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di Alessandro Iacuelli
Sembra che anche in Italia ci sia una vera e propria corsa al mettere in evidenza, con la relativa sovraesposizione mediatica, il caso dei suicidi seriali in France Telecom. Dal febbraio 2008 l'azienda telefonica d'oltralpe ha registrato 23 suicidi fra i suoi dipendenti, di cui sei solo questa estate. Sono aumentati anche i congedi per malattia e, a fronte del crescente malessere fra i suoi dipendenti, l'azienda ha deciso di bloccare, almeno fino al 31 ottobre, il programma di mobilità. E' stato assunto anche un team di esperti per cogliere i segnali di disagio tra i lavoratori e tenere corsi di formazione per i dirigenti. Nonostante questo, i suicidi continuano.
France Telecom, pur riconoscendo il problema e dichiarando che si sta facendo tutto il possibile per affrontarlo, ha commentato che il tasso di suicidi registrato è a un livello "normale" per una compagnia delle sue dimensioni. Il direttore delle risorse umane, Olivier Barberot, ha dichiarato comunque che su alcuni dipendenti potrebbe aver influito in modo negativo il clima di cambiamento dell'ultimo periodo. Monique Fraysse-Guigline, medico interno della compagnia, ha raccontato: "Dopo la privatizzazione, molti si sono dovuti adeguare a nuovi ruoli, o cambiare città. Ingegneri che per vent'anni hanno lavorato alla riparazione delle linee telefoniche, ora sono stati riassegnati ai call-center, e soffrono molto del cambiamento". Racconta di aver visto molti casi si depressione e attacchi di panico e commenta: "E' una situazione problematica, non si può andare avanti così". Eppure, a guardare i fatti, il caso dei lavoratori telefonici non è certo il solo.
Negli ultimi anni un caso analogo era successo in Renault, dove nel 2007 tre impiegati si erano tolti la vita, richiamando l'attenzione dei sindacati sulle condizioni di lavoro nell'azienda. La Francia ha il più alto tasso di suicidi in Europa: 17,8 per mille, secondo quanto riferisce l'Organizzazione mondiale per la sanità. Ma sono suicidi un po' particolari: suicidi che avvengono sul posto di lavoro.
Già nell'estate di due anni fa (http://www.altrenotizie.org/esteri/1287-i-misteri-di-chinon.html), venne alla luce il suicidio di sei dipendenti della centrale nucleare di Chinon, di proprietà del colosso energetico statale EDF. La particolarità stava nel fatto che tutti i suicidi erano avvenuti all'interno della centrale: suicidi sul luogo di lavoro, durante l'orario di lavoro.
Negli anni, la casistica si è propagata anche agli altri gruppi industriali: quattro suicidi in quattro mesi alla Renault di Guyancourt, altri quattro presso lo stabilimento Peugeot-Citroën di Mulhouse, in appena 15 giorni. Tutti i lavoratori che hanno compiuto questi gesti estremi erano di età compresa tra 30 e 40 anni, assunti con contratto a tempo indeterminato. Sempre in Peugeot-Citroën, nel febbraio 2007, c'era stato un altro suicidio, ma in quel caso il lavoratore aveva lasciato una lettera nella quale aveva parlato delle sue condizioni di lavoro, e di come fossero queste a portarlo alla decisione di darsi la morte. Così, mentre in Italia si muore di infortunio sul lavoro, oltre la Alpi si estende il "suicidio sul lavoro", e si estende fino ad arrivare in France Telecom. In questi giorni, è comparso il primo caso di suicidio anche nel colosso dell'elettronica Thales Microlectronic: una donna, impiegata, si è tolta la vita dopo la comunicazione di aver ricevuto una retrocessione di livello.
