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di Luca Mazzucato
Il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni palestinesi, che lui stesso ha convocato per il prossimo gennaio. La decisione è stata presa in seguito alle forti polemiche per la sua posizione ambigua sul rapporto della Commissione Goldstone su Gaza e il buco nero in cui sono precipitate le speranze di pace in Medioriente. A capo dell'ANP da cinque anni, Abu Mazen (alias Mahmoud Abbas) è stato un pilastro di moderazione nel panorama palestinese, dopo la morte di Yasser Arafat. A settantaquattro anni, una vita di militanza nell'OLP e in Al Fatah, ha rappresentato insieme al premier palestinese Fayyad l'interlocutore privilegiato degli Stati Uniti e il garante dello status quo. Personaggio chiave della strategia del “processo di pace,” durante l'amministrazione Bush e i governi Sharon-Olmert-Livni si è distinto per il suo supino allineamento alle richieste occidentali e israeliane.
Dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 e il sequestro da parte israeliana di tutti i parlamentari eletti nel movimento islamico, Abbas ha avallato un vero e proprio golpe, insediando Fayyad a capo di un governo di Fatah e cercando di riconquistare con la forza delle armi la Striscia di Gaza, controllata da Hamas. Quest'ultima azione, portata avanti dal compagno di partito Muhammad Dahlan sotto il controllo americano, è sfociata in una sanguinosa guerra per bande e nell'espulsione di Fatah dalla Striscia di Gaza. Il conflitto intra-palestinese cominciato allora rimane tuttora irrisolto, nonostante gli assidui tentativi di riconciliazione tra Hamas e Fatah perpetrati da Egitto, Qatar e Arabia Saudita.
Rappresentante della vecchia guardia di Fatah, notoriamente corrotta e ormai priva di consensi, Abu Mazen non ha perso occasione per minare la propria credibilità agli occhi del popolo palestinese. In seguito ai sanguinosi scontri tra Hamas e Fatah a Gaza, le forze di polizia palestinesi in West Bank, sotto il controllo del presidente, hanno attuato una feroce repressione ai danni degli attivisti di Hamas, in un gioco di squadra insieme alle forze di Occupazione israeliana. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso riguarda l'atteggiamento tenuto da Abu Mazen nei confronti della Commissione Goldstone sull'invasione di Gaza nello scorso Gennaio.
Il rapporto della Commissione ONU, guidata dal giudice Goldstone, fervente sionista e dunque inattaccabile dalla propaganda israeliana, accusa governo ed esercito israeliano (insieme ad Hamas) di crimini di guerra durante l'invasione di Gaza. A fine settembre, la delegazione palestinese all'ONU avrebbe dovuto iniziare le procedure per presentare il dossier all'ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza, per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite. Ma Abu Mazen si è piegato alle pressioni americane e ha deciso di bloccare l'iniziativa e posticiparla all'anno prossimo, cercando di insabbiare il procedimento.
La sottomissione di Abbas al diktat americano è stata di fatto percepita come un tradimento imperdonabile della causa nazionale da parte dei palestinesi, che sono scesi in piazza numerosi a dimostrare contro Abbas, tanto che persino la Siria e gli altri paesi arabi hanno condannato la mossa. Nonostante siano stati presi di mira dalla Commissione Goldstone, i leader di Hamas hanno accusato Abbas di giustificare a posteriori il massacro dei millequatrocento palestinesi morti nelle tre settimane di conflitto. Abbas ha cambiato idea la settimana scorsa, ottenendo l'approvazione del dossier Goldstone dal Consiglio ONU per i Diritti Umani nonostante la contrarietà americana, ma l'indecisione dimostrata in precedenza sarà difficile da digerire per gli elettori palestinesi. Durante una recente telefonata con Obama, in cui lo avvisava della sua volontà di farsi da parte, Abbas ha ammesso al presidente americano che il caso Goldstone è stato un grave errore politico.
Questo è il percorso che ha portato Abu Mazen a non ricandidarsi. Ha atteso la partenza del Segretario di Stato americano Hillary Clinton, in visita ufficiale tra Israele e Palestina, per rendere nota la propria decisione con un messaggio in diretta tv, ammettendo che qualsiasi tentativo di dialogo con il governo del falco Netanyahu è inutile e dunque la sua missione politica è esaurita.
