di Carlo Musilli

Alla fine lo ha fatto davvero: ha dato fuoco al Corano. Per chi se lo fosse scordato, parliamo di Terry Jones, il bigotto fondamentalista che l'estate scorsa ha tenuto col fiato sospeso le diplomazie di mezzo mondo con il suo progetto di falò medievale. E così ha fatto. Lo scorso 20 marzo, nella sua sperduta chiesetta in Florida, ha organizzato addirittura un "processo al Corano". Una farsa durata sei ore a cui hanno partecipato quattro gatti. L'accusa era affidata a un ex islamico convertitosi al cristianesimo, la difesa a un non meglio precisato "imam di Dallas".

Evidentemente il Corano aveva poche chance di cavarsela. Come da pronostico, è arrivata la condanna per "istigazione alla violenza". Allo scopo di emendare il libro islamico dai suoi peccati, gli invasati di Gainsville hanno messo in piedi una specie di rito stregonesco. Una copia del testo è stata lasciata a mollo nel cherosene per un'ora. Poi è stata depositata in una scatola al centro della chiesa. Uno zippo vecchia maniera ha fatto il resto. Burn baby, burn.

Ma siccome Terry oltre ad essere un truffatore è anche un gran vigliacco, la mano che ha fatto scattare la scintilla non è stata la sua. Ad eseguire la sentenza ci ha pensato il suo fido aiutante, tale Wayne Sapp. Praticamente quello che il giovane Semola era per mago Merlino.

Nelle originarie intenzioni malate di Jones, il "Coran Burning Day"doveva tenersi l'11 settembre e puntava a cavalcare l'indignazione degli americani per la possibile costruzione di una moschea accanto a Ground Zero. All'epoca Terry era una star. Decine di giornalisti affollavano il praticello davanti al suo Centro di Gainsville, in Florida. Non una vera chiesa, ma una specie di setta con una trentina di adepti.

In effetti, nemmeno Terry è mai stato un vero pastore. La sua storia è piuttosto quella di un ladruncolo di provincia. In gioventù vendeva macchine usate, poi si trasferì in Germania e ha iniziò a predicare il Verbo. Quando lo beccarono con le mani nella cassetta delle elemosine tornò in patria, senza però abbandonare il pulpito. Dopo anni passati a prendersela inutilmente con immigrati, gay, trans e lesbiche, Terry ha trovato nell'Islam la gallina dalle uova d'oro.

A inizio settembre, Fbi, Interpol e servizi segreti lo tenevano d'occhio angosciati. Non potevano fare nulla per fermarlo: il primo emendamento della Costituzione americana consente perfino di fare il barbecue con un testo sacro, anche se questo potrebbe causare rivolte e attentati un po' ovunque. Alla fine era intervento direttamente Obama e Terry si era convinto a lasciar perdere. Pericolo scampato? Nemmeno per sogno.

Sei mesi dopo, è ancora il Terry di sempre. Stessi baffoni a uncino da cow boy, stesso pistolone calibro 40 sotto la giacchetta, stessa convinzione di parlare per bocca di Dio. In più, il predicatore ha soltanto un profondo risentimento per esser stato dimenticato tanto in fretta. Deve aver pensato che l'unico modo per tornare in cima alle cronache fosse dar seguito alle vecchie minacce.

Nonostante l'impegno profuso, all'inizio sembrava che Terry avesse fatto l'ennesimo buco nell'acqua. Nessun media americano lo ha degnato di uno sguardo. "Il pastore Jones ha già avuto il suo quarto d'ora di notorietà - ha detto Ibrahim Hooper, portavoce degli islamici statunitensi - non vogliamo regalargli neanche un minuto di più". Tutti continuavano ad ignorarlo. Ma nell'era di Youtube, ignorare davvero qualcuno è diventato quasi impossibile.