Ad essere sotto accusa sono certe condizioni di lavoro francesi. Se da un lato i lavoratori transalpini hanno certamente più diritti rispetto a quelli italiani, nel senso di retribuzioni migliori, orari di lavoro più ridotti in certi compatti, contratti da 35 ore settimanali pagate 40, ma anche una situazione civile che permette una migliore qualità della vita, dall'altro il metodo di lavoro nelle aziende francesi è, nel giro di pochi anni, radicalmente cambiato. Dopo le grandi ondate di privatizzazione degli scorsi anni, soprattutto dal 2004 in poi, oggi le grandi industrie francesi (che sono grandi davvero, poiché la Francia non si basa come noi sulla piccola e media impresa) tendono a coinvolgere totalmente il lavoratore. Con scuse quali "il gioco di squadra", il "far parte di una grande famiglia", ed altri slogan di importazione americana, il lavoratore francese si trova a volte depredato anche di fette ampie di vita privata, consegnate al lavoro ed all'azienda.
E' il caso delle attività che le aziende fanno fare ai dipendenti al di fuori delle mura della fabbrica: partecipazione ad eventi o giochi assurdi come cacce al tesoro e gite in barca che ricordano le disavventure del ragioner Fantozzi. Peccato che poi, durante l'orario lavorativo, dopo pezzi di tempo libero usati lo stesso per l'azienda, le privatizzazioni abbiamo portato minacce serie sul lavoro stesso. E' il caso di France Telecom, con piani di "ristrutturazione" che prevedono decine di migliaia di "dimissioni volontarie" di lavoratori non ancora in età da pensione. E' il caso della progressiva perdita di spazi sindacali, con la conseguenza forte di far sentire più isolati i singoli. Ma ci sono anche altre minacce. I contratti di lavoro privati prevedono in Francia, oltre ai passaggi di livello, anche i declassamenti. E con l'ingresso dei privati, con la progressiva uscita dello Stato, questa minaccia inizia oggi a pesare particolarmente, come nel caso di suicidio in Thales Microelectronics. Chi lavora si sente controllato da occhi ostili, pronti a cogliere errori ed esitazioni.
I circa 100 mila dipendenti della France Telecom hanno ricevuto in questi giorni un questionario sullo "stress lavorativo" nella società. Il questionario contiene "poco più di 160 domande", per cui potrebbe esso stesso essere causa di stress. I lavoratori avranno un mese di tempo per rispondere e potranno farlo su internet o su carta. Le domande riguardano il carico di lavoro, il ruolo di colleghi e dirigenti. Nello specifico, i lavoratori dovranno dire se negli ultimi sette giorni si sono sentiti "senza speranze", "sotto pressione" e se hanno "gridato facilmente". Più voci, soprattutto da parte dei sindacati, parlano di ennesima "presa in giro".
Proprio i sindacati confermano la tesi della mutazione improvvisa di certe condizioni di lavoro, riportando anche alcune testimonianze: il controllo sul personale, per aumentare la produttività, ha generato un'insopportabile pressione e la disumanizzazione dei rapporti, e non riguarda solo France Telecom, ma un po' tutto il "sistema Francia". Sotto accusa anche la "mobilità forzata" all'interno delle aziende, che causa una specie di rotazione obbligatoria dei lavoratori in diversi ruoli. Probabilmente è morto così un lavoratore suicida di 28 anni, a Besancon. Era soggetto da diversi mesi a una mobilità forzata, e come spiega un sindacalista, "gli era stato assegnato un incarico che riteneva squalificante". Lo scorso 14 luglio, un altro dipendente dell'azienda si era tolto la vita Marsiglia, lasciando una lettera nella quale attribuiva il suo gesto al "sovraccarico di lavoro" e a una "gestione terroristica dell'azienda".
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di Mariavittoria Orsolato
Ha destato non poche sorprese il risultato della tornata elettorale uruguayana che la scorsa domenica ha decretato il ballottaggio tra l’ex guerrigliero tupamaro José Alberto “Pepe” Mujica Cordano, candidato per l’attuale partito di governo Frente Amplio e l’ex presidente Luis Alberto Lacalle, del Partido National “Blanco”. Mujica, arzillo settantaquattrenne dalla storia politica decisamente intensa, non è riuscito a sfondare il tetto del 50%, fermandosi tra il 47% e il 49%, e dovrà così affrontare nuovamente quel Lacalle che ha già guidato l’Uruguay tra il 1990 e il 1995, e che in questa tornata si è aggiudicato un temibile 29%.