Nonostante le elezioni siano programmate per il prossimo gennaio, è improbabile che la data venga rispettata. Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha dichiarato che non riconoscerà le elezioni fino a quando non verrà raggiunto un accordo tra il movimento islamico e Fatah, accordo che al momento resta lontano. Dunque Abu Mazen rimarrà saldamente al potere ancora per qualche tempo, in attesa che tra le file di Fatah emerga un candidato alternativo. Ma quali sono le alternative?
Al recente congresso di Fatah, il maggior consenso è stato riscosso proprio da Muhammad Dahlan, l'artefice del fallito colpo di stato a Gaza contro Hamas e uomo di fiducia dei servizi segreti americani. Ma la popolarità di Dahlan tra i palestinesi è ridotta, per via delle voci di corruzione e soprattutto per la sua rocambolesca fuga da Gaza in West Bank, orchestrata dall'esercito israeliano. Rimane Marwan Barghouti, ex-capo delle milizie Tanzim, che gode di un enorme consenso popolare e pare l'unico in grado di battere Haniyeh, il premier del governo Hamas a Gaza. Purtroppo, Barghouti si trova nelle carceri israeliane, dove sta scontando una condanna a cinque ergastoli, sebbene voci sul suo possibile rilascio riaffiorino di tanto in tanto.
Quel che è certo è che le speranze di pace per il Medioriente, all'apice un anno fa dopo l'elezione di Barack Obama, sono sprofondate. Nell'opinione pubblica palestinese, l'atteggiamento della nuova amministrazione americana nei confronti di Israele non è cambiato rispetto all'era Bush. La questione del congelamento delle colonie illegali in West Bank, che Obama aveva posto come precondizione per la ripresa del negoziato, è naufragata miseramente. Netanyahu ha chiamato il bluff americano e ha vinto la partita. L'ultima doccia fredda per i palestinesi è stato infatti l'accordo tra Clinton e Netanyahu per un cosiddetto “blocco temporaneo delle colonie,” ostentato come un grande successo dagli Stati Uniti, ma visto dai palestinesi come la definitiva capitolazione americana. Non è del tutto implausibile che la moneta di scambio sia stato l'addolcimento della posizione israeliana sull'Iran, che Netanyahu avrebbe offerto in cambio della mano libera sugli insediamenti nei Territori.
Dopo la notizia dell'abbandono di Abbas, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha dichiarato che “i palestinesi dovranno abbandonare l'idea di uno stato indipendente,” e che Abbas dovrebbe “dire la verità al suo popolo, cioè che con l'espansione degli insediamenti la soluzione dei due-stati non è più un'opzione possibile.” Secondo Erekat, “non rimane che focalizzare la propria attenzione sulla soluzione dello stato singolo, dove musulmani, cristiani ed ebrei possono vivere con gli stessi diritti.”
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di Michele Paris
Dopo mesi di estenuanti trattative e onerosi compromessi, nella notte tra sabato e domenica la Camera bassa del Congresso americano ha consegnato al presidente Obama una prima sostanziale vittoria nella ancora lunga battaglia per la riforma sanitaria. La risicatissima maggioranza messa assieme dai democratici nella votazione decisiva, è stata resa possibile però solo a prezzo di rilevanti cedimenti all’ala più moderata del partito sulla questione dell’accesso all’aborto, nell’ambito del piano pubblico che rappresenta uno dei nodi centrali della riforma stessa.
Il blitz di Barack Obama al Congresso, alla vigilia di un voto che era rimasto in dubbio fino all’ultimo, è risultato alla fine decisivo per convincere una manciata di deputati recalcitranti ad appoggiare una legge di 1990 pagine che costerà oltre mille miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Il primo test parlamentare per la riforma che potrebbe segnare l’intera presidenza dell’inquilino della Casa Bianca, è stato alla fine superato con una maggioranza di 220 voti a favore e 215 contrari. Tra i democratici, si sono contati 39 voti contrari, quasi tutti di “congressmen” provenienti da distretti conservatori, mentre a sorpresa un solo repubblicano ha votato con la maggioranza, il deputato Anh “Joseph” Cao della Louisiana.
Nonostante l’approvazione del piano di riforma renda possibile il più consistente allargamento della copertura sanitaria negli USA dal 1965, anno in cui vennero istituiti i piani pubblici per anziani e indigenti (Medicare e Medicaid), il nuovo sistema continuerà a poggiarsi fondamentalmente sulle compagnie di assicurazione private. Queste ultime, però, non potranno più rifiutare la copertura sanitaria a persone con precedenti malattie, così come dovranno sottoporre eventuali aumenti dei premi delle loro polizze ai nuovi organi regolatori istituiti dal governo.
