di Michele Paris

Da oltre una settimana a questa parte, la tensione tra Thailandia e Cambogia è salita alle stelle riportando alla luce rancori e diffidenze che hanno caratterizzato i rapporti tra i due paesi del sud-est asiatico negli ultimi cinquant’anni. In seguito alla nomina a proprio consigliere economico da parte del governo di Phnom Penh dell’ex primo ministro tailandese in esilio, Thaksin Shinawatra, Bangkok ha messo in atto una serie di proteste che hanno riacceso gli animi tra i due paesi confinanti e che minacciano di far riesplodere una crisi politica nella quale la Thailandia è precipitata da tre anni a questa parte.

I primi segnali delle intenzioni cambogiane si erano avuti lo scorso mese di ottobre nel corso di un meeting dei paesi appartenenti all’Associazione del Paesi del Sud Est Asiatico (ASEAN). In quell’occasione il primo ministro della Cambogia, Hun Sen, aveva dichiarato che Thaksin sarebbe stato il benvenuto nel suo paese, dal momento che il governo thailandese aveva consentito al leader dell’opposizione cambogiana, Sam Rainsy, di tenere un discorso a Bangkok nel quale aveva criticato il suo governo per gli scarsi risultati ottenuti sul fronte economico e dei diritti umani.

Già nel 2003, quando Thaksin era primo ministro, i due paesi erano giunti ai ferri corti dopo che l’ambasciata thailandese a Phnom Penh era stata data alle fiamme da un gruppo di dimostranti infuriati per le dichiarazioni di un’attrice thailandese circa la presunta appartenenza al proprio paese di un conteso tempio Khmer situato in una zona di confine. Un’accesa disputa su un altro tempio inoltre, quello di Preah Vihear, assegnato nel 1962 dalla Corte Internazionale di Giustizia alla Cambogia, provoca da tempo occasionali scontri tra i due vicini. Manifestazioni di gruppi di nazionalisti di entrambi i paesi sono esplose con particolare violenza nel luglio del 2008 e nello scorso aprile, quando i due eserciti sono stati protagonisti di scontri a fuoco che hanno provocato una manciata di morti.

Su rapporti già così incrinati si è innestata dunque la questione della nomina dell’ex primo ministro Thaksin, approvata ufficialmente il 5 novembre dal sovrano cambogiano Norodom Sihamoni. Per tutta risposta, il governo di Bangkok, guidato da Abhisit Vejjajiva, ha annunciato l’immediata “revisione di tutti gli accordi” stipulati tra i due paesi, tra cui un’intesa per lo sfruttamento delle risorse naturali - anch’esse contese - situate al di sotto delle acque del Golfo di Tailandia. Alla mossa di Bangkok ha fatto seguito il ritiro dell’ambasciatore cambogiano e, subito dopo, di quello tailandese.

La dura reazione del governo tailandese alla nomina a consigliere del governo cambogiano di Thaksin Shinawatra è dovuta precisamente alla controversa figura di un uomo politico deposto dal proprio incarico in un colpo di stato militare nel settembre del 2006, nonché dal massiccio seguito sul quale può ancora contare nel proprio paese dopo tre anni in gran parte trascorsi in esilio volontario. Miliardario e magnate delle telecomunicazioni, Thaksin ha una condanna in sospeso a due anni di carcere per violazione della legge tailandese sul conflitto d’interessi nell’ambito dei propri affari finanziari.

Da tre anni a questa parte, in Tailandia ha regnato l’instabilità politica. Dopo la dissoluzione del partito di Thaksin (Thai Rak Thai), a fine 2007 la giunta militare indisse nuove elezioni, vinte dagli stessi seguaci dell’ex primo ministro radunatisi nel nuovo Partito del Potere Popolare (PPP). I due deboli governi succedutisi sono stati poi entrambi dissolti da altrettante discusse sentenze della Corte Costituzionale che hanno spianato così la strada verso il potere al leader dei conservatori Abhisit Vejjajiva e al suo Partito Democratico, sostenuto dall’esercito, dalla monarchia e dalla influente burocrazia statale tailandese.

