vedeva autentico supporto. E anche nelle manifestazioni di protesta non si sentono (ancora) urlare slogan come “il popolo vuole abbattere il sistema”. Ma ormai nessuno, neanche la televisione ufficiale, può far finta che non esistano manifestazioni di protesta e dissenso. Gli scenari futuri sono difficili da prevedere. Il presidente ha promesso riforme politiche e democratiche, ma erano attese gia’ dieci anni fa quando Bashar e’ subentrato al padre Hafez, e sono arrivate solo le liberalizzazioni economiche che hanno aumentato la disparita’ tra ricchi e poveri. In tanti diffidano che l’elite al potere implementi quelle riforme da cui sarebbe penalizzata.
Allo stesso tempo la popolarita’ del presidente Bashar Al Assad, dovuta in larga parte alla sua immagine personale e alla politica estera siriana non accomodante verso gli Stati Uniti ed Israele, la paura dell’instabilita’ e del conflitto interconfessionale che potrebbe scoppiare con la caduta del regime, il pervicace sistema di repressione del dissenso, un’opposizione debole e divisa fanno si’ che al momento questi fuochi di rivolta divampati in varie localita’ del paese non rappresentino una vera minaccia per il regime siriano. Ma sono abbastanza seri da provocare delle reazioni da parte del governo e da preoccupare la popolazione sul futuro del paese.
Come negli altri paesi arabi, anche in Siria un’intera generazione chiede liberta’, dignita’, la fine della pura, un sistema di autorita’ non corrotto e nepototistico, migliori condizioni economiche. Domande a cui e’ difficile dare una risposta, ma e’ impossibile negarla.
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di Michele Paris
Con un messaggio video indirizzato ai propri sostenitori, Barack Obama qualche giorno fa ha lanciato ufficialmente la campagna elettorale per la sua rielezione alla presidenza degli Stati Uniti nel 2012. Il comunicato dell’attuale inquilino della Casa Bianca è stato accompagnato - sia pure in maniera più discreta - dall’inevitabile supplica nei confronti dei soliti facoltosi finanziatori del Partito Democratico e dal consueto appello alla classe media americana, come sempre rispolverato all’approssimarsi dell’appuntamento con le urne.
L’avvio ufficiale delle operazioni per il team di Obama è stato possibile dopo la presentazione lunedì scorso della documentazione necessaria alla Commissione Elettorale Federale, una procedura che ha permesso al Presidente in carica di iniziare a raccogliere fondi e mettere assieme uno staff per il coordinamento della campagna.
Come ampiamente sottolineato dalla stampa statunitense, l’obiettivo di Obama è quello di superare la cifra record raccolta nel 2008 e possibilmente di sfondare per la prima volta nella storia del paese il tetto del miliardo di dollari. Per la sua prima elezione, l’allora senatore dell’Illinois fu in grado di contare su oltre 775 milioni di dollari, vale a dire più del doppio di quanto a disposizione della campagna elettorale di George W. Bush nel 2004. Nonostante la pretesa di aver mobilitato un numero enorme di piccoli donatori, la gran parte del denaro raccolto giunse in realtà da singoli contributi superiori ai mille dollari.
I grossi finanziatori continuano ovviamente a giocare un ruolo fondamentale nella selezione della classe politica americana, la quale una volta giunta a Washington finisce pressoché esclusivamente per occuparsi dei loro interessi. A conferma delle manovre orchestrate dietro le quinte dagli uomini di Obama c’è un recente incontro tra il responsabile della campagna elettorale, Jim Messina, e i maggiori finanziatori democratici, ai quali è stato chiesto di raccogliere 350 mila dollari ciascuno entro il 2011.
Queste iniziative precoci consentono agli aspiranti alla Casa Bianca del Partito Democratico e Repubblicano di presentarsi all’inizio delle competizioni elettorali (primarie) con somme enormi, così da impedire sul nascere qualsiasi sfida eventualmente proveniente da potenziali candidati non legati ai grandi interessi economici e finanziari del paese.