Le aziende americane, da parte loro, avranno l’obbligo di offrire un’assicurazione sanitaria ai propri dipendenti; in caso contrario dovranno pagare una sanzione pari all’8% di quanto spendono in stipendi. Allo stesso modo, ogni singolo cittadino dovrà acquistare una polizza per non pagare una multa che potrà arrivare fino al 2,5% del suo reddito annuo. A livello statale, il programma Medicaid, riservato ora a famiglie a basso reddito, verrà esteso a 15 milioni di persone. Per quanti hanno entrate tali da non potersi permettere l’acquisto di una polizza da una compagnia privata, saranno disponibili sussidi governativi e, soprattutto, un piano pubblico alternativo.
Il nuovo piano democratico potrebbe giungere così a coprire circa 36 milioni di americani attualmente privi di ogni assistenza sanitaria, lasciandone però ancora altri 18 milioni senza alcuna copertura, un terzo dei quali immigrati illegali. Per evitare un aumento del già enorme deficit statunitense, la riforma secondo la legge licenziata dalla Camera dei Rappresentanti sarà finanziata da 400 miliardi di tagli al programma pubblico Medicare e da una serie di nuove tasse, tra cui un contributo del 5,4% sui redditi superiori ai 500 mila dollari per singoli contribuenti e al milione per le famiglie.
La legge uscita dalla Camera, come ha ammesso la stessa speaker democratica Nancy Pelosi, appare ben lontana dal rappresentare una risposta compiuta ai problemi del sistema sanitario americano. Tanto più che la riforma definitiva che Obama vorrebbe firmare entro la fine dell’anno dovrà passare ora attraverso l’esame del Senato, dove la proposta in discussione appare già decisamente più timida rispetto a quella appena approvata alla Camera. Una volta ottenuto l’OK tutt’altro che scontato del Senato, i due documenti dovranno essere amalgamati in un unico testo che richiederà nuovamente il voto positivo di entrambi rami del Congresso. Un percorso ancora lungo, dunque, e pieno di ostacoli, soprattutto alla luce delle divisioni emerse negli ultimi mesi tra le varie anime del Partito Democratico.
Con l’opposizione pressoché totale dei repubblicani, per ottenere il passaggio della legge la leadership democratica alla Camera ha dovuto sostenere serrate trattative con i propri deputati, in particolare intorno ad un emendamento relativo all’accesso all’aborto. Alcune decine di democratici contrari all’interruzione di gravidanza avevano infatti minacciato di votare contro la riforma se in essa non fosse stata inclusa un’esplicita proibizione di finanziare l’aborto con denaro federale. Pur mettendo a rischio il sostegno dei parlamentari “pro-choice”, la speaker Nancy Pelosi ha alla fine dovuto sacrificare l’opportunità per le donne con redditi più bassi di avere accesso all’aborto, così da assicurarsi il passaggio della riforma nella sua interezza.
Alla fine del processo legislativo, con ogni probabilità, la riforma sanitaria americana risulterà ben diversa da quella auspicata da buona parte degli elettori - soprattutto liberal - che hanno sostenuto Obama nella sua corsa alla Casa Bianca dodici mesi fa. Analogamente, l’esito definitivo sarà molto lontano da quella soluzione che sola avrebbe potuto istituire un sistema pubblico di assistenza sanitaria veramente universale (“single-payer”).
Al di là dei limiti che caratterizzano il provvedimento appena uscito dalla Camera e di quelli che segneranno quello che dovrebbe uscire tra qualche settimana dal Senato, l’eventuale firma di Obama su un testo definitivo rappresenterebbe indiscutibilmente un successo storico per questa amministrazione. Un risultato certamente di compromesso, ma che con ogni probabilità non avrebbe potuto essere altrimenti, viste le resistenze e gli interessi dei poteri forti che da decenni negli Stati Uniti si oppongono strenuamente ad ogni cambiamento ad un sistema che a tutt’oggi nega qualsiasi assistenza sanitaria a quasi 50 milioni di persone.