Alla guida di una fragile coalizione nella quale hanno trovato ospitalità molti membri del partito di Thaksin, l’attuale primo ministro thailandese deve fare i conti però con un malcontento diffuso causato dagli effetti della crisi economica e con svariati scandali e accuse di corruzione. Un clima politico acceso quello thailandese e reso ancora più precario dalle condizioni di salute dell’anziano sovrano Bhumibol Adulyadej. Con ampi strati della popolazione ben disposti verso un ritorno in Tailandia di Thaksin Shinawatra, Abhisit ha così cercato di sfruttare la controversia con il governo cambogiano per accusare l’ex primo ministro di scarso patriottismo. Da qui anche la richiesta di estradizione presentata a Phnom Penh, e immediatamente respinta, dopo l’arrivo di quest’ultimo nella capitale della Cambogia per un discorso tenuto di fronte ad economisti e membri del governo di Hun Sen.

Come quello thailandese, anche il governo cambogiano sta in qualche modo utilizzando l’incarico di consigliere affidato ad una personalità straniera - pratica peraltro consueta da parte di Phnom Penh, come dimostra l’impiego in veste di consigliere economico dell’attuale presidente sudcoreano Lee Myung-bak dal 2000 al 2007 - per sviare l’attenzione dai propri problemi interni. Anche qui d’altronde la recessione globale sta colpendo duramente. Inoltre, il regime di Hun Sen deve fronteggiare le continue accuse dei suoi oppositori di essere asservito agli interessi di un altro vicino, il Vietnam. Fu proprio quest’ultimo paese, infatti, ad installare l’attuale premier cambogiano nel 1985, dopo l’invasione che rovesciò il regime di Pol Pot.

I motivi di contrasto tra Thailandia e Cambogia risalgono altresì al loro passato coloniale. I sentimenti anti-francesi nutriti dai thailandesi si sono trasferiti sui cambogiani dopo la loro conquista dell’indipendenza da Parigi nel 1953. Più tardi, la guerra in Indo-Cina degli Stati Uniti avrebbe visto i due paesi su fronti opposti: mentre il regime militare tailandese era un fedele alleato americano, la Cambogia mantenne la sua neutralità. Negli anni Ottanta, infine, dopo la caduta dei Khmer Rossi la Tailandia diede rifugio a molti esponenti del regime dissolto. A dispetto dei difficili rapporti, Bangkok era comunque diventata il principale partner commerciale di Phnom Penh, ma negli ultimi anni questo rapporto di dipendenza si è allentato in seguito all’incremento degli investimenti nel paese di Cina, Giappone e Corea del Sud.

Nonostante le cause del conflitto in corso nel sud-est asiatico siano determinate sostanzialmente da questioni interne ai due paesi, le implicazioni potrebbero tuttavia avere ramificazioni ben più ampie. Questa porzione del continente sta diventando infatti un nuovo terreno di confronto tra gli interessi americani e quelli della Cina. Perché è appunto verso Pechino che negli ultimi anni sia la Cambogia sia la Tailandia, quest’ultima tradizionalmente un alleato strategico di Washington, stanno guardano sempre più insistentemente.

di Fabrizio Casari

Sarà che il G2 è più interessante, sarà che con la fame nel mondo la propaganda non funziona, sarà soprattutto che dovrebbero andare a spiegare perché i soldi promessi non sono stati dati, sarà che solo uno deve presenziare per evitare di recarsi in un tribunale a Milano, ma il fatto è che i rappresentanti dei potenti d’occidente sono rimasti a casa. Niente summit sulla fame: il vertice Fao di Roma si svolge quindi alla presenza delle vittime e in assenza dei carnefici.

Per carità, nessuno stupore per le assenze, funziona così. Quando devono annunciare generosità i politici si presentano a favor di telecamera in mondovisione; quando devono spiegare cosa hanno fatto, un viceministro con delega serve alla bisogna. Evitiamo, per carità di patria, anche le previste lacrime di coccodrillo che definiranno il summit “un’occasione persa”, un “appuntamento mancato” e via con le amenità a mezzo stampa. Una delle più frequenti e ipocrite riguarda quella della presunta mega burocrazia della FAO. La scusa dei ricchi è che non pagano quello che dovrebbero anche per non ingrassare la burocrazia della FAO. Ma quanto costa questo “mostro”?