Il filmato del Corano flambé ha iniziato a girare sui siti islamici di tutto il mondo e alla fine si sono scomodati a condannare il gesto perfino i presidenti di Pakistane Afganistan. Quello che forse Terry non aveva ben chiaro era che le sue manone da vecchio commerciante di catorci si sarebbero presto sporcate di sangue.

Così un inutile e ignorantissimo gringo della Florida ha causato la morte di decine di persone in Medio Oriente. Le prime manifestazioni contro di lui sono state organizzate venerdì scorso in Afghanistan. Nella cittadina settentrionale di Mazar-i-Sharif, durante un attacco alla sede Onu, sono state uccise 12 persone, di cui due decapitate. Secondo una fonte Onu di New York, i morti sarebbero addirittura 20. Forse i responsabili della strage sono stati alcuni talebani infiltrati, ma non è arrivata alcuna rivendicazione dell'attacco.

Lo stesso giorno a Kabul, su istigazione del mullah, circa 200 persone si sono riunite davanti all'ambasciata americana gridando "morte all'America!" e bruciando la bandiera Usa. Sabato le proteste sono continuate a Kandahar, dove duemila persone sono scese in piazza. Il bilancio è stato di 10 morti e oltre 80 feriti. Sventato per un soffio il tentativo di tre kamikaze di farsi esplodere nella base Nato di Camp Phoenix. Ancora scontri ieri a Kandahar, dove un altro afgano è morto e a decine sono rimasti feriti.

Piuttosto imbarazzante il modo in cui Obama ha reagito a tutto questo. Com'è ovvio, il Presidente americano ha pronunciato subito parole dure contro le violenze. Ma la condanna della bravata di Jones è arrivata solo ieri, con colpevole ritardo. Per di più su esplicita richiesta del presidente afgano, Hamid Karzai.

E Terry? A chiunque sarebbero baluginati dei sensi di colpa, ma non a un cristiano fondamentalista come lui. Non solo ha detto di non sentirsi assolutamente responsabile per le uccisioni, ma ha anche chiesto agli Usa e all'Onu di reagire con forza "contro i paesi dominati dai musulmani". Per far capire al mondo che fa sul serio, Terry ha anche annunciato che intende allestire un nuovo "processo". Stavolta a salire sul banco degli imputati sarà il Profeta Maometto. E' così confermata la regola numero uno degli idioti: di fronte all'evidenza dell'errore, insisti, insisti, insisti ancora.

 

di Michele Paris 

L’11 febbraio scorso, la caduta di Hosni Mubarak era stata giustamente salutata come una clamorosa vittoria del movimento rivoluzionario egiziano. Nonostante la portata storica del risultato raggiunto dalle proteste di piazza, la giunta militare succeduta all’anziano dittatore ha fatto di tutto per impedire un reale cambiamento nel più importante paese arabo. La prevedibile attitudine controrivoluzionaria delle forze armate in Egitto ha trovato immediatamente il sostegno degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali, pronti a puntare su uno dei pilastri del precedente regime per conservare una qualche “stabilità” in una regione in pieno fermento.

La prova più evidente del ruolo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, alla guida dell’Egitto con poteri dittatoriali dopo aver rimosso Mubarak, è stata la promulgazione nella settimana scorsa di un decreto che mette fuori legge scioperi e manifestazioni di piazza che rechino disturbo all’attività delle compagnie pubbliche e private o all’economia del paese in genere.

L’iniziativa della giunta militare è arrivata dopo che le proteste e gli scioperi non accennavano a placarsi nelle settimane seguite all’uscita di scena di Mubarak e, in sostanza, finisce col criminalizzare quegli stessi metodi pacifici che centinaia di migliaia di persone avevano usato per chiedere il cambiamento.