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di Michele Paris
In concomitanza con la visita in Pakistan della settimana scorsa del Segretario di Stato americano, Hillary Rodham Clinton, i militanti islamici hanno portato a termine un attentato a Peshawar che ha causato oltre cento morti. Qualche giorno più tardi, sono state almeno una cinquantina le vittime di due esplosioni a Rawalpindi e Lahore. Solo nelle ultime settimane, una drammatica escalation di violenze ha accompagnato l’attacco dei militari pakistani nella regione del Waziristan del Sud, vera e propria roccaforte delle forze ribelli al confine con l’Afghanistan. Un’iniziativa bellica complicata e voluta fortemente da Washington che, nonostante i proclami, difficilmente potrà però cancellare in maniera definitiva la presenza dei talebani e dei seguaci di Al-Qaeda che operano nelle aree tribali del nord-ovest del paese.
In concomitanza con l’avanzata dell’esercito pakistano, la guerriglia talebana ha immediatamente intensificato le proprie operazioni e modificato i destinatari delle offensive. Mentre in precedenza gli attacchi suicidi erano rivolti ad obiettivi occidentali e ad installazioni delle forze di sicurezza pakistane, le loro azioni appaiono ora sempre più indiscriminate e mirate a mietere il maggior numero di vittime nei centri più densamente abitati.
La regione montana semi-autonoma del Waziristan è da tempo il rifugio dell’organizzazione islamica Tehrik-i-Taliban, un’alleanza che raccoglie una decina di gruppi integralisti che si battono per la destabilizzazione del governo centrale pakistano. Il loro leader, Baitullah Mehsud, era stato ucciso il 5 agosto scorso da un’incursione di un drone statunitense e, da allora, la guida del movimento è stata assunta dal 28enne Hakimullah Mehsud, sul quale il governo ha ora messo una taglia di 600 mila dollari.
L’avanzata dei Talebani in Pakistan, a partire dalle zone di frontiera con l’Afghanistan, era giunta nel 2007 fino alla valle dello Swat, a poche centinaia di chilometri dalla capitale, dove il loro controllo, avallato dal governo, aveva portato all’imposizione della legge islamica su una popolazione terrorizzata. La minaccia di puntare su Islamabad aveva finalmente provocato la reazione del governo, fino ad una massiccia controffensiva dell’esercito condotta con successo qualche mese fa. Lo sgombero dei ribelli dal distretto di Swat è avvenuto tuttavia solo in seguito a gravi perdite da entrambe le parti e all’abbandono delle proprie abitazioni di centinaia di migliaia di persone.
Il piano seguito in quest’ultima regione appare ora però difficilmente replicabile in Waziristan, dove i militari avevano peraltro già sofferto gravi perdite in un’offensiva del 2004, risoltasi con una tregua e la cessione di fatto del territorio ai talebani. La strategia dell’esercito potrebbe piuttosto limitarsi al tentativo di eliminare la presenza dei membri di Al-Qaeda ritenuti più pericolosi, in particolare quel migliaio di militanti di nazionalità uzbeka che combattono in Pakistan. Negli ultimi giorni infatti l’avanzata dei militari ha portato alla conquista proprio di due roccaforti dei guerriglieri uzbeki – le città di Kaniguram e Karama, evacuate in fretta e furia.
Questo obiettivo limitato permetterebbe così al governo pakistano di evitare un massiccio impiego di forze nell’area e, allo stesso tempo, di soddisfare almeno temporaneamente le richieste degli Stati Uniti e della NATO per una zona di confine più stabile, così da facilitare le operazioni militari in Afghanistan. Anche solo limitarsi alla cacciata dei militanti uzbeki non sembra tuttavia un compito facile, dal momento che l’avanzata dell’esercito in Waziristan rischia di coinvolgere nel conflitto altri gruppi ribelli attivi nelle regioni limitrofe.
Secondo alcuni analisti pakistani, sarebbero tra i mille e i duemila gli affiliati ad Al-Qaeda del Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU) nel Waziristan del Sud. Inizialmente attivi in Afghanistan, furono costretti a riparare in Pakistan nel marzo del 2002 in seguito all’Operazione Anaconda, condotta dall’esercito americano e dalla CIA. Negli ultimi mesi i militanti uzbeki sembrano essere stati notevolmente indeboliti dagli attacchi condotti dai droni americani in territorio pakistano, in uno dei quali è stato ucciso il loro leader, Tahir Yuldashev. Alla vigilia dell’offensiva delle forze armate di Islamabad, lo stesso comandante dell’esercito, generale Ashfaq Parvez Kayani, aveva lasciato intendere che le “dinamiche nel Waziristan del Sud potrebbero cambiare se riuscissimo a rimuovere i combattenti uzbeki”, definiti come i più fedeli seguaci dell’ideologia integralista e sanguinaria di Al-Qaeda.