Complessivamente, 280 milioni di Euro all’anno: quanto una media impresa italiana. Il lavoro di centinaia di persone in tre quarti del pianeta costa, appunto, come una media impresa italiana. E’ questo lo scandalo? Certo, ci saranno anche nella FAO sprechi e spese inutili, ma davvero volete che sia questo il problema? Sarà intanto giusto ricordare che in seno alla FAO gli emolumenti dei funzionari del Nord sono dieci volte superiori a quelli del Sud. Così, per combattere gli sprechi…

Sono stati promessi interventi percentuali sui rispettivi PIL da tutti i paesi ricchi. Nessuno, Italia in testa (guarda caso) li ha mantenuti. A Roma si evidenzia invece una cosa: la distanza abissale tra la realtà di un Occidente che decide, scientemente, di perpetrare il genocidio per fame di quei due miliardi di persone che risultano ospiti sgraditi al tavolo delle risorse, destinate esclusivamente al nord del mondo. Numerosissime sono le balle confezionate dai governi del Nord per tentare di sottrarsi alle responsabilità storiche del genocidio alimentare. Vogliamo provare ad elencarne qualcuna? Cominciamo dalle risorse procapite?

Si chiede al sud del mondo di produrre maggior cibo attraverso l’agricoltura. Bene, buon proposito. Peccato però che per produrre alimenti servano braccia e tecnologie; le prime abbondano ma non mangiano, anche perché la terra non viene sfruttata, visto che le tecnologie necessarie vengono vendute a prezzi inarrivabili. Succede poi che, anche nei casi dove la produzione agricola riesce a raggiungere livelli soddisfacenti, sia per il fabbisogno interno che per l’esportazione, con i cui proventi si potrebbe affrontare il problema in chiave sistemica e non episodica, il Nord ricco impone, tramite il WTO, l’abbassamento drastico del valore dei prodotti sul mercato internazionale e l’ulteriore innalzamento del know-out per produrli.

Il risultato è ovvio: decine di milioni di persone e miliardi di ore di lavoro rendono briciole di reddito al sud ed eccedenze favolose per il Nord. E se il Sud cerca linee di credito agevolate per finanziare l’acquisto delle tecnologie necessarie, già carissime, interviene il colpo di grazia sotto le spoglie della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, che impongono politiche di “aggiustamento strutturale” per ottenere miserie con interessi usurai.

All’Africa o all’Asia vengono destinate armi e guerre. Sistema efficace per imbandire le tavole e le gioiellerie delle grandi avenue e, nello stesso tempo, ridurre i commensali che non devono trovare posto a tavola. La ricapitalizzazione del Nord passa, come sempre è passata, dall’estrazione di materie prime e risorse dal sud. Le risorse di cui dispone il Sud vengono strappate, dalle viscere della terra fino alla biosfera. Il fatto è che la crisi di sistema del capitalismo liberista ha nella sua genesi la necessità di depredare, non quella di condividere.

L’equilibrio necessario tra il Nord opulento ed il Sud affamato prevederebbe ripensamenti (questi sì strutturali) dell’ideologia della crescita infinita in un pianeta dalle risorse che infinite non sono. Avrebbe bisogno di ripensare la ripartizione delle risorse e l’equilibrio dei consumi, la fine dello spreco - principale veicolo delle speculazioni - e una lettura globale della contraddizione tra sviluppo e ambiente. Nulla di tutto ciò è nemmeno vagamente presente nell’agenda dei grandi e dei meno grandi. Un conto é comandare, un altro é governare. In fondo non pagano nemmeno i più piccoli, ma solo i più poveri. Nell’anno in cui la spesa militare statunitense si presenta come la più alta della storia, ci sembra doveroso un pensiero per le vittime inserite nella relativa previsione di bilancio.

di Michele Paris

Nella serata di martedì scorso, il boia del carcere di Greensville, in Virginia, ha puntualmente eseguito la condanna a morte del detenuto John Allen Muhammad, protagonista sette anni fa di una serie di omicidi tra Washington, il Maryland e la stessa Virginia. Ribattezzato dalle cronache televisive come il “cecchino della Beltway” - l’arteria stradale che circonda la capitale - Muhammad, assieme ad un complice all’epoca 17enne, nell’autunno del 2002 seminò il panico prendendo di mira persone qualunque mentre camminavano per strada, rifornivano le loro auto presso stazioni di servizio o aspettavano l’autobus. La discussa esecuzione è stata portata a termine nonostante chiare prove dell’instabilità mentale del condannato, anch’egli reduce della prima Guerra del Golfo come tanti altri detenuti e giustiziati per crimini violenti in America negli ultimi anni.