Questo provvedimento serve ai militari per soffocare ulteriori proteste da parte dei cittadini egiziani e per bloccare sul nascere qualsiasi richiesta che vada al di là delle riforme di facciata adottate finora. Nel dopo-Mubarak, i cortei e gli scioperi di lavoratori di svariati settori dell’economia egiziana sono infatti proseguiti, con l’obiettivo di ottenere veri diritti democratici ma anche opportunità di lavoro, aumenti di stipendio, giustizia e il licenziamento di quei funzionari e manager compromessi con il vecchio regime.

Se è pur vero che per le strade del Cairo si respira oggi un’aria diversa, l’ossatura del regime rimane pressoché inalterata, così come molti uomini vicinissimi a Mubarak continuano a ricoprire incarichi di potere.

A guidare il Consiglio Supremo delle Forze Armate è il 75enne maresciallo di campo Mohamed Hussein Tantawi. Per due decenni Ministro della Difesa (dal 1991), quest’ultimo viene descritto in un cablo del marzo 2008, redatto dall’allora ambasciatore USA al Cairo Francis J. Ricciardone e pubblicato da Wikileaks, “ostile al cambiamento” e, come Mubarak, “interessato alla stabilità del regime e al mantenimento dello status quo fino alla fine”. Lo stesso premier, Essam Sharaf, era stato Ministro dei Trasporti tra il 2004 e il 2005 prima di dedicarsi all’insegnamento in seguito a divergenze con il governo e unirsi recentemente al movimento di protesta.

L’illusione di trovare nelle forze armate egiziane un alleato comune per la causa democratica si era diffusa rapidamente tra l’opposizione più o meno spontanea che si era riversata nelle strade a partire dalla fine di gennaio. L’atteggiamento relativamente moderato dei militari di fronte alle proteste e alla repressione violenta dell’apparato di polizia del regime aveva contribuito ad alimentare le speranze di molti. Questo entusiasmo, tuttavia, si è ben presto trasformato in diffidenza e rabbia non appena è apparso evidente che i vertici dell’esercito non rappresentano altro che una componente fondamentale del regime stesso.

In quanto tale, il Consiglio Supremo delle Forze Armate agisce per limitare il cambiamento nel paese e mantenere inalterata la struttura di un regime che si fonda su una ristretta cerchia di funzionari di alto rango e uomini d’affari arricchitisi a dismisura grazie ai favori ottenuti con la fedeltà dimostrata verso il deposto presidente Mubarak.

Per ottenere quest’obiettivo, la giunta militare continua ad appoggiarsi sul suo apparato di sicurezza - solo scalfito dagli eventi delle ultime settimane - e sullo stato di emergenza, in vigore dall’assassinio di Sadat nel 1981 e non ancora revocato nonostante le promesse. Un ruolo fondamentale lo svolge poi la collaborazione con le opposizioni nominali, come i Fratelli Musulmani, il partito liberale Wafd, il presidente della Lega Araba Amr Moussa e in una certa misura anche Mohamed ElBaradei, così da offrire una facciata di democrazia di fronte alla comunità internazionale.

A riprova della natura reazionaria della giunta militare egiziana c’è soprattutto la repressione messa in atto per spegnere le proteste di quanti hanno continuato a presentarsi in Piazza Tahrir e altrove negli ultimi due mesi. Violenze, detenzioni e addirittura abusi sessuali hanno contraddistinto la risposta di quelle forze armate che, nelle parole del portavoce della giunta, generale Ismail Etman, dovrebbero “proteggere e difendere la rivoluzione”.

La situazione egiziana, ormai passata in secondo piano sulla stampa occidentale, assieme alle durissime repressioni in paesi come Bahrain, Oman e Yemen e all’intervento militare in Libia evidenzia i formidabili ostacoli che stanno incontrando i movimenti popolari sorti in Medio Oriente e in Africa Settentrionale per chiedere libertà e giustizia sociale.

Gli strati più disagiati di queste popolazioni devono fronteggiare la resistenza delle élites locali, che reprimono nel sangue le proteste o, nella migliore delle ipotesi, concedono solo riforme superficiali; a queste si sommano le pressioni delle potenze occidentali che intervengono - anche militarmente, come nel caso libico - per proteggere i loro interessi.