L’appello di Obama ha in ogni caso rivelato le difficoltà che lo attendono sulla strada verso un secondo mandato. Oltre a ribadire la tradizionale convinzione che a decidere le sorti del voto saranno i cosiddetti elettori “indipendenti”, svincolati dai due principali partiti e recentemente gravitanti attorno all’orbita repubblicana, il presidente democratico ha ammesso di non poter più contare sulla carica innovativa che lo favorì nel 2008.
In quell’occasione gli Stati Uniti uscivano da otto anni tra i più bui della loro storia e il messaggio di cambiamento promosso da Obama - assieme alle sue qualità retoriche - incontrò il desiderio di voltare pagina ampiamente diffuso tra gli americani. Già a due anni di distanza dal suo approdo alla Casa Bianca, tuttavia, la delusione per un Presidente che si è raramente distinto dal suo predecessore, è ormai estremamente diffusa.
Da un lato, gli elettori indipendenti sembrano aver prestato ascolto alle accuse rivolte verso l’amministrazione Obama dagli ambienti repubblicani per una presunta espansione oltre il dovuto delle prerogative del governo federale; dall’altro l’ala liberal del Partito Democratico ha perso ogni speranza di poter assistere ad un’accelerazione in senso progressista. Ancora più grave è poi lo sconforto di quegli americani, quasi sempre appartenenti ai ceti più disagiati, che hanno disertato e continueranno a disertare le urne, avvertendo correttamente l’impossibilità di trovare risposta ai propri problemi all’interno di questo sistema bipartitico.
Il racconto del primo biennio della presidenza Obama è d’altra parte costellato d’iniziative e decisioni rivolte alla difesa delle élite economiche sul fronte domestico e, su quello internazionale, degli interessi imperialistici statunitensi. Il primo Presidente di colore della storia americana, durante il suo primo mandato, ha così ampliato il piano di salvataggio delle banche colpite dalla crisi dell’autunno 2008 e già approvato verso la fine dell’era Bush, determinando il prosciugamento delle casse pubbliche a cui ora si cerca di far fronte tagliando selvaggiamente la spesa sociale.
Se i profitti delle corporation e delle grandi banche di Wall Street sono tornati a livelli record, le condizioni dei lavoratori americani sono nettamente peggiorate e la percentuale dei disoccupati risulta in discesa solo grazie allo scoraggiamento di quanti hanno smesso di cercare un impiego, sparendo dalle statistiche ufficiali. Il prolungamento dei tagli alle tasse per i redditi più elevati voluti originariamente da Bush jr., inoltre, si è accompagnato ad un aumento effettivo del carico fiscale per quelli più bassi.
In politica estera e di sicurezza nazionale, infine, l’impegno militare in Iraq è stato solo apparentemente ridimensionato, mentre il coinvolgimento in Afghanistan è stato ampliato a fronte di una crescente ostilità tra gli americani verso un conflitto senza prospettive. Il lager di Guantanamo continua a rimanere in funzione, così come proseguono le detenzioni senza processo e gli abusi in nome della lotta al terrorismo. La recente avventura libica ha poi ulteriormente incontrato l’ostilità dell’opinione pubblica interna, tanto che i sondaggi più aggiornati indicano per Obama un indice di gradimento appena superiore al 40 per cento, cioè al livello più basso dall’insediamento alla Casa Bianca.
La situazione nel Partito Repubblicano potrebbe in ogni caso contribuire al successo della campagna elettorale di Obama. Tra i repubblicani, a tutt’oggi un solo candidato ha annunciato ufficialmente la sua intenzione di partecipare alle primarie - l’ex governatore del Minnesota, Tim Pawlenty - e finora non è chiaro chi potrà emergere come sfidante dell’attuale Presidente democratico. Il predominio dell’estrema destra nelle primarie repubblicane potrebbe oltretutto produrre un candidato difficile da digerire per moderati e indipendenti nelle elezioni presidenziali vere e proprie, favorendo di conseguenza Obama negli stati dove la situazione risulterà più incerta.