Le vittime accertate della coppia omicida furono almeno dieci, anche se sui due ricaddero più tardi i sospetti per altre precedenti sparatorie con morti in Alabama, Arizona e Louisiana. La condanna a morte per Muhammad alla fine era arrivata però per un solo assassinio, quello di Dean Meyers, ingegnere di 48 anni colpito fatalmente nell’ottobre 2002 mentre era alla pompa di benzina di un distributore di Manassas, in Virginia. Proprio al sistema giudiziario di questo stato, il secondo per affollamento di detenuti nel braccio della morte dopo il Texas, l’allora Ministro della Giustizia John Ashcroft aveva indirizzato il procedimento a carico di Muhammad dopo il suo arresto, anche se la maggior parte dei suoi crimini era stata commessa nel Maryland, dove le condanne capitali erano invece sospese in attesa di uno studio sulla correttezza del metodo di esecuzione.

Da parte sua, Muhammad si è sempre dichiarato innocente per i crimini attribuitigli, mentre i suoi legali hanno insistito fino all’ultimo per vedergli riconosciuta l’infermità mentale. Secondo le testimonianze raccolte da avvocati, testimoni e psichiatri, il condannato soffriva infatti di gravi impedimenti psicologici. Una condizione che si era notevolmente aggravata dopo il ritorno in patria dal Medio Oriente, dove aveva partecipato alla Guerra del Golfo del 1991in qualità di sergente dell’esercito. Un membro della giuria nel processo che gli inflisse la pena capitale aveva addirittura dichiarato in seguito al verdetto che non avrebbe votato a favore della condanna se fosse stato al corrente dei problemi mentali di Muhammad.

L’appello di quest’ultimo alla Corte Suprema degli Stati Uniti è rimasto tuttavia inascoltato, nonostante la protesta di tre giudici che hanno criticato l’eccessiva fretta con cui il caso è stato rigettato. Successivamente, anche il governatore democratico Tim Kaine - autodefinitosi contrario alla pena di morte, malgrado nel corso del suo mandato abbia bloccato una sola esecuzione, dando il via libera invece ad altre nove - ha negato la grazia dell’ultimo minuto, condannando Muhammad alla morte per iniezione letale.

Nella testimonianza del suo complice, Lee Boyd Malvo, condannato all’ergastolo, era emerso tutto il disordine mentale di John Allen Muhammad. Una delle sparatorie inscenate dai due avrebbe infatti dovuto seminare una confusione tale da permettere il rapimento dei tre figli di Muhammad, nei confronti del quale la seconda moglie aveva ottenuto un’ordinanza restrittiva. Il loro piano di lungo termine prevedeva poi una richiesta di riscatto al governo americano. Il denaro così ottenuto avrebbe dovuto servire per la creazione di un campo di addestramento in Canada per giovani senzatetto che sarebbero poi stati inviati negli USA per compiere atti terroristici.

L’esecuzione del veterano dell’esercito Muhammad è avvenuta a pochi giorni di distanza dalla strage compiuta dal maggiore Nidal Malik Hasan nella base militare di Fort Hood in Texas. Due vicende quelle dei loro protagonisti che, come molte altre negli Stati Uniti, sono legate all’ambito militare e che testimoniano a sufficienza dell’atmosfera di violenza che avvolge la società americana. Una società costretta a fare i conti con le conseguenze impreviste di un militarismo sempre più aggressivo da parte del governo e che sarà ulteriormente alimentato dall’imminente annuncio del presidente Obama di inviare decine di migliaia di soldati in Afghanistan per combattere una guerra senza prospettive.