In questo scenario, le cause che hanno scatenato le rivolte restano immutate: dalla povertà diffusa alla mancanza di spazi democratici, dalla corruzione dilagante alle disuguaglianze sociali sempre più marcate.

In Egitto, la giunta militare opera con il pieno appoggio di Washington e dell’Europa. Non a caso, infatti, il decreto contro scioperi e manifestazioni è stato emanato proprio in concomitanza della visita al Cairo del numero uno del Pentagono, Robert Gates, e poco dopo il discusso blitz in Piazza Tahrir del Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Gli Stati Uniti hanno assicurato ai militari al potere che continueranno ad arrivare miliardi di dollari in aiuti se verrà garantita quella stabilità che aveva fatto di Mubarak uno dei loro alleati più fedeli nella regione.

Lo stesso referendum costituzionale offerto agli egiziani e approvato lo scorso 19 marzo rientra nel tentativo del Consiglio Supremo delle Forze Armate di prevenire qualsiasi cambiamento traumatico del sistema.

I militari avevano infatti messo assieme in tutta fretta una commissione di esperti incaricata di proporre alcune modifiche alla Costituzione. Ciò che ne è uscito sono otto emendamenti trascurabili, tra cui il limite di due mandati per la carica di presidente, che hanno impedito qualsiasi altra richiesta di cambiamento più radicale.

Incassato il via libera al referendum, i generali egiziani hanno così annunciato le nuove date delle elezioni. Quelle per il Parlamento si terranno a Settembre invece che a Giugno, mentre le presidenziali sono state spostate da Agosto a Novembre. La giunta, salvo un’eventuale nuova escalation di proteste, dovrebbe rimettere i poteri legislativo ed esecutivo, che attualmente detiene, dopo le due consultazioni. Il Parlamento procederà poi ad eleggere un’Assemblea di cento membri che sarà chiamata a scrivere una nuova Carta Costituzionale, da sottoporre a sua volta a referendum popolare.

Le forze di opposizione avrebbero voluto tempi più lunghi per il voto. Tempi così brevi, sostengono gli animatori della rivolta, finiranno per favorire i partiti meglio organizzati, come i Fratelli Musulmani e il Partito Nazionale Democratico che fu di Hosni Mubarak.

Un esito che sarebbe tutt’altro che rivoluzionario, ma che i militari e gli americani gradirebbero per chiudere rapidamente e senza troppe scosse la travagliata transizione verso un Egitto “democratico”.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Dopo i ribaltoni di portata storica delle recenti elezioni regionali, la Germania tira le somme e avverte i primi cambiamenti concreti a livello politico. Se da una parte si aggrava sempre più la crisi del capo liberale e vicecancelliere Guido Westerwelle (FDP), tanto che qualcuno già parla di regicidio e dimissioni, dall’altra i Verdi provano, assieme ai socialdemocratici (SPD), a dare forma concreta a quelle promesse che, da trent’anni a questa parte, hanno potuto fare sempre e solo dalle fila dell’opposizione.

Perché, in effetti, tra i liberali tedeschi tira aria pesante, tanto che qualcuno già parla di golpe interno al partito. Questo fine di settimana, mentre il ministro degli Esteri e capo FDP Guido Westerwelle era a Pechino per la presentazione ufficiale di una mostra di natura artistica, i compagni di partito discutevano delle recenti sconfitte elettorali in Baden-Wuerttemberg e Renania-Palatinato (Sud- Ovest della Germania) e proponevano soluzioni concrete tra cui, a gran voce, un ricambio ai vertici FDP.

