di Giuseppe Zaccagni

Non c’è pace per il Caucaso: la Georgia è ancora sconvolta dai contestati risultati elettorali delle settimane scorse; l’Azerbaigjan, diviso tra sunniti e sciiti, si trova a fare i conti con movimenti islamici filo-iraniani e una situazione a rischio che riguarda il Nakhchivan, l'enclave situata tra Turchia ed Armenia. E tutto questo per non parlare del contenzioso tra Baku ed Erevan a proposito del Nagorno-Karabakh. Ed ora ecco che l’Armenia (93,3% armeni e 1,6% russi) si appresta ad affrontare - il 19 febbraio - le elezioni presidenziali dalle quali dovrà uscire il nuovo Presidente che andrà ad occupare, per i prossimi cinque anni, il posto dove dal 1998 siede Robert Serdakovic Kocaryan (classe 1954), un personaggio più interessato al potere che allo sviluppo della democrazia e dello stato di diritto e che ora deve lasciare il seggio perché giunto al termine del suo secondo ed ultimo mandato. In lizza, praticamente, sono due i maggiori candidati - Sarkisian e Petrosian - che si scontrano, quanto a politica generale, su questioni nodali relative ai rapporti con Karabach, Turchia e Azerbajgian. Ed ecco una rapida panoramica su questa Armenia pre-elettorale.

di Eugenio Roscini Vitali

Il National intelligence estimate (Nie), il rapporto pubblicato il 3 dicembre scorso dalle 16 maggiori agenzie americane di spionaggio, ha stabilito in modo inequivocabile l’avvenuta sospensione del programma atomico iraniano, un progetto che le autorità di Teheran non dovrebbero riprendere prima di tre-cinque anni. Il giudizio del Nie contrasta con le dichiarazioni del presidente Bush che, comunque, non riduce la portata del pericolo sul nucleare e spinge affinché la comunità internazionale aumenti le pressioni sul regime di Mahmoud Ahmadinejad. Pur allontanando la minaccia di un conflitto, il rapporto compromette soprattutto i delicati equilibri politici iraniani, ed in particolar modo danneggia l’attuale leadership che, a pochi mesi dalle elezioni legislative, deve confrontarsi con i problemi del Paese. Anche se sembra assurdo, il Nie potrebbe riuscire là dove intimidazioni e sanzioni hanno fallito: mettere in crisi l’ex sindaco di Teheran; dimostrando allo stesso tempo che il cambiamento c’è, esiste e non sempre è necessaria una guerra.

di Alessandro Iacuelli

Sono ormai trascorsi più di due anni, dalla sparatoria avvenuta nei pressi di Sarajevo commessa da italiani, dove trovò la morte una donna e rimasero feriti gravemente il marito ed il figlio undicenne. Due anni da quel 5 gennaio 2006, quando uomini armati si introdussero sparando nell'abitazione della famiglia Abazovic, a