Non a caso, infatti, i due conflitti in Iraq, così come quello afgano, hanno prodotto negli ultimi anni un’ondata di violenza, spesso silenziosa, caratterizzata da suicidi, rapine, abusi famigliari e omicidi che hanno coinvolto reduci disperati e quasi sempre abbandonati al loro destino in patria. Una lunghissima striscia che include anche l’evento più sanguinoso avvenuto sul suolo americano prima dell’11 settembre: l’esplosione di un edifico federale a Oklahoma City nel 1995 dove persero la vita 168 persone, strage commessa dall’estremista di destra Timothy McVeigh, anch’egli veterano alla deriva della guerra per la liberazione del Kuwait.

di Eugenio Roscini Vitali

Il 18 ottobre scorso, sul sito internet della rete televisiva iraniana Press TV è stata pubblicata la notizia secondo la quale il Majles, l’Assemblea Consultiva della Repubblica Islamica dell’Iran, ha approvato gli articoli 1 e 2 del disegno di legge sul piano di riforma dei sussidi: taglio degli aiuti di Stato sui prodotti energetici. La norma, che nell’arco dei prossimi cinque anni punta a ridurre gradualmente la domanda e la conseguente spesa destinata all’import dei prodotti derivanti da raffinazione, comprende tutte le categorie dei beni sui quali, fino ad ora, l’amministrazione pubblica è intervenuta con sovvenzioni e sgravi fiscali: combustibili da trasporto, gas ed energia elettrica e, di conseguenza, prodotti alimentari. Nulla di strano se non fosse altro che con questa decisione il parlamento consegna al presidente Mahmoud Ahmadinejad il controllo su una cifra che varia tra i 30 e i 50 miliardi di dollari, fondi che il Tesoro avrebbe altrimenti destinato al sostegno delle fasce sociali più deboli.

Il voto, che ora attende l’approvazione del Consiglio dei guardiani, non è stato comunque unanime: il radicale Ayatollah Ahmad Jannati, membro fondatore dell’influente istituto Haghani, scuola teologica vicina alle posizioni di Ahmadinejad, ha argomentato la decisione ritenendo vergognoso mantenere un sussidio che al 70% ricade sulle tasche di quel 30% della popolazione che appartiene alle classi più agiate; il ministro dell’Economia, Shamsoddin Hosseini, ha definito la legge una riforma strutturale destinata a combattere l’inflazione.

Il presidente del Parlamento, Ali Larijani, si è detto invece contrario e non ha nascosto le sue perplessità su una decisione politica che, in un paese alle prese con pesanti sanzioni internazionali, non risana l’economia ed evita altresì di imporre un maggiore controllo sulle spese decise dal governo. In un intervento alla televisione di Stato, Mahmoud Ahmadinejad ha dichiarato che “il piano dovrebbe prevenire l’eccessiva crescita dei consumi così come intervenire nelle ingiustizie sociali attraverso la ridistribuzione degli aiuti”; in Iran il prezzo della benzina applicato fino ad oggi è uno dei più bassi al mondo: con l’attuale sistema, alla pompa i primi cento litri vengono pagati 0,38 dollari per gallone (0,10 dollari al litro); oltre questo limite il prezzo sale a 1,50 dollari per gallone (0,40 dollari al litro).

Ufficialmente i funzionari giustificano il taglio dei sussidi con la necessità di recuperare parte dei 90 miliardi di dollari stanziati annualmente dal governo per gli aiuti di Stato; una manovra destinata ad orientare i fondi verso il finanziamento di progetti ed interventi infrastrutturali e per sostenere le fasce più povere con aiuti mirati. Alcuni economisti sostengono comunque che portare il prezzo dei carburanti ai livelli del mercato internazionale porterà soltanto ad un brusco effetto inflazionistico e farà lievitare il costo dei generi di prima necessità: in Iran il 30% del budget è destinato ai sussidi ed il regime deve fare i conti con l’inasprimento delle sanzioni economiche e con il crollo della domanda del greggio, passato dai 147 dollari al barile di metà 2008 ai 40 dollari al barile del marzo scorso; l’inflazione registrata ad ottobre è stata pari al 16,7%, in ripresa rispetto al 18,5% del mese precedente e al 28% del settembre 2008 ma sicuramente più alta del 10,9% segnato nell’agosto 2005, mese di inizio del primo mandato Ahmadinejad.