Nelle recenti regionali dei Laender di Stoccarda e Magonza, i liberali hanno conseguito percentuali elettorali praticamente dimezzate rispetto al 2006: in Renania-Palatinato, l’FDP non ha racimolato neppure la quota minima di voti per entrare nel Parlamento regionale, mentre in Baden-Wuerttemberg ha raggiunto a malapena il numero minimo di seggi, attestandosi a 5 punti percentuali esatti. Esiti catastrofici che richiedono volti nuovi, giustificano i liberali tedeschi, per riguadagnare la credibilità perduta di fronte agli elettori.

E a Westerwelle non resta che prendere atto dell’entità della rivolta: se subito dopo i primi exit pool delle regionali di domenica scorsa il vicecancelliere aveva escluso con sicurezza le proprie dimissioni, ora tra i suoi oppositori sono emerse molte figure di spicco dell’FDP, e la pressione continua a crescere. “Nessuno può rimanere incollato alla propria poltrona”, avrebbe addirittura commentato il ministro liberale della Giustizia tedesco Sabine Leutheusser-Schnarrenberger (FDP) a proposito. E già qualcuno, in Germania, parla di regicidio, mentre giornali autorevoli come Der Spiegel o Berliner Zeitung sventolano la possibilità di grossi cambiamenti in seno all’FDP già per inizio settimana.

Completamente diversa l’atmosfera che si respira tra le fila di Verdi e Socialdemocratici (SPD), ancora in tripudio per i risultati storici guadagnati alle regionali in Baden- Wuerttemberg. Ora l’obiettivo è accordarsi per dare forma concreta alle (grosse) attese degli elettori in una delle regioni più ricche della Germania: sono già cominciate le trattative per una coalizione verde-rossa, e il governatore regionale designato, l’ecologista Winfried Kretschmann, non ha dubbi “sulla buona riuscita dei colloqui”.

A questo proposito, si concede qualche parola in più anche il giovane socialdemocratico Nils Schmid (38 anni), rappresentante regionale SPD e futuro partner politico di Kretschmann. Condizione sine qua non per un’alleanza verde-rossa, ha dichiarato Schmid, è un referendum sul controverso progetto Stoccarda 21, la mega infrastruttura che avrebbe dovuto andare a sostituire la vecchia stazione della città contro cui oltre la metà dei cittadini ha manifestato per settimane. La proposta di rivolgersi nuovamente al volere dei cittadini, comunque, non ha di sicuro incontrato impedimenti tra le fila degli ambientalisti, scettici fin dall’inizio nei confronti del progetto.

La questione della regione federale del Baden- Wuerttemberg che più interessa la Germania, tuttavia, rimane l’energia nucleare, uno dei fattori che ha permesso ai Verdi di diventare la seconda forza politica regionale nelle recenti elezioni. I Verdi hanno quasi raddoppiato la percentuale di elettori grazie al grido di battaglia “Atomkraft?Nein, danke!” e ora tutti si aspettano grandi cambiamenti in questo senso. La regione di Stoccarda ha diverse centrali nucleari e potrebbe valere come banco di prova per l’abbandono del nucleare a favore delle energie rinnovabili. Sempre che il nuovo governo verde-rosso sappia gestire la situazione in maniera concreta e, soprattutto, sempre che sia disposto a investire le grosse somme necessarie all’avvio di una politica di energie verdi.

Le promesse sono tante e l’entusiasmo, a quanto pare, è alto, eppure il nucleare è una questione molto spinosa e la sfida è difficile: ne sanno qualcosa a Berlino, dove la barca di CDU (cristiano- democatici) e liberali ha cominciato a prendere acqua proprio dopo essersi incagliata nella questione del prolungamento delle attività nucleari in Germania.    

 

 

di Carlo Musilli

Le sta provando tutte pur di non lasciare la comoda poltrona da dittatore. Negoziati segreti, manifestazioni, offerte di compromesso, minacce, pressioni sugli alleati esteri. Dopo 32 anni alla guida dello Yemen, Ali Abdullah Saleh sembra sempre più vicino alla sconfitta. Ma intende combattere fino all'ultimo le migliaia di manifestanti che da gennaio chiedono ogni giorno le sue dimissioni. L'ennesima proposta è arrivata mercoledì sera, quando il presidente ha incontrato Mohammed al Yadoumi, leader del partito islamico al Islah, un tempo alleato del governo ed ora capofila dell'opposizione.