Siano queste o meno le vere intenzioni pakistane, rimangono forti le pressioni degli USA per fare pulizia completa dei militanti islamici nelle aree tribali e riconsegnarle al controllo del governo centrale. Una tale prospettiva, allo stato attuale delle forze in campo, appare però poco più di un miraggio, come ha dimostrato un recente studio pubblicato dal think tank di Washington, New American Foundation, sulle effettive capacità dell’esercito del Pakistan di condurre operazioni di “counterinsurgency”.
Questa analisi realizzata dal ricercatore Sameer Lalwani ha evidenziato come, per conquistare in maniera definitiva le aree tribali del nord-ovest, l’esercito pakistano dovrebbe impiegare dai 370 ai 430 mila uomini. Il numero massimo di soldati che potrebbero essere mobilitati dal confine indiano in tempi ragionevoli è stimato però intorno alle 152 mila unità. Per mettere assieme invece una forza tale da garantire un controllo completo delle operazioni, a Islamabad servirebbero dai due ai cinque anni. Attualmente, nel Waziristan del Sud sono spiegati appena 28 mila soldati che devono fronteggiare circa 12 mila militanti che conoscono alla perfezione la conformazione di un territorio ostile.
La realtà sul campo appare dunque ben diversa dai proclami che si stanno sprecando nelle ultime settimane dalle capitali americana e pakistana. La sempre più profonda influenza di Washington nelle questioni interne del Pakistan promette poi di accrescere il malcontento nel paese e di mettere in crisi ulteriormente un governo già debole e impopolare come quello di Asif Ali Zardari. Come ha dimostrato peraltro anche l’accoglienza estremamente critica riservata settimana scorsa a Hillary Clinton nel corso dei suoi meeting organizzati con studenti e cittadini comuni.
Perché in Pakistan difficilmente può passare inosservata la presenza americana dietro l’offensiva dell’esercito nel Waziristan. Washington infatti sta silenziosamente fornendo armi ed equipaggiamenti militari al governo pakistano per centinaia di milioni di dollari negli ultimi mesi. I voli degli aerei di sorveglianza senza pilota hanno allo stesso modo consegnato importanti informazioni relative agli obiettivi da colpire nelle zone presidiate dai militanti islamici. Nonostante agli americani non sia consentito condurre operazioni di combattimento in territorio pakistano, il numero di paramilitari e soldati delle forze speciali di Washington giunto nel paese con compiti di addestramento si è inoltre moltiplicato.
Se il Segretario di Stato USA ha trovato interlocutori disposti ad ascoltare la lezione di Washington, sia nei membri del governo di Zardari che nel leader dell’opposizione Nawaz Sharif, le relazioni tra i due paesi rimangono complicate. Così come profondamente radicato resta il sentimento anti-americano nel paese, tanto che esponenti politici e militari locali sono difficilmente disponibili a parlare apertamente degli aiuti forniti dal potente alleato nel disperato tentativo di rafforzare il controllo del governo centrale sui molteplici movimenti ribelli che fioriscono entro i propri confini. Un’ingerenza che l’amministrazione Obama vede come inevitabile per stabilizzare la situazione del vicino Afghanistan, ma che rischia seriamente di produrre effetti opposti a quelli desiderati.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. In occasione del ventennale della caduta del Muro di Berlino, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha tenuto un discorso ufficiale di fronte al Congresso statunitense, onore toccato finora a un solo cancelliere federale, Konrad Adenauer, nel 1957. Il discorso della Merkel, tuttavia, non ha soddisfatto le attese del mondo politico. Se, da una parte, la cancelliera è riuscita a convincere tutti con le sue parole di ringraziamento agli Stati Uniti, dall'altra non ha fornito i chiarimenti attesi riguardo le quérelles internazionali più urgenti, come Afghanistan e crisi economica.
Angela Merkel ha aperto il suo discorso ringraziando gli Stati Uniti per l'appoggio offerto alla Germania nel corso della storia, soffermandosi sui due momenti particolari in cui il sostegno degli Usa fu fondamentale, e cioè contro la dittatura nazista e nel processo di Riunificazione della Germania. A questo proposito, l’ex ragazza dell'Est ha riportato con parole toccanti anche la sua esperienza personale.