Il piano di riduzione arriva in un periodo particolare per il Paese: sottoposto alla pressioni della comunità internazionale, il regime deve rispondere alle proposte di accordo avanzate dall'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) sul progetto nucleare iraniano e sulla recente scoperta di un secondo sito per l’arricchimento dell’uranio a Qom. Un rifiuto potrebbe portare la comunità internazionale a decretare nuove sanzioni e, come dichiarato in una intervista al settimanale tedesco Der Spiegel dallo stesso presidente russo Dimitry Medvedev, questa volta Teheran non potrebbe contare sull’appoggio di Mosca. In Iran però l’invito alla calma e alla collaborazione avanzato dal Cremlino non pare aver trovato spazio e l'Agenzia Spaziale Iraniana (ISA) non è sembra disposta a fermare lo sviluppo dei vettori Sejil II e Shahab III, missili con un range di duemila chilometri, capaci di raggiungere Israele e le basi statunitensi nella penisola arabica.

Smentendo chi pensa alla possibilità di un accordo con le grandi potenze sul nucleare, Ahmadinejad starebbe sfruttando la drastica riduzione sui sussidi di Stato per trasferire i fondi nel programma atomico e nello sviluppo di missili balistici a lunga gittata: questa l’idea di quei “malpensanti” che poco credono del pragmatismo del leader iraniano e al contrario, ritengono Ahmadinejad più forte che mai e pronto ad affrontare la sfida con l’occidente. La preoccupazione scaturisce dall’efficienza raggiunta dai tecnici dell’ISA che a quanto pare non hanno più bisogno dell’assistenza dei colleghi nord coreani o cinesi per raggiungere risultati eccellenti.

Per dimostrarlo basti pensare all’ambizioso programma Safir-Omid e al secondo satellite spia che l’Iran si prepara a mandare in orbita sopra il Medio Oriente: vettore Safir II, ufficialmente sviluppato per scopi civili; satellite Omid II da 200 chilogrammi, 8 volte più pesante del suo predecessore Omid I lanciato con successo il 2 febbraio scorso. Secondo gli esperti, se il lancio dovesse avere successo, l’Iran sarebbe in grado di produrre missili a propellente solido capaci di colpire obbiettivi  a 2450 chilometri di distanza, un range che coprirebbe non solo Israele e la Turchia, ma anche la Grecia e gran parte dell’Europa orientale.
 

di Eugenio Roscini Vitali

L’allarme è stato lanciato dal Generale Amos Yadlin, capo dell’Agaf HaModiin (Aman), l’intelligence militare israeliana: il braccio armato di Hamas avrebbe a disposizione un numero imprecisato di razzi di fabbricazione iraniana con un raggio d’azione di 37 miglia (60 chilometri), capaci quindi di raggiungere la periferia di Tel Aviv. Nel corso di un dibattito a porte chiuse, Yadlin ha riferito alla Commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset che il primo novembre i miliziani del gruppo islamico palestinese hanno compiuto con successo il test di un missile identificato come Silkworm C-802, lanciato sul Mediterraneo dalla costa occidentale della Striscia di Gaza.

Anche se l’Aman non ha precisato da chi sarebbe stato fornito il missile, la notizia, diffusa il 3 novembre scorso dalla stampa israeliana, confermerebbe i sospetti espressi nei mesi scorsi dai servizi segreti ebraici sulle intenzioni di Teheran di continuare ad armare il Medio Oriente, e in particolare Hamas ed Hezbollah. Secondo le informazioni in possesso, i militanti islamici sarebbero ora in grado di colpire le aree urbane che sorgono a sud della capitale israeliana, Hulon e Bat-Yam, la città di Rishon-Letzion, l’aeroporto internazionale Ben-Gurion e i principali collegamenti stradali che da Tel Aviv raggiungono Gerusalemme e molte alte località dell’entroterra.

Evoluzione del modello da esportazione del missile cinese Ying-Ji-802 (YJ-82), il Silkworm C-802 è lo stesso razzo con cui Hezbollah, il 15 luglio 2006, ha colpito e danneggiare seriamente (nell’attacco morirono quattro militari) la INS Hanit, una corvetta classe Saar 5 della Heil HaYam HaYisraeli, la Marina Militare israeliana. A causa delle innumerevoli modifiche tecniche apportate, oggi non è abbastanza chiaro quante versioni ne esistano e quale sistema d’arma sia nelle mani Hamas: il primo YJ-8 (C-801), presentato nel 1989 dalla China Haiying Electromechanical Technology Academy (Cheta), pesava 815 chilogrammi ed aveva un range di 42 chilometri, 80 per il modello YJ-81 (C-801A).