Saleh ha offerto di trasferire i suoi poteri ad un esecutivo provvisorio, che avrebbe il compito di traghettare il Paese verso nuove elezioni. Ma alle urne non si andrebbe prima del 2012 e, fino ad allora, il dittatore yemenita rimarrebbe al suo posto. "Saleh moltiplica le proposte inutili e le provocazioni - ha replicato Mohammad al Qahtan, portavoce dell'opposizione - e tutti questi tentativi non hanno che un unico fine, quello di rimanere al potere. Ma il presidente ha un'unica scelta: se ne deve andare".

Non solo. Dalle fila di al Islah è arrivata anche un'accusa ben precisa. Secondo lo sceicco Sadiq al Ahmar, Saleh starebbe pensando "all'esecuzione di omicidi eccellenti come soluzione per uscire dalla crisi". Nel mirino del regime ci sarebbero personalità politiche dell'opposizione.

Fra goffi tentativi d'accordo e oscuri piani sanguinari, il capo di Stato yemenita è anche costretto ad ammettere qualche sconfitta. Di fronte ai membri del suo partito ha annunciato che almeno sei delle diciotto province del Paese sono cadute in mano agli oppositori. Una debacle che si è consumata nell'arco di poche settimane, da quando molti governatori hanno deciso di aderire alla causa dei manifestanti. Nonostante tutto, Saleh si mostra ancora combattivo: "Mi rivolgo a quelli che mi chiedono di andare via - ha detto - tocca a voi lasciare lo Yemen. Avete versato il sangue dei giovani per i vostri scopi".

Nei giorni scorsi il presidente ha ufficializzato la nomina dei nuovi generali che andranno a rimpiazzare quelli passati al fronte anti-regime. Ma l'esercito di Sana'a non fa paura tanto per il suo potenziale bellico, quanto per le funzioni che non può o non vuole più svolgere. Da tempo le truppe sono concentrate nella Capitale a contrastare la rivolta, mentre le province periferiche del Paese sono abbandonate all'anarchia. Caso emblematico del nuovo scenario è la tragedia che si è consumata lunedì scorso a Jaar, nel sud dello Yemen, dove una fabbrica di armi è esplosa.

Centocinquanta persone sono morte, più di ottanta i feriti. L'esatta dinamica dell'incidente (o attentato) rimane un mistero. C'è chi parla di una sigaretta caduta per sbaglio, chi tira in ballo Al Qaeda, chi ancora sostiene sia opera dei gruppi indipendentisti meridionali. L'unica cosa certa è che da qualche giorno l'intera area fosse nelle mani di alcuni miliziani islamici. L'opposizione ha accusato Saleh di aver ritirato l'esercito dalla zona proprio perché i terroristi se ne impadronissero.

L'ipotesi è che il presidente abbia deciso di collaborare con i gruppi fondamentalisti per ingigantire e sfruttare le paure degli Stati Uniti. Negli ultimi dieci anni il regime è stato alleato di Washington nella lotta contro il ramo yemenita di Al Qaeda, che ha rivendicato il fallito attentato del 2009 su un aereo diretto a Detroit e i pacchi bomba sui cargo indirizzati negli Usa lo scorso ottobre. Adesso è probabile che il dittatore di Sana'a voglia rinfrescare la memoria agli amici americani, dando loro un assaggio di quello che potrebbe accadere se davvero nel Paese si compisse la rivoluzione. Si tratta di lasciare indifeso il territorio per poi poter dire: "Dopo di me, il diluvio".