"Come tanti giovani, anch'io mi sono entusiasmata per una marca particolare di jeans che non c'erano nella Repubblica Democratica Tedesca e che mia zia mi spediva dall'Ovest", ha confessato la Merkel. Con queste semplici parole, la cancelliera venuta dall'Est ha voluto testimoniare l'importanza degli eventi storici nella vita quotidiana die piccoli. "La terra delle possibilità infinite era, per me, la terra delle possibilità irraggiungibili", ha concluso la Merkel riferendosi all’America dell’american dream, e, per riportare il discorso a un tono ufficiale, ha colto l'occasione per commemorare i presidenti americani che hanno ricoperto un ruolo nel rapporto Usa- Germania, da J.F. Kennedy a G. W. Bush.
Dopo l'excursus storico, che non ha mancato di riscuotere lodi tra i senatori statunitensi, la Merkel è passata alle questioni politiche contemporanee: qui, però, la cancelliera non si è espressa in modo incisivo. Riguardo la questione mediorientale, la Merkel ha riconosciuto l'importanza e la difficoltà delle missioni, ribadendo l'interesse della stessa Germania "a condurre al successo il concetto ideale di sicurezza globale" espresso dagli Usa. La cancelliera, tuttavia, non ha dato risposte concrete alle richieste di Barack Obama, che vorrebbe un aumento del contingente tedesco in Afghanistan. Forse proprio in ragione della sua storia, la Germania è un Paese molto critico, e la cancelliera lo sa: sarebbe molto difficile spiegare ai suoi cittadini l'invio di nuovi militari in Afghanistan.
Per quel che riguarda la crisi economica, la Merkel non ha mancato di sottolineare l'importanza della collaborazione tra Stati Uniti e Europa, un rapporto che definisce cruciale per evitare il ripetersi della crisi. "Un'economia globalizzata richiede un sistema di regole globale", ha precisato la Merkel e, senza un impegno comune di Europa e Stati Uniti, questo non si può ottenere. La cancelliera ha invitato anche a "non cadere nella tentazione del protezionismo", non entrando però nel vivo delle critiche che ci sono state nei confronti della sua politica da parte degli Stati Uniti.
La Mekel ha pronunciato parole decise nei confronti dell'Iran, confermando un atteggiamento di "tolleranza zero" verso la politica di Mahmoud Ahmadinejad. "L'Iran conosce i limiti della politica occidentale: un presidente che nega l'Olocausto, che minaccia Israele e che non garantisce i diritti fondamentali dell'esistenza non può possedere la bomba atomica".
Ma il vero cavallo di battaglia dell'agenda Merkel è stata la questione del clima, che ha definito, senza mezzi termini, il nuovo "Muro eretto tra presente e futuro che c’impedisce di vedere le necessità delle generazioni future". A questo proposito ha chiamato tutti a impegnarsi in modo continuo e reale, strappando anche numerosi applausi ai senatori statunitensi che, si sa, al momento non vogliono (o non possono) investire troppo in questo campo.
Al momento, in effetti, Obama e i suoi collaboratori hanno numerosi problemi interni da risolvere, tra cui la riforma sanitaria e gli effetti quotidiani di una crisi economica non ancora inquadrata del tutto, e il problema del clima passa in secondo piano. Probabilmete lo sa anche Angela Merkel: per questo, forse, non si è sbilanciata con proposte concrete, limitandosi a mostrare un'ottima intesa con il presidente Obama e non forzando la mano sulle questioni più delicate tra le due potenze. Per la richiesta di seggio al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ambizione dichiarata di Berlino, é cosa utile avere un alleato alla Casa Bianca.
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di Michele Paris
A un anno esatto dalla trionfale conquista della Casa Bianca di Barack Obama, il Partito Democratico americano ha dovuto incassare martedì, come previsto, due pesanti sconfitte nelle uniche competizioni in calendario quest’anno per eleggere nuovi governatori: in Virginia e New Jersey. Se anche la tornata elettorale era stata presentata da molti, soprattutto repubblicani, come un referendum sul presidente, le due vittorie dell’opposizione nei due stati orientali dicono in realtà poco in previsione delle ben più importanti elezioni di medio termine del prossimo anno. Decisamente più rilevante invece a livello nazionale è stata un’elezione suppletiva, vinta dai democratici, per un seggio alla Camera dei Rappresentanti nello Stato di New York, trasformata dagli stessi repubblicani in una vera e propria scommessa sul futuro del proprio partito.