Il terzo candidato Juan Pedro Bordaberry, figlio dell’ex dittatore golpista Juan Maria - attualmente sotto processo per crimini contro l’umanità, complicità in colpo di Stato e violazione della Costituzione - esponente di spicco del Partido Colorado, ha raccolto il 17% delle preferenze ma ha già dichiarato apertamente che lui ed il suo partito appoggeranno Lacalle all’appuntamento elettorale del 29 novembre.
Questo il quadro di un’elezione che, sulla carta, doveva essere vinta da Pepe Mujica, ma che lo spaesamento degli uruguayani ha tramutato in un interessante scontro, capace di tastare il polso ad una nazione non ancora del tutto inserita nell’onda chavista-bolivariana che ha attraversato una parte dei paesi dell’America Latina nell’ultimo decennio. L’elettorato, accorso in massa alle urne nella misura del 90% degli aventi diritto, non pare essere convinto sulla scelta di candidare Pepe Mujica e si è di fatto diviso a metà sulla possibilità di continuare il percorso iniziato nel 2004, quando per la prima volta il Frente Amplio - l’eterogenea coalizione di sinistra formata da ex Tupamaros, ex blancos ed ex colorados, con socialisti, post-comunisti, socialdemocratici, popolari e democristiani - è salito al governo con Tabaré Vàzquez Rosas, rompendo la diarchia pluriennale tra i Colorados e i Blancos.
Questa indecisione popolare andrebbe infatti a premiare il candidato “blanco” Lacalle, un personaggio i cui trascorsi istituzionali vantano diverse accuse per corruzione e i cui 5 anni di governo sono stati segnati da infelici politiche di taglio alla spesa pubblica, riduzione degli stipendi e svendite di proprietà statali. Evidentemente anche in Uruguay si soffre degli stessi problemi di memoria storica di cui si soffre sempre più in Italia.
Ma se a Montevideo l’ex tupamaro Pepe non ha sfondato il tetto di gradimento, la colpa non è solo della memoria corta degli uruguayani: contro l’ex tupamaro hanno giocato un ruolo importante i dubbi dell’ala moderata del partito - ancora troppo legati alla figura decisamente politically correct di Vàzquez - e gli inevitabili riferimenti storici al passato politico di guerriglia che lo hanno avvicinato più allo spettro del chavismo venezuelano, che al modello di crescita felice del brasiliano Lula.
A mettere i bastoni fra le ruote di Mujica è stata anche e soprattutto la Chiesa cattolica, che estremamente contrariata dall’approvazione di una legge sulla possibilità di adozione per le coppie omosessuali e dal disegno di legge sulla legalizzazione dell’aborto, ha scatenato una violenta campagna contro il Frente Amplio, tanto che il primate uruguayano ha esplicitamente sollecitato a votare contro chi non rispetta i principi irrinunciabili della famiglia e della vita. Non pare poi abbiano avuto così tanto peso i brillanti risultati governativi raggiunti dal presidente uscente Vàzquez, che in solo quinquennio è riuscito a quadruplicare le riserve della banca centrale e a rendere appetibile una buona fetta del mercato uruguayano ai colossi europei, statunitensi ed asiatici.
La giornata elettorale di domenica ha però segnato un’altra cocente sconfitta per il Frente Amplio nella bocciatura dei due referendum promossi dal governo. Il primo, che non ha raggiunto il quorum per un soffio, riguardava l’abrogazione di quella Ley de Caducidad che concedeva l’amnistia ai capi militari condannati per i reati commessi tra il 1973 e il 1985, durante la dittatura militare; il secondo verteva invece sulla possibilità di ratificare anche il voto epistolare, ma i Si hanno raggiunto la misera quota del 38%.
Se il trend negativo del Frente Amplio dovesse avere un’ulteriore conferma al prossimo turno di ballottaggio, le ripercussioni potrebbero andare oltre i confini del piccolo paese incastrato tra Argentina e Brasile. Con l’Uruguay è cominciato infatti quello che in molti chiamano “l’anno elettorale”, un evento che in 12 mesi chiamerà alle urne Honduras, Bolivia, Cile, Costa Rica, Brasile e Venezuela e che potrebbe regalare diverse sorprese: se l’Uruguay si rivelasse al ballottaggio come possibile cartina tornasole della spinta socialista sudamericana, sarebbero proprio le realtà della sinistra moderata a scontare maggiormente le conseguenze della crisi economica e del voto da quest’ultima così influenzato.