Guarda caso, giovedì gli uomini di Al Qaeda hanno annunciato la nascita del loro primo emirato islamico in Yemen. Avrà sede nella provincia meridionale di Abyen, esattamente dove si trova Jaar. Secondo quanto annunciato dagli stessi terroristi via radio, i loro gruppi armati avrebbero già occupato il palazzo presidenziale e l'area intorno alla città.

Ma non è solo il sud a doversi preoccupare. Nella provincia centrale di Maarib, ad esempio, il governatore è stato accoltellato per aver cercato di disperdere i manifestanti. Anche qui Al Qaeda è molto attiva. Secondo fonti militari, di recente i terroristi avrebbero attaccato una stazione dell'esercito, uccidendo sette soldati e ferendone altri sette. Questo dimostrerebbe che se davvero Saleh punta a sfruttare l'organizzazione criminale, quantomeno il suo piano non poggia su una vera alleanza con i miliziani.

Intanto ieri è stato un altro giorno di manifestazioni a Sana'a, dove gli oppositori e i sostenitori del presidente hanno dato vita a due diversi cortei, separati da un solo chilometro di distanza. Dopo la strage di due settimane fa, quando 52 persone furono massacrate dai cecchini in piazza del Cambiamento, era ancora grande la paura della violenza. Per questo gli organizzatori della protesta contro il dittatore hanno deciso di non marciare fino al palazzo presidenziale, come all'inizio avevano programmato. Dal canto suo Saleh ha ribadito di fronte ai suoi fedeli che intende "sacrificarsi" per il popolo yemenita "con il sangue" e con tutto quello che ha "di più caro".

Forse per dar prova di buona volontà, nei giorni scorsi il presidente ha ordinato il rilascio di decine di attivisti che da settimane erano rinchiusi in prigione. Non si sa se lo abbia fatto davvero come gesto conciliante o se semplicemente abbia voluto evitare che i manifestanti prendessero d'assalto le carceri. Fatto sta che a nessuno è venuto in mente di ringraziarlo. Sono rimasti in pochi, nello Yemen, a non saper riconoscere i trucchi di Saleh.

 

di Fabrizio Casari

L’esilio per Gheddafi, le armi per gli insorti: la Conferenza di Londra sembra voler stringere i tempi nella guerra alla Libia. Le obiezioni sono di diversi paesi e per diversi motivi, ma appare chiaro che Parigi, Londra e Washington cominciano ad avere fretta, anche perché le ultime giornate segnalano un bollettino di guerra diverso da quello che s’ipotizzava. Le forze lealiste, infatti, benché colpite ripetutamente, non rinunciano alla controffensiva e i rivoltosi, dal canto loro, non sembrano fare grandi progressi.

Il quadro militare è appunto questo. Abbandonata, raid dopo raid, qualunque apparenza di applicazione della Risoluzione Onu, l’interdizione al volo e la protezione dei civili è diventata sempre più guerra aperta al governo e ai suoi sostenitori, civili o militari che siano.

Ma proprio per evitare uno stop internazionale, i raid non possono ripetersi ad ondate continue e quindi, distrutte le dotazioni aereonautiche e qualche deposito di armi del governo, diventa difficile bombardare h24 tutto quello che si muove. Si può “pulire” il terreno, si possono colpire preventivamente alcuni obiettivi, ma poi, per forza di cose, sono le truppe di terra che devono tenere le posizioni e conquistare altro territorio. E qui la faccenda si complica, perché a terra la Nato non scende (almeno per ora) e l’iniziativa tocca quindi agli oppositori libici; che però, a dire il vero, non mietono risultati straordinari, tutt’altro.

Le forze di Gheddafi si ritirano da alcuni centri solo quando vengono attaccate dai raid dell’aviazione occidentale; raid che vedono una modalità d’attacco al suolo preminente rispetto a quella dei primi giorni, ad indicare la tendenza a far evolvere le operazioni militari in chiave di minor protezione ai civili e maggior attacco ai nemici. Ma come già detto, non appena gli aerei si ritirano c’è però da occupare l’area, e qui nascono i problemi. Perché i rivoltosi, deboli in patria ma fortissimi nelle cancellerie occidentali, avanzano appunto aiutati dai raid aerei, ma indietreggiano quando si deve combattere a terra. E le truppe di Gheddafi rioccupano i territori e le città precedentemente abbandonate per sottrarsi ai raid aerei.