Nonostante il vantaggio dal punto di vista delle risorse finanziarie da investire in campagna elettorale, per Obama e il suo staff di stanza a Chicago cominciano ad emergere alcuni segnali preoccupanti. Gli effetti della più grave crisi dai tempi della Grande Depressione hanno causato il riemergere di un certo conflitto sociale anche negli USA - esploso ad esempio qualche settimana fa in maniera clamorosa in Wisconsin - e la consapevolezza tra la popolazione dell’irreversibilità di un sistema iniquo e totalmente controllato da una ristretta cerchia di privilegiati.
Se anche la campagna appena inaugurata per il voto del 2012 dovesse andare nuovamente a buon fine per Barack Obama, le prospettive per il suo eventuale secondo mandato appaiono già da ora tutt’altro che confortanti. Il Presidente democratico, infatti, si ritroverebbe con ogni probabilità a fronteggiare un Congresso interamente a maggioranza repubblicana, con il quale sarebbe costretto a cercare onerosi compromessi e a spostare inevitabilmente ancora più a destra la barra della sua azione politica.
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di Eugenio Roscini Vitali
Laurent Gbagbo non ha firmato la resa e le forze di Alassane Ouattara, il Capo di stato ivoriano legittimamente eletto il 28 novembre scorso, hanno lanciato l’attacco finale. Ouattara ha ritenuto che le trattative che avrebbero dovuto sancire l'uscita di scena di Gbagbo stessero andando troppo per le lunghe ed ha quindi deciso di intervenire militarmente: «Non lo hanno ancora catturato ma accadrà presto» ha dichiarato a France-24 la portavoce di Ouattara, Affoussy Bamba.
Nonostante il pugno di ferro francese i negoziati sono dunque falliti; ieri sera, mentre ad Abidjan le truppe di Ouattara circondavano la residenza presidenziale, in una intervista telefonica alla radio francese Lci, Gbagbo aveva affermato che i suoi uomini stavano solo negoziando una tregua e che a livello politico non era stata ancora presa alcuna decisione: «Ho vinto le elezioni e non sto negoziando la mia uscita di scena». Una dichiarazione tutto sommato franca che non lasciava margine di trattativa.
L’attacco è iniziato verso le otto del mattino, con colpi d’arma pesante alternati al lancio di razzi sparati contro la residenza personale di Gbagbo, nel quartiere di Cocody, e contro il palazzo presidenziale e la caserma della Gendarmeria d’Abgan; nel quartiere settentrionale di Adjamé è iniziata subito la caccia ai miliziani pro-Gbgabo mentre nella Zona 4C, tra Boulevard Valery Giscard d’Estaing e Boulevard de Marseille dove risiede la comunità europea e dove hanno sede numerose attività commerciali francesi, i giovani patrioti davano il via ad una serie di atti vandalici e saccheggi con l’incendio di auto e negozi.
Deserte le strade dei quartieri di Abobo e Anyama, epicentro degli scontri delle settimane scorse, e di Vridi-Canal, dove la gente vive chiusa in casa per paura dei furti e delle violenze commesse dai numerosi giovani che vanno in giro armati. Secondo alcune stime tra il Plateau (il centro) e Cocody ci sarebbero circa cinquemila uomini, soldati della Guardia Repubblicana e dei gruppi speciali della Gendarmeria, delle forze d’assalto della Marina (i Fumaco) e di una piccola parte dell’esercito regolare ancora fedele a Gbagbo.
Fino ad ora gli attacchi di arma pesante e le aggressioni non hanno risparmiato nessuno: saccheggiata e danneggiata gravemente l’Università di Abobo-Adjamé, interrotte le trasmissioni della televisione di Stato e delle radio private, colpiti il carcere civile di Maca e i quartieri di Anyama, Yopougon, Akandjé e Williamsville; rapiti e trucidati decine di civili, sequestrato e poi liberato il direttore diocesano della Caritas in Costa d’Avorio, Richard Kissi, prete ivoriano incaricato di distribuire viveri e medicinali a circa 1600 sfollati che da settimane sono rifugiati presso la scuola cattolica, la locale moschea e alcune parrocchie.