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di Eugenio Roscini Vitali
Zine El Abidine Ben Ali è il nuovo presidente della Repubblica Tunisina, chiamato per la quinta volta consecutiva a guidare un Paese ormai assuefatto ad un modello di democrazia araba che a livello internazionale può rientrare solo in quei casi definiti come “particolari”. E’ dal 7 novembre 1987 che il settantatreenne ex generale guida il meno musulmano dei Paesi magrebini, dal giorno in cui, “deposto” per senilità Habib Bourguiba, si è auto proclamato Capo dello Stato.
Quattro mandati e ventidue anni di potere che sottolineano la scarsa attenzione della comunità internazionale verso un esempio di autoritarismo democratico che rasenta lo standard minimo dei regimi moderni. E’ un sistema politico consacrato dal “verdetto” delle urne che però dichiara la principale forza di opposizione, il Partito Democratico Progressista (Pdp), non eleggibile in 17 dei 76 distretti totali e che, durante la campagna elettorale, riserva al presidente Ben Ali e al suo partito, il Raggruppamento Costituzionale Democratico (Rcd), il 97,22% degli spazi pubblicitari, lasciando al suo unico rivale rimasto in gara, Ahmed Brahim, lo 0,22%.
Per avere un’idea dell’affermazione e del potere che è nelle mani di Ben Ali, un sogno nel cassetto di molti altri leader politici europei e non, basta dare uno sguardo ai dati resi noti dall’agenzia di stampa Tunis Afrique Press (Tap). Innanzi tutto l’affluenza alle urne, che il 25 ottobre è stata pari all’89,45%: 4.737.367 votanti sui 5.296.008 aventi diritto; 7.718 schede nulle; 4.729.649 voti validi. Al presidente uscente sono andati 4.238.711, pari all'89,62%; ai sui tre avversari il restante 10,38%. Il segretario del Partito di Unità Popolare (Pup), Mohamed Bouchiha, ha ottenuto il 5,01%, 236.955 voti; al candidato dell'Unione Democratica Unionista (Udu), Ahmed Inoubli, sono andate 179.726 preferenze, pari al 3,80%; al leader del partito Ettajdid, Ahmed Brahim, unico vero avversario di Ben Ali, sono stati assegnati 74.257 voti, pari all’1,57%.
Il risultato delle elezioni parlamentari, tenutesi anch’esse il 25 ottobre, è stato praticamente la fotocopia delle presidenziali. I 214 seggi della Camera dei deputati, 161 eletti in altrettanti collegi uninominali e 53 votati in un unico collegio nazionale (seggi riservati per legge all'opposizione), sono stati distribuiti nel seguente modo: 161 al partito di governo, il Raggruppamento Costituzionale Democratico; 16 al Movimento Socialdemocratico di Ismail Boulahya (Mds), partito di opposizione che con la maggioranza condivide il programma politico; 12 al Partito di Unità Popolare; 9 all'Unione Democratica Unionista; 8 al Partito sociale liberale (Psl) di Mounir Beji; 6 al Partito dei Verdi per il Progresso (Pvp) di Mongi Khammassi, il leader ambientalista che appoggia il presidente Ben Ali; 2 al simbolo di Iniziativa democratica che raggruppa personalità indipendenti intorno agli ex comunisti del partito Ettajdid di Ahmed Brahim.
Nessun seggio alle 15 liste indipendenti e alle altre due formazioni politiche presenti alle elezioni, il Partito Democratico Progressista dell’avvocato Nejib Chebbi e il Forum democratico per il lavoro e le libertà (Fdtl) del medico tunisino Mustapha Ben Jafaar, entrambe già esclusi dalle liste per le presidenziali. Il primo per dichiarazioni improprie riguardo la legge elettorale, il secondo per non essere segretario del partito da almeno due anni, come previsto dalla legge elettorale entrata in vigore lo scorso anno.