L’ultimo modello (YJ-82, indicato dalla NATO con il codice CSS-N-8 Saccade) è mosso da un motore turbo-jet, monta una testata da 165 chilogrammi e alla velocità massima di 0.9 mach (1102 km/h) raggiunge una distanza di 120 chilometri. Per le sue caratteristiche tecniche e per il sofisticato sistema  anti-jamming è difficilmente intercettabile e nel 98% dei casi riesce a centrare l’obbiettivo; nella sua versione da esportazione (C-802), lo Ying-Ji-802 è utilizzato dalle marine militari di Algeria, Bangladesh, Indonesia, Iran (più di cinquanta quelli dislocati sull’isola di Qeshm), Pakistan, Tailandia ed in Libano dai miliziani del movimento sciita Hezbollah.

L’intelligence israeliana sospetta che il missile lanciato nei giorni scorsi dal braccio armato di Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam, sia stato contrabbandato da Hezbollah e che gli istruttori siano militanti del gruppo sciita libanese. Il segnale è comunque chiaro: armare il movimento islamico palestinese per interrompere il blocco navale imposto da Gerusalemme sulle acque prospicienti la Striscia di Gaza; una strategia già applicata con successo nel paese dei cedri dove, grazie ai missili iraniani, Hezbollah è risuscito a trasformare la costa libanese in una vera e propria roccaforte, la più difesa costa del Mediterraneo. A Gerusalemme sono inoltre preoccupati del fatto che, oltre all’area urbana di Tel Aviv, i palestinesi sono ora in grado di colpire le strutture militari e i porti, soprattutto quello di Ashdod, oltre che un numero non precisato di obiettivi strategicamente importanti come depositi carburanti e munizioni, centrali elettriche e nodi vitali per le telecomunicazioni. Nel 1987 l’Iran usò proprio questo tipo di missili per bombardare le istallazioni petrolifere in Kuwait.

In relazione al contrabbando di armi verso Gaza, alla fine di ottobre il sito israeliano Debka aveva parlato del coinvolgimento della Forza al Quds, l’unità speciale dei Guardiani della rivoluzione iraniana che all’estero organizza, addestra, finanzia ed equipaggia i movimenti islamici legati al terrorismo internazionale. Secondo l’intelligence dello Stato ebraico i miliziani del Generale Qassem Suleimani starebbero cercando di far arrivare nella Striscia di Gaza i missili di superficie Fajr-5, razzi che hanno una gittata di 75 chilometri e possono quindi arrivare a colpire l’area settentrionale della capitale israeliana. Smontati in 8-10 sezioni e portati clandestinamente fino ai porti del Sudan, i vettori arriverebbe ai campi di addestramento palestinesi che sorgono al confine con l’Egitto per poi raggiungere clandestinamente i Territori controllati da Hamas attraverso il Canale di Suez, il Sinai e i tunnel sotterranei di Rafah.

Che nel vicino Medio Oriente qualche cosa bolla in pentola lo provano anche i fatti accaduti tra il 3 e il 4 novembre scorso a largo di Cipro, fatti che secondo il Servizio di sicurezza generale per gli affari interni (Shin Bet) dimostrano come Teheran sia fermamente intenzionata ad armare non solo Hamas ma anche le milizie Hezbollah. Nel quadro dell’operazione “Four Species”, durante un’ispezione a bordo del cargo “Francop”, avvenuta a circa 100 miglia dalla costa dello Stato ebraico, i commandos della Flottiglia 13, unità speciale israeliana, hanno trovato un carico di 500 tonnellate di armi, un quantitativo 10 volte superiore a quello scoperto nel gennaio 2002 sulla Karin A. Sulla nave, battente bandiera dell’Antigua, sono stati rinvenuti 9 mila proiettili da mortaio, 3 mila munizioni  d’artiglieria, 2 mila razzi da 122 e 107 millimetri, 600 mila proiettili 7.62 per fucili d’assalto AK47 e 20 mila granate a frammentazione. Un vero arsenale che per le autorità di Gerusalemme si va ad aggiungere a quello che da mesi alimenta il gruppo armato libanese. 