Gbagbo sta mostrando un certo grado di resistenza ed è difficile sapere cosa stia realmente accadendo; le fonti Misna parlano di una città deserta e di una popolazione rinchiusa in casa. Sono ormai alcuni giorni che nella capitale economica della Costa d’Avorio manca l’acqua e la corrente elettrica; le scorte alimentari cominciano a scarseggiare e la situazione umanitaria è assolutamente drammatica, con gli ospedali che iniziano a non poter più fronteggiare le emergenze. La comunità internazionale spinge affinché il presidente uscente dia le dimissioni e dopo le misure restrittive varate alcune settimane nei confronti di 92 personalità ivoriane, ieri Bruxelles ha deciso di colpire Gbagdo con nuove sanzioni finanziarie.
Da Parigi intanto arriva l’ammissione del ministro degli Affari esteri francese, Alan Juppé, che ha riconosciuto il fallimento dei negoziati ed ha e sostenuto che né le forze francesi né quelle dell’Onu sono coinvolte in queste ultime operazioni militari; di tutt’altra opinione il portavoce di Gbagbo, Ahoua Don Mello, che denuncia come i soldati dell’operazione “Licorne” starebbero intervenendo per fornire un sostegno aereo e terrestre a quello che ritengono l’assalto finale.
C’è chi sospetta che Gbagbo avesse già preparato il discorso di resa e contattato il governo del Benin per chiedere rifugio per sé e per i suoi figli, ma sembra il ministro della Gioventù, Charles Ble Goudé, il Consigliere spirituale della presidenza, Moise Koré, e la moglie Simone, già invischiata nella misteriosa scomparsa del giornalista franco-canadase Guy André Kieffers, lo abbiano “convinto” a combattere fino alla fine. Una resistenza ad oltranza sembra comunque improbabile: Ouattara controlla il 90% del Paese e i bollettini confermano che dopo i razzi piovuti il 18 marzo sulla capitale, i soldati regolari delle Forces de Defense et de Sécurité (Fds) hanno abbandonato Agnibilekrou e Abengourou e hanno perso il controllo della “regione del cacao”.
Cadute Daloa e Duékoué, dove gli scontri a fuoco e i machete hanno causato la morte di circa 500 civili, le Forces Républicaines de Cote d'Ivoire (Frci) di Ouattara hanno preso il controllo di Buyo e Soubré, conquistato il porto di San Pedro, le località di Tanda e Tiébissou e la capitale politica Yamoussoukro, città nativa di Félix Houphouet-Boigny, padre della Nazione; sigillate le vie di comunicazione che portano alla frontiera con la Liberia, e le direttrici da dove, fino a pochi giorni fa, arrivava il flusso di mercenari assoldati dal regime.
Mentre Gbagbo perde posizioni, in Costa d’Avorio il quadro politico si fa sempre più complica e non è detto che la resa del fondatore del Fronte Popolare Ivoriano (Fpi) metta la parola fine alla crisi. Le vittorie riportate dalle Frci, l’esercito voluto da Ouattara per dare una veste più credibile ai guerriglieri delle Forces Armées des Forces Nouvelles (Fafn), stanno logorando i nervi degli ex guerriglieri e sembra che lo stesso premier Soro sia pronto a rivendicare il ruolo di leader della resistenza, così come sono pronti a presentare il conto tutti coloro che sono rimasti fuori dalla spartizione delle poltrone seguita alla guerra civile.
Non si è poi ancora ben capito dove vogliano arrivare i Commando invisibili del generale ribelle Ibrahim Coulibaly e la partita che stanno giocando uomini di vertice come il Capo di stato maggiore Soumaila Bakayokò e il Colonnello Michel Gueu, comandante in seconda della regione di Bouaké, ex zona ribelle della Valle del Bandama.
Abidjan è un vulcano pronto ad esplodere, una città sotto assedio dove proliferano gruppi armati di ogni forma e foggia, formati da mercenari provenienti dalla Sierra Leone, dalla Liberia, dal Senegal e dalla Nigeria, brigate pro e contro Gbagbo e commando al soldo dei signori della guerra. Dopo la notizia del rapimento di due francesi, un malese e un cittadino del Benin, prelevati da un gruppo di uomini armati penetrati all’interno dell’albergo della capitale nel quale alloggiavano, le truppe di Parigi hanno accelerato le operazioni per evacuare i circa 12 mila stranieri presenti nell’ex colonia e nella capitale sono stati organizzati tre punti di raccolta, centri presso i quali vengono organizzati i trasferimenti per l’aeroporto di Houphouet-Boigny controllato dalle teste di cuoio della Brigata francese.