Sin dalla sua ascesa al potere l’azione di governo dell’ex generale è stata finalizzata all’esclusivo contenimento di un sistema politico pluralista: una strategia che gli ha permesso di tenere in pugno il Paese per diversi anni e gli ha dato il tempo di preparare le basi per un sistema elettorale praticamente “ingessato”. Un cammino politico che Ben Ali è riuscito a completare nel 2002, con la legge costituzionale che per la carica di Presidente della Repubblica ha abrogato il limite dei tre mandati e ha innalzato l’età massima per la candidatura da 70 a 75 anni e con la norma che stabilisce nel 25% il tetto massimo dei seggi assegnati in Parlamento all’opposizione.
Un’opposizione in larga parte filo-governativa, perfettamente inserita in un contesto in cui il binomio politica-economia fonda le sue basi su un programma di privatizzazione iniziato negli anni Ottanta, un progetto di sviluppo definito dall’Occidente un vero e proprio miracolo, al quale però può partecipare solo chi è vicino al regime o con lui condivide il controllo dei beni.
In Tunisia il bisogno politico di cambiamento e modernizzazione non è una cosa nuova. All’indomani dell’Indipendenza, il pragmatico e tenace presidente Habib Bourguiba segna le linee strategiche delle riforme politiche e sociali che faranno uscire il Paese dalla dramma della fame e dalla povertà, linee strategiche che avrebbero imposto grandi sacrifici: la rinuncia al pluralismo, alla costruzione dei valori democratici e alla salvaguardia dei diritti umani. E’ passato mezzo secolo da quei giorni ed oggi la Tunisia rappresenta un modello di apertura all’Occidente: un Paese laico, sensibile nei riguardi dei diritti della donna ed attento alle problematiche relative all’istruzione.
Un Paese che nei confronti dell’islam attua una politica di contenimento, tendente ad assicurare un contesto interno particolarmente stabile ed adeguato ad un mercato aperto ai partner europei e americani. Un “paese emergente”, costruito sui modelli definiti dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dall’Unione Europea, che hanno dettato le nuove regole dello sviluppo e che nel 1995, con l’accordo di associazione con l’UE, hanno proiettato la Tunisia nell’economia globale.
Il miracolo economico tunisino, quello targato Ben Ali, quello che oggi sventola la bandiera del rinnovamento e parla di partenariato con l’Europa, di Processo di Barcellona e di aree di libero scambio, deve comunque fare i conti un Pese spaccato in due, con un divario di tra nord e sud che con gli anni è diventato praticamente incolmabile. Deve fare i conti con una democrazia che è rimasta congelata alla fase embrionale, con una stampa imbavagliata, con una potente macchina di sicurezza che soffoca le proteste sindacali, con i grandi bacini minerari di fosfato che raddoppiato la produzione e tagliano i posti lavoro, con i giovani disoccupati che non vogliono emigrare. E’ con queste cose che la governance che nel 1999 ha vinto le elezioni con il 99,5% delle preferenze, nel 2004 si è assicurata il 94,5% dei consensi e oggi torna a vincere con quasi il 90% del voti, che deve fare i conti.
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di Luca Mazzucato
Efi Brenner ha diciotto anni, ha appena finito il liceo e questa settimana, insieme a più di cento coetanei, finirà in prigione. Perché l'obiezione di coscienza in Israele è un crimine. L'abbiamo intervistato per sapere della lettera che, insieme ai suoi colleghi, ha scritto a Netanyahu per rivendicare il diritto a non essere complice dell'Occupazione.
Qual è il percorso che ti ha portato a diventare obiettore di coscienza?