Dal punto di vista dell’impatto mediatico, il voto in Virginia e New Jersey era indubbiamente quello di maggiore interesse, dal momento che soprattutto nel secondo stato, tradizionalmente di orientamento democratico, lo stesso Obama aveva investito molto del suo capitale politico per sostenere il governatore in carica Jon Corzine. Ex presidente di Goldman Sachs, quest’ultimo aveva visto il proprio indice di gradimento crollare nell’ultimo anno in seguito alle gravi conseguenze causate dalla crisi economica nel suo stato. Incalzato dall’ex procuratore federale, il repubblicano Christopher J. Christie, Corzine nulla ha potuto per assicurarsi un secondo mandato nonostante l’ingente somma spesa nella campagna elettorale di tasca propria, ben tre comizi tenuti con Obama nelle ultime settimane e una serie di offensive mediatiche nei confronti del suo rivale.
Christie alla fine ha raccolto il 49% dei consensi contro il 44% di Corzine, in uno stato nel quale gli elettori registrati come democratici sono 700 mila in più rispetto ai repubblicani e che dodici mesi fa nelle presidenziali era stato conquistato da Obama con 17 punti percentuali di vantaggio su McCain. A contribuire in maniera decisiva alla vittoria repubblicana nel New Jersey sono stati la disoccupazione alle stelle, il deficit di bilancio fuori controllo e un livello di tassazione in continua crescita. Il neo-governatore da parte sua ha beneficiato del ruolo di primo piano giocato nello smantellamento di una vasta rete di corruzione che ha coinvolto negli ultimi mesi numerosi politici democratici. Una vicenda quest’ultima che ha pesato fortemente sulle motivazioni degli elettori del governatore in carica, molti dei quali infatti hanno deciso di non recarsi alle urne.
Se la competizione del New Jersey appariva come quella più a portata di mano per il partito del presidente, le speranze di ribaltare la situazione in Virginia erano andate invece svanendo nelle ultime settimane. La netta sconfitta subita del senatore dello Stato R. Creigh Deeds (41% dei consensi) per mano dell’ex procuratore generale Robert McDonnell (59%) giunge tra l’altro in contemporanea ai successi repubblicani messi a segno anche per le cariche di vice-governatore e procuratore generale. Funzioni tutte ricoperte fino a due giorni fa da democratici, i quali l’anno scorso con Obama avevano anche espugnato la Virginia nelle presidenziali per la prima volta dal 1964.
Con Mark Warner e Tim Kaine i democratici avevano occupato il posto di governatore in questo stato negli ultimi otto anni ma la debolezza del candidato Deeds era apparsa evidente poco dopo le primarie vinte ai danni del più agguerrito veterano clintoniano Terry McAuliffe. Durante la campagna elettorale i democratici avevano cercato in tutti i modi di dipingere McDonnell come un conservatore radicale, portando alla luce una sua tesi per un master universitario conseguito due decenni fa e nella quale dava giudizi pesantemente negativi sulle madri single e sulle donne lavoratrici. Il candidato repubblicano tuttavia è riuscito ad evitare lo scontro sui temi sociali, focalizzando la sua corsa attorno alla creazione di posto di lavoro e al sentitissimo problema dei trasporti pubblici, riuscendo così a fare breccia tra gli elettori indipendenti dei distretti settentrionali che nel 2008 avevano giocato un ruolo decisivo nella vittoria di Obama.
Il dato più significativo in chiave nazionale che emerge dalla Virginia e dal New Jersey, paradossalmente, sembra in ogni caso non essere troppo negativo per il presidente. Secondo gli exit poll, Obama rimane infatti piuttosto popolare in entrambi gli stati, come indica un livello di gradimento solo leggermente inferiore rispetto allo scorso anno, malgrado le difficoltà e le incertezze dei primi mesi del suo primo mandato. Ciò che appare evidente è piuttosto, da un lato, l’apatia di una parte dei suoi elettori (giovani e minoranze etniche) che hanno disertato le urne e, dall’altro, il sostegno offerto ai candidati repubblicani dai cosiddetti indipendenti, in genere molto preoccupati dell’andamento dell’economia americana.
L’abilità di Obama di mobilitare gli elettori a sostegno di altri candidati democratici, oltre che in Virginia e New Jersey, è stata messa alla prova poi anche nel 23esimo distretto congressuale dello Stato di New York, dove la Casa Bianca era in qualche modo intervenuta in una vicenda dagli sviluppi tutti particolari. L’elezione speciale in questo distretto solidamente repubblicano si era resa necessaria in seguito alle dimissioni del deputato dell’opposizione John McHugh, nominato Segretario dell’Esercito degli Stati Uniti. La competizione per il seggio vacante alla Camera dei Rappresentanti aveva attirato da subito l’attenzione dell’establishment politico di Washington, soprattutto degli esponenti di spicco del Partito Repubblicano.