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di Vincenzo Maddaloni
Un morto e sedici feriti domenica a Kandahar, nel sud dell'Afghanistan, nel secondo giorno consecutivo di proteste contro il rogo del Corano. Centinaia di persone sono scese in strada per dimostrare contro il gesto provocatorio di un pastore della Florida; nella sassaiola che ne é seguita decine di persone sono rimaste ferite, di cui due in modo grave, e una è rimasta uccisa.
Sabato nell'ex roccaforte dei talebani c'erano stati dieci morti e un'ottantina di feriti dopo che la polizia aveva impedito alla folla di raggiungere gli uffici dell'Onu e la sede del governatore. Il giorno precedente, dopo la preghiera del venerdì, la folla aveva assalito la sede dell'Onu uccidendo quattro guardie nepalesi e tre operatori occidentali. Le violenze sono state scatenate dal gesto del predicatore estremista Wayne Sapp, che il 21 marzo aveva bruciato una copia del libro sacro dei musulmani in una chiesa della Florida.
Fin qui la cronaca che è stata commentata dal Presidente americano, Barack Obama, il quale ha condannato il rogo del Corano definendolo «un atto di estrema intolleranza e bigottismo». «Tuttavia», ha affermato in una dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca sull'assalto di venerdì alla sede Onu di Mazar-i-Sharif, in Afghanistan, «attaccare e uccidere persone innocenti come risposta è un atto scellerato».
E così il gesto inconsulto del - si fa per dire - reverendo Wayne Sapp e le spaventose reazioni a catena che esso ha generato hanno fatto dimenticare di colpo il grido «Allah è grande» che si era levato contro regimi autoritari e corrotti del Maghreb, e che aveva salutato la morte di Mohamed Bouaziri, il ragazzo che si era dato fuoco scatenando la rivoluzione tunisina.
E’ come se di colpo si fosse ritornati all’epoca delle Crociate, durante la quale la ricerca di un nemico detestabile per una guerra giusta e santa - la liberazione dei cristiani d’Oriente - necessaria alla creazione del mito aggregante dell’Europa attorno al Papato, non portava più a dipingere i musulmani come la “gens perfida Saracenorum” del monaco Flodoardo del X secolo, ma ad individuare nel musulmano il nemico della fede.
Si negava in tal modo alla cultura musulmana ogni significato spirituale o religioso attraverso gli scritti di Pietro il Venerabile, San Tomaso d’Aquino, Ricoldo di Montecroce. L’Islam diventava impostura, perversione deliberata della Verità; la religione della violenza e della spada; Maometto che rappresenta l’anti-Cristo, e via di questo passo.
Così recitando gli stereotipi negativi sul mondo musulmano hanno percorso l’Europa e varcato gli oceani inserendosi nella coscienza occidentale. E tuttora vi rimangono come lo attestano le farneticazioni del reverendo Sapp, il quale dopo il misfatto continua a sostenere di avere previsto le violente conseguenze ma di non provarne alcun rimorso. Beninteso, un personaggio come il reverendo Sapp andrebbe escluso dalla società civile poiché sono le provocazioni come la sua che scatenano le piazze del mondo islamico.
Infatti, il rogo del Corano ridiventa il clamoroso ossessivo richiamo alla superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica o della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana. Esso vuole riaffermare vecchie immagini, gli antichi capi d’accusa secondo i quali l’Islam è una religione violenta, che si è diffusa con l’uso delle armi: una religione dissoluta dal punto di vista morale; una religione piena di false affermazioni e di consapevoli capovolgimenti della verità. Maometto, con tutte le sue debolezze morali, non poteva che essere il fondatore di una falsa religione e, come tale, uno strumento o un inviato del demonio.