In questo caso le armi sarebbero arrivate nel porto egiziano di Damietta (Dumyat) a bordo della Iranian Visea, nave di proprietà della Iran Shipping Lines (IRISL): il carico, imbarcato a Bandar Abbas (Stretto di Hormuz) o a Bandar Imam Khomeini (Golfo Persico), è salpato il 14 ottobre per  il Mediterraneo; dopo aver fatto tappa a Jabel Ali (Dubai), il 26 ottobre la Visea avrebbe raggiunto il porto egiziano e, dopo aver scaricato i container, sarebbe ripartita per Felixtowe, 60 chilomentri a nord di Londra, ed Amburgo. In Egitto il carico è rimasto fino al 1°novembre, giorno in cui viene caricato sul Francop, nave mercantile di proprietà della compagnia tedesca Francop Schiffahrts GmbH & Co, che al momento della scoperta delle armi dichiarerà di non essere stata a conoscenza del materiale trasportato. Intercettato il 4 novembre, il cargo, abitualmente utilizzato per il trasporto di alimentari tra il Damietta, Limassol (Cipro), Beirut (Libano) e Latakia (Siria), viene scortato nel porto israeliano di Ashdod e sottoposto a nuove ispezioni. Riprenderà il mare il giorno successivo.
 
Tornando al missile lanciato dalle coste palestinesi, Hamas nega ogni cosa e considera le accuse del Generale Amos Yadlin una “macchinazione” per creare nell’opinione pubblica un allarme generalizzato, un tentativo malriuscito per depistare l’attenzione della comunità internazionale dalle 575 pagine che compongono il rapporto Goldstone sull’operazione “Piombo Fuso” a Gaza. Due giorni dopo la notizia sul lancio del missile palestinese, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite avrebbe infatti votato una risoluzione di condanna contro le forze armate israeliane, accusate di aver compiuto crimini di guerra contro i civili che abitano la Striscia, e contro i miliziani di Hamas, colpevoli di  aver  puntato i loro razzi contro la popolazione ebraica del Neghev.

Approvata a maggioranza (114 Paesi a favore, 18 contrari e 44 astenuti),  la risoluzione non ha comunque scalfito le posizioni di Israele, che ha anzi ribattuto affermando che il rapporto Goldstone è un tentativo arabo di infangare la reputazione dei capi militari ebraici ed ha invitato l’Onu a concentrare la sua attenzione sulle violazioni iraniane alle risoluzioni 1747 e 1701 del Consiglio di Sicurezza.

II 6 novembre 2009 il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha dichiarato: “Durante l’Operazione Piombo Fuso, Israele ha dato prova di alto livello morale e anche in futuro intende difendere la popolazione dalla minaccia dei razzi in possesso dei suoi vicini; Israele respinge la risoluzione dell'Assemblea Generale dell'Onu che è completamente avulsa dalla realtà che Israele deve affrontare sul terreno”.

L'operazione militare Piombo Fuso ha avuto inizio il 27 dicembre del 2008; l’invasione via terra della Striscia di Gaza è partita il 3 gennaio 2009; la guerra si è conclusa il 18 gennaio; sono morti 1203 palestinesi di cui 410 bambini; migliaia i feriti, molti con dei quali in modo irreversibile; 5300 le persone che hanno subito l’amputazione di un arto; 13 gli israeliani che hanno perso la vita, quasi 200 i feriti.

Il 7 novembre il leader di Hamas, Khaled Meshaal, ha invitato il presidente palestinese Mahmoud Abbas a interrompere ogni tentativo di compromesso con Israele e gli ha proposto di mettere fine alle divisioni tra i palestinesi: “il compromesso con Israele, nato con gli accordi di Oslo del 1993, ha fallito nel tentativo di bloccare l’espansione degli insediamenti israeliani e non ha sostenuto i palestinesi nello stabilire un loro stato indipendente nelle terre occupate dagli ebrei con la guerra del 1967; qualunque leader palestinese creda realmente nel diritto al ritorno, deve sapere che l’unico modo per  farlo non è attraverso i negoziati, ma con la lotta santa, la resistenza e l'unità nazionale”.

 


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