Da quando avevo sedici anni, in classe è cominciato il lavaggio del cervello. È prassi comune che degli ufficiali dell'IDF tengano lezioni sul sionismo e sul valore morale dell'esercito. Vengono e ti dicono: “I soldati tuoi fratelli sono morti per difenderti, è giusto che anche tu ora faccia la tua parte e prenda il loro posto, per il bene di Israele.” La propaganda sionista è martellante, ma da subito ho sentito che c'era qualcosa di sbagliato. Ho iniziato a cercare su Internet notizie sull'Occupazione e sul popolo palestinese e mi si sono aperti gli occhi. A quel punto ho deciso di andare a vedere con i miei occhi cosa succede nei Territori e non ho più avuto alcun dubbio. Sono andato spesso alle manifestazioni contro il muro a Bil'in e Na'alin. Finché non vai in West Bank e non parli con i palestinesi e non ti scontri con la violenza dell'esercito, non puoi veramente capire cosa succede. Uno dei nostri obiettivi è fermare questo lavaggio del cervello che gli studenti subiscono. Lo scopo della scuola è l'apprendimento, non la propaganda militare.
A cosa va incontro chi rifiuta di servire nell'esercito israeliano?
Quando l'esercito mi ha mandato la lettera di chiamata alla leva, un anno fa, io ho preso carta e penna e ho risposto che mi rifiutavo di prendere in mano le armi. In teoria, esiste un ufficio dell'esercito preposto al vaglio delle domande di obiezione, ma non risponde mai alle richieste. Né io né alcuno degli altri centinaia di obiettori abbiamo ricevuto risposta. A quel punto, viene il giorno in cui devi presentarti per venire reclutato, e se non ti presenti finisci in galera. La prima volta ci stai dai sette ai ventotto giorni, in isolamento, poi vieni rilasciato. L'esercito ti manda a chiamare una seconda volta dopo alcuni mesi e, se rifiuti ancora, il giudice ti rispedisce in prigione per qualche mese. E così via, anno dopo anno.
Qual è lo scopo della lettera che voi “shministim,” neo-diplomati, avete scritto?
Siamo un centinaio di firmatari quest'anno, studenti di tutte le parti del Paese, Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa e altre città. Abbiamo deciso di prendere l'iniziativa e rivendicare apertamente il nostro diritto a non essere parte dell'Occupazione. Nella lettera, ci impegniamo a predere parte attivamente contro l'Occupazione e denunciare i crimini che il governo israeliano continua a commettere da quarantadue anni a questa parte dietro la maschera della sicurezza. Prima di tutto, vogliamo che tutti gli studenti israeliani si rendano conto di quello che succede ogni giorno nei Territori, dell'oppressione che scateniamo contro la popolazione palestinese. Pochi lo sanno, e ancora meno si domandano se abbia senso o meno servire in questo nostro esercito. Vogliamo mostrare che l'Occupazione non è inevitabile, che si può battere, a cominciare dal rifiuto a esserne parte.
Vogliamo tendere una mano ai nostri fratelli palestinesi e mostrare loro che gli israeliani non sono solo i soldati che li umiliano ogni giorno ai check point: anche al di qua del Muro ci sono israeliani che lottano per la pace e per i loro diritti. Anche noi, come loro, siamo pronti ad assumerci la piena responsabilità delle nostre azioni e finire anche in prigione se necessario.
A chi avete indirizzato la vostra lettera e quali reazioni avete avuto?
Abbiamo spedito la lettera al premier Netanyahu, al Ministro dell'Istruzione, al Capo di Stato Maggiore Gabi Ashkenazi e ai presidi delle scuole superiori di tutto il paese, perché si apra un dibattito sull'obiezione di coscienza. Ne hanno parlato molti giornali e la questione è diventata pubblica. Stiamo cercando di portare il dibattito anche al di fuori di Israele [si possono seguire le iniziative su www.whywerefuse.org]. Alcuni di noi sono in viaggio in America, dove la comunità ebraica è molto radicata, per mostrare che il sionismo non è l'unica faccia di Israele e si può combattere; altri sono andati in Sudafrica per creare un legame con i loro movimenti per i diritti umani. Un nostro compagno obiettore farà un giro del sud Italia nelle prossime settimane, passando per una conferenza di ONG a Palermo, poi all'Università di Bari e di Lecce.
Quali sono state le reazioni della tua famiglia?