Non è così che si vince la guerra al fondamentalismo che l’Occidente ha lasciato sopravvivere dentro di sé e che gli ha impedito ogni serena valutazione sulle ragioni profonde che stanno all’origine di ogni protesta dei musulmani. Dopotutto l’integralismo islamico non è nato oggi. Nasce dalla disfatta araba del 1967. L’Occidente non ha mai percepito l’intensità di quell’umiliazione.
Da allora i musulmani sanno che l’Occidente sarà sempre al fianco di Israele. Di fronte al fallimento del nazionalismo progressista, del nasserismo, del baathismo, i musulmani militanti, eredi del rinascimento arabo, capiscono che la loro ora è venuta, sostengono che “invece di modernizzare l’Islam, bisogna islamizzare la modernità”. Insieme teorico e dottrinale, il radicalismo islamico propone un’alternativa messianica rivoluzionaria e universale all’egemonia occidentale.
Si tratta di un progetto escatologico che ha percorso con fasi alterne gli ultimi trent’anni del secolo scorso e si è evidenziato in maniera drammatica con la comparsa di bin Laden. Che è stato enfatizzato dall’amministrazione Bush per poter giustificare la guerra in Medio Oriente come un imperativo etico o addirittura religioso, e non per quello che effettivamente è: la strategia imperiale del governo del mondo.
Obama non l’ha (finora) rinnegata. Perché “religionizzare” la politica è un’abitudine diffusa dei vari governi che si succedono a Washington. Non è ristretta soltanto al Medio Oriente. E’ operante anche in America, dove lo scontro tra Dio e Satana, tra il Bene e il Male, pervade il confronto politico perché l'identità tradizionale americana è costruita intorno al "The Creed", il Credo, ossia la fede tipicamente americana nella libertà, nella democrazia, nei diritti individuali.
È un peccato - ripeto - che il concetto di libertà vigente negli States non preveda per certi individui, come il reverendo Wayne Sapp l’esclusione dal consorzio civile.
Dopotutto - è risaputo - assicurarsi la presenza in Medio Oriente vuol dire per l’America il controllo delle più vaste risorse energetiche del pianeta, altro che superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica o della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana.
Semmai il vero problema, come ricordava Henry Corbin, non è di discutere quello che gli Occidentali trovano o non trovano nel Corano, quanto di sapere quello che i musulmani vi avrebbero di fatto trovato. Ma il dialogo si annuncia surreale. Come quando chiesero a quel ragazzo che passava con una fiaccola accesa in mano: «Da dove viene questa luce?». Tosto egli spense la fiaccola e gli rispose: «Dimmi tu dove é andata, e ti dirò da dove veniva». Corbin non aggiunge altro.
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di Michele Paris
Con una settimana di ritardo rispetto alle previsioni, lunedì la commissione elettorale di Haiti ha proclamato il discusso cantante Michel Martelly nuovo presidente dell’isola caraibica. Il ballottaggio per le presidenziali è andato in scena dopo il contestato primo turno dello scorso novembre ed è stato nuovamente caratterizzato da numerose accuse di brogli e da una bassissima affluenza alle urne.
L’altro contendente a succedere all’attuale Presidente, René Préval, era la 70enne docente universitaria, Mirlande Manigat, moglie dell’ex presidente haitiano Leslie Manigat. Al secondo turno del 20 marzo, secondo i dati provvisori, Martelly - conosciuto con il nome di scena “Sweet Micky” - avrebbe raccolto ben il 68 per cento dei voti contro poco più del 32 per cento a favore della sua rivale, ottenendo la gran parte dei consensi andati agli altri diciassette partecipanti esclusi dopo il primo turno.
Il dato più significativo del confronto tra i due candidati, entrambi di destra, sarà in ogni caso quello dell’astensione. Anche se il Consiglio Elettorale Provvisorio non ha ancora reso noto questo numero, è improbabile che lo scoraggiamento degli elettori e la sostanziale affinità di vedute tra Martelly e Manigat siano riusciti a trascinare alle urne più del già misero 23 per cento di votanti che avevano partecipato al primo turno.