A ormai diversi giorni dall’entrata in guerra della santa alleanza per il petrolio, il quadro appare chiaro: per quanto si siano dannati l’anima nell’addestrarli, per quanto non abbiano lesinato nell’offerta di ogni bene bellico possibile, per quanto si siano impegnati nel fornire nozioni militari, gli istruttori delle SAS di sua maestà e la DGSE di Parigi, miracoli non ne fanno.

Non sono riusciti, perciò, a trasformare i fedeli monarchici senussiti, dediti agli affari e all’agricoltura, alla politica e al commercio, in combattenti capaci. Il ritratto identitario dei rivoltosi, del resto, era già noto: implacabili negli affari, incapaci nel combattimento.

E se la scena internazionale è dominata dalla discussione sulle caratteristiche dell’esilio per Gheddafi (che però per ora ad esiliarsi nemmeno ci pensa) anche sul fronte diplomatico interno la situazione non è rosea. Grazie all’adesione incondizionata alle mire francesi, i senussiti non riescono ad attrarre la tribù Warfalla, la più importante delle tribù libiche che, con qualche “se” e qualche “ma”, prodotti di un rapporto con Gheddafi non privo di contrasti, continua però ad appoggiare il Colonnello.

Dal punto di vista delle altre tribù c’è una logica: l’alleanza con Parigi di quelle della Cirenaica sbilancia notevolmente gli equilibri di potere nelle 140 tribù libiche a favore dei senussiti, che sono già interlocutore pressoché unico dell’Occidente.

Se la guerra dovesse terminare con la fine del Colonnello e la presa del potere da parte dei cirenaici, le tribù della Sirte, della Tripolitania e del Fezzan sarebbero quindi le prime a pagarne il conto in chiave di assetti di potere interno alla Libia. Viceversa, non essersi schierate con i senussiti significherebbe - in caso di vittoria del regime - poter porre in termini di peso ed influenza un’ipoteca pesante sul governo del paese, molto maggiore a quella fin qui avuta e decisamente schiacciante nei confronti delle tribù cirenaiche che verrebbero definitivamente messe all’angolo.

L’errore dei cirenaici è qui, fondamentalmente: accecati dalla loro avidità di potere e ansiosi di ristabilire supremazie e gerarchie nuove nella galassia delle 140 tribù libiche, non hanno consentito ad europei e statunitensi di aprire un canale di dialogo con le altre tribù del paese, riservandosi l’esclusiva nei rapporti diplomatici e mediatici internazionali e, a maggior ragione, nelle ipotesi di governo transitorio e nel programma dello stesso disegnato in questi giorni.

L’Occidente, dal canto suo, non appare unito dal cemento. Obama, ormai lanciato verso la sua avventura militare, nella speranza che gli arrivi un po’ di ossigeno politico nei suoi rapporti con i repubblicani, si dice “pronto a rifornire di armi i ribelli”; e anche Parigi si dice pronta, in quanto già disponibile a concedere ogni sorta di visto politico agli insorti. Ma il Pentagono appare più prudente.

Solo 48 ore fa, infatti, il Comandante della Nato in Europa, l’Ammiraglio statunitense James Stavridis, durante un’audizione presso la Commissione Forze Armate del Senato Usa, ha detto che si sta “esaminando con estrema attenzione l’entità, la composizione, le personalità di chi è a capo degli insorti libici”. Pare che la lezione afghana qualcosa abbia insegnato e gli Stati Uniti vorrebbero evitare di ritrovarsi ad avere a che fare con un problema molto più complicato di quello che avevano con l’ormai addomesticato Gheddafi.

 

 


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