La scorsa settimana, l'edizione locale di “Yedioth Ahronot” ha aperto con un lungo servizio su di me e sulla mia obiezione di coscienza. Dopo aver letto l'articolo, i miei genitori mi hanno cacciato di casa, non vogliono più vedermi. Ma alcuni amici attivisti mi stanno ospitando, per qualche giorno finché non andrò in carcere. A differenza della mia famiglia, i miei compagni di classe e i miei amici rispettano la mia scelta, il mio rifiuto delle armi. Anche se non la condividono, pensano che siano una scelta legittima. Questo mi fa sperare che alla fine la nostra lotta vincerà e che l'obiezione diventerà un diritto per tutti i ragazzi israeliani.
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di Eugenio Roscini Vitali
Le dinamiche politiche delle guerre che per quasi vent’anni hanno devastato una delle più complesse regioni dell’Africa Centrale, possono essere capite solo se verranno trovate soluzioni pacifiche e durature agli eventi che le hanno causate. A dirlo è Martin Shaw, professore di politica e relazioni internazionali preso l’università britannica del Sussex, che in un articolo pubblicato su openDemocracy parla della recrudescenza delle violenze nelle province orientali dell’Ituri, di Haut-uele e del Nord Kivu. C’é questo ritorno alla ferocia, che é un fenomeno tutt’altro che isolato, piuttosto la corsa ad una nuova stagione di follia, una follia omicida spesso irrefrenabile che per oltre due decenni ha insanguinato questa parte dell’Africa.
La storia del conflitto interno congolese inizia da lontano, dal 1960, da quando uno dei principali protagonisti della lotta per l'indipendenza, Patrice Émery Lumumba, viene ucciso proprio grazie al tradimento di una leadership al soldo degli interessi stranieri: per quasi quarant’anni il Belgio, la Francia e gli Stati Uniti sosterranno le presidenze congolesi e, al solo scopo di difendere il controllo dei grandi giacimenti minerari (cobalto, diamanti, uranio, rame, manganese e stagno), aiuteranno il regime corrotto di Joseph Desiré Mobutu. Questi é un “capo” incapace di far fronte ai problemi interni di una nazione attanagliata dalla povertà e ai focolai di tensioni causati dall’afflusso massiccio di rifugiati scappati dal genocidio ruandese, focolai che dal 1994 incendieranno la parte centro-orientale del Paese e che si trasformeranno in uno scontro interetnico di dimensioni spaventose.
Due conflitti, la Prima e la Seconda guerra del Congo, che dal 1993 al 1997 e dal 1998 al 2003 causeranno la morte di più di cinque milioni di civili e la fuga di tre milioni e mezzo di persone e che coinvolgeranno 25 gruppi armati e gli eserciti di otto nazioni. Scontri armati che a fasi alterne continueranno anche dopo la fine delle ostilità, soprattutto nelle province orientali dell’Ituri, di Haut-uele e del Nord Kivu, dove negli ultimi dodici mesi 1.300.000 persone sono state costrette a lasciare i loro villaggi e migliaia di individui indifesi hanno perso la vita. Popolazioni che scappano dal fuoco incrociato delle varie fazioni, che cercano rifugio nella foresta, costrette a lasciare tutto quello che hanno per sfuggire alla morte e alla violenza e che i molti casi cadono comunque vittime della brutalità dei loro aguzzini. Azioni provocatorie, attacchi tesi a riaccendere un conflitto che nel 2005 sembrava essersi spento e che dimostrano quanto fragili siano gli accordi fino ad ora assunti dalle parti.
Secondo Shaw, il fatto più significativo della recente crisi congolese è che i massacri, gli stupri e i rapimenti sono il risultato di azioni portate avanti da un gruppo proveniente da un paese vicino, l’Esercito di Resistenza del Signore (LRA), l’organizzazione armata guidata da Joseph Kony, conosciuta per aver punito tutti coloro che andavano in bicicletta con la mutilazione delle natiche o per aver predicato l’uccisione dei polli bianchi e dei maiali. La necessità di esportate la violenza dalle foreste ugandesi al Congo orientale scaturirebbe dal fatto che durante gli ultimi anni il visionario leader degli “olum”, incriminato dalla Corte Penale Internazionale (ICC) per le atrocità commesse nell’Uganda settentrionale, è stato messo alle corde dalle forze governative del presidente Yoweri Museveni.