Subito dopo l’annuncio dei risultati, i sostenitori del neo-presidente si sono riversati nelle strade della capitale, Port-au-Prince, per festeggiare, mentre il contingente militare delle Nazioni Unite presente sull’isola aveva alzato il livello di allerta in previsione di possibili scontri. Disordini diffusi erano infatti avvenuti in occasione del primo turno, dopo che le voci di irregolarità avevano iniziato a diffondersi nel paese.
Ad alimentare gli scontri in quell’occasione erano stati soprattutto gli elettori di Martelly. Il loro candidato, secondo i primi dati, si era classificato terzo alle spalle di Mirlande Manigat e del candidato del partito di governo, Jude Célestin. Dopo una lunga indagine sui brogli da parte dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), le pressioni degli Stati Uniti e della comunità internazionale avevano finito per convincere Célestin a fare un passo indietro, promuovendo invece Martelly al ballottaggio.
Secondo le parole dello stesso Consiglio Elettorale Provvisorio, anche per il ballottaggio, “nel calcolo dei voti è stato riscontrato un livello elevato di brogli e irregolarità di vario genere”. Questo giudizio aveva così determinato il rinvio della pubblicazione dei dati provvisori, inizialmente fissata per giovedì scorso. I risultati definitivi verranno resi noti solo il 16 aprile prossimo, una volta scaduti i termini per eventuali ricorsi.
Per i pochi haitiani che si sono recati alle urne, la candidatura di Michel Martelly può aver rappresentato l’illusione di una scelta alternativa alla classe politica locale per fronteggiare i drammatici problemi del paese più povero dell’intero continente, che continua a vivere le conseguenze del devastante sisma del gennaio 2010. Martelly, tuttavia, oltre a dover fare i conti con un primo ministro scelto dal Parlamento nel quale il partito dell’ormai ex presidente Préval detiene la maggioranza, ha un passato tutt’altro che cristallino.
Il 50enne cantante di kompa ha basato la propria campagna elettorale su un messaggio di cambiamento per rompere con decenni di corruzione e cattivo governo dell’isola. Il suo appello contrasta però fortemente con un passato che l’ha visto molto vicino ai regimi dittatoriali, e alle relative forze paramilitari, che hanno governato Haiti negli ultimi tre decenni. Martelly è considerato inoltre un oppositore irriducibile del due volte ex presidente Jean-Bertrand Aristide, rimosso da altrettanti Colpi di Stato nel 1991 e nel 2004 con il beneplacito di Washington.
Proprio il ritorno in patria di Aristide dal suo esilio in Sudafrica due giorni prima del ballottaggio aveva fatto temere l’esplosione di possibili tensioni, soprattutto alla luce del consenso ancora molto forte raccolto da quest’ultimo tra gli haitiani più poveri e dalla controversa esclusione del suo partito - Fanmi Lavalas - dal voto. Nonostante la condanna espressa da Aristide nei confronti del trattamento subito dal suo movimento, il suo rimpatrio non ha apparentemente contribuito ad aggravare l’atmosfera nella quale si è tenuto il secondo turno delle elezioni presidenziali.
Se l’elezione di Michel Martelly farà ben poco per migliorare la situazione della maggior parte degli haitiani, il voto del 20 marzo scorso è sembrato invece soddisfare ampiamente la comunità internazionale che di fatto controlla le sorti dell’isola. Gli USA, l’Unione Europea, l’OSA e le Nazioni Unite, attraverso il Segretario Generale Ban Ki-Moon, si sono congratulati per la buona riuscita dell’elezione.
Il loro auspicio, d’altra parte, era precisamente quello di un passaggio dei poteri senza scosse e di installare un nuovo presidente in grado di continuare a garantire la stabilità ad Haiti e nell’intera regione caraibica. Un obiettivo che potrebbe però essere messo in pericolo già a breve, di fronte ad un malcontento sempre crescente e agli effetti del ritorno dello stesso Aristide, tuttora estremamente popolare proprio tra quella massa di haitiani che difficilmente potrà beneficiare della recentissima elezione di Michel Martelly.