Per l’elezione suppletiva, i repubblicani locali avevano inizialmente scelto la parlamentare statale Dede Scozzafava, le cui posizioni a favore dell’aborto e dei diritti gay, così come il suo appoggio al piano di stimolo all’economia di Obama, avevano però suscitato le critiche immediate dell’ala più conservatrice del partito. La competizione si era trasformata allora in una sorta di resa dei conti interna tra moderati, convinti che il futuro del partito risieda nel coinvolgimento di candidati ed elettori centristi, e conservatori, fautori di un ritorno ai valori originali del partito. Le personalità di punta del partito, a partire dall’ex candidata alla vice-presidenza nel 2008 Sarah Palin, avevano allora manifestato il proprio sostegno ad un terzo candidato, il poco conosciuto Douglas Hoffman, in corsa sotto le insegne del Partito Conservatore.
In seguito alle enorme pressioni subite, Dede Scozzafava qualche giorno prima del voto aveva così deciso di farsi da parte, teoricamente per non divedere il voto repubblicano favorendo il candidato democratico Bill Owens. Il giorno successivo al ritiro dalla competizione tuttavia, la candidata originaria del Partito Repubblicano, su richiesta della Casa Bianca, annunciava il suo appoggio proprio all’ex rivale democratico, tirandosi addosso le ire dei suoi colleghi e determinando verosimilmente l’esito del voto.
L’inaspettata vittoria da parte di Owens, centrata grazie a tre punti percentuali di margine su Hoffman (49% e 46%), rappresenta uno smacco per quei conservatori decisi a dare una netta svolta a destra al partito su scala nazionale e che a partire dalle elezioni del novembre 2008 hanno accresciuto la loro influenza tra i membri dell’opposizione al Congresso. Il livello di mobilitazione dei sostenitori di Hoffman e l’aperto sostegno offertogli nel corso della campagna elettorale da testate conservatrici importanti come il Wall Street Journal e il Weekly Standard, ma anche di anchormen popolari come Rush Limbaugh o Glenn Beck di Fox News, era sembrato galvanizzare la base repubblicana, ma ha in definitiva allontanato quella fetta decisiva di elettori moderati attestati su posizioni socialmente più liberal.
L’esito di questa elezione locale, se consente ad un Obama relativamente in affanno di prendere una boccata di ossigeno in vista delle imminenti battaglie al Congresso su temi delicati come la riforma sanitaria, impartisce una lezione severissima ad un Partito Repubblicano sempre più in mano alla destra radicale e virtualmente sparito dagli stati del nord-est del paese. Non è un caso infatti che, come indicano i più recenti sondaggi, a fronte di una popolarità in calo dello stesso presidente, quella della delegazione parlamentare repubblicana risulti addirittura inferiore al venti percento.
Oltre alle suddette elezioni, martedì negli Stati Uniti si è votato poi per molte altre competizioni locali e per alcuni referendum in vari stati. Tra le altre, va segnalata la conquista della carica di sindaco di New York per la terza volta consecutiva del miliardario Michael Bloomberg. Anche se ampiamente prevista, l’affermazione di Bloomberg è arrivata però con un margine molto ristretto nei confronti del suo sfidante, il democratico William Thompson (51% a 46%). Un attestato di sfiducia nei confronti del sindaco uscente che aveva frantumato ogni record di spesa in una campagna elettorale municipale spendendo oltre 100 milioni di dollari per assicurarsi un terzo mandato dopo aver dissolto il limite di due incarichi consecutivi con una manovra legislativa pochi mesi fa.
Nel Maine, infine, grande delusione c’è stata per i sostenitori dei diritti degli omosessuali. In questo piccolo stato del New England infatti gli elettori hanno deciso di annullare una legge adottata dalla legislatura locale la scorsa primavera che legalizzava i matrimoni dello stesso sesso. Dopo un’identica sconfitta rimediata in California nel novembre del 2008, il movimento gay sperava con questo voto di capitalizzare il via libera dato alle unione tra persone dello stesso sesso negli ultimi mesi da quattro stati americani: Connecticut, Iowa, New Hampshire e Vermont.