Costretto ad attraversare il Nilo Alberto, Kony si è spostato ad ovest, oltre Nebbi ed Arua, verso il Congo nord orientale, in un’area scarsamente protetta e difficilmente presidiabile dove l’LRA ha potuto organizzare un’ampia zona di operazioni. Ed è qui che l’ex chierichetto di Odek, un villaggio a pochi chilometri da Gulusi, Uganda settentrionale, ha dato il via ad una nuova mattanza, una carneficina degna del suo pedigree: 33 capi d’accusa per crimini di guerra e crimini contro l’umanità tra cui omicidio, riduzione in schiavitù, stupro, maltrattamenti, sfruttamento, attacchi intenzionali contro i civili, saccheggio, induzione allo stupro e rapimento di circa 20 mila bambini che ha poi reso soldati o schiavi sessuali del suo esercito.
Anche se i vertici militari di Kampala continuano ad affermare che in Uganda le basi dell’LRA sono state tutte distrutte e che l’organizzazione è ormai allo sbando, in realtà la capacità operativa di questo gruppo non sembra essere stata del tutto pregiudicata. Chi è che quindi che sostiene Kony e i suoi uomini? Persone vicine al presidente Museveni e il premier Apolo Nsibambi sono certe che dietro all’Esercito di Resistenza del Signore ci sia la mano del governo di Khartoum, che da una parte partecipa insieme all’Uganda alla campagna di repressione delle organizzazioni criminali e dall’altra mantiene stretti legami con Joseph Kony. Motivo? Il governo guidato dal presidente Omar Hasan al-Bashir vorrebbe destabilizzare l’area e minare il trattato di pace globale firmato nel 2005 con i ribelli del Sudan meridionale, un accordo che prevede un referendum popolare per l’indipendenza che si dovrebbe tenere nel 2011 e la conseguente perdita dei profitti derivanti dallo sfruttamento degli oltre due miliardi di barili di greggio presenti a sud della città di Abyei.
Afflitta da una delle più sanguinose guerre dei nostri tempi, la Repubblica democratica del Congo sta cercando di stabilizzare la regione ospitando la più grande missione di pace che le Nazioni Unite abbiano mai messo in capo e ogni forma d’iniziativa volta a raggiungere una pace duratura. Gli sforzi sembrano però inutili, soprattutto in relazione alle sanguinose vicende degli ultimi mesi che sono la dimostrazione pratica di quanto le guerre congolesi debbano essere considerate conflitti a carattere internazionale, sui quali hanno pesato e pesano ancora gli interessi di tutte le nazioni che vi hanno partecipato. Lo sconfinamento dell’Esercito di Resistenza del Signore di Joseph Kony richiama infatti l’attenzione sull’intricata rete di alleanze che attraversano l’Africa centrale e che parte dal genocidio rwandese e dal progetto di conquista dello Zaire di Mobutu avanzato dal Fronte Patriottico Rwandese di Paul Kagame per arrivare alla guerre civili del Sudan e dell’Angola.
Tra le fitte foreste pluviali che uniscono la Repubblica Democratica del Congo alla Repubblica Centro Africana, all’Uganda e al Sudan ogni traffico è lecito: armi, droga, schiavi, diamanti, coltan e cassiterite; transazioni che coinvolgono tutti, dai signori della guerra ai soldati, dai governi compiacenti a quelli corrotti; incontri riusciti e falliti, delegazioni che vanno e che vengono.
Un territorio dove la violenza è di casa, una strategia il cui obiettivo è quello di terrorizzare le popolazioni locali, quelle che subiscono quotidianamente omicidi, rapimenti e abusi sessuali. Storie di estrema brutalità, di persone bruciate vive, di sevizie e di stupri, di bambini obbligati ad uccidere i genitori, di bambine destinate a diventare oggetti sessuali, di neonati strappati alle madri. Storie che ci riguardano, che riguardano il mercato dell'elettronica, dei semiconduttori e dei superconduttori che usiamo tutti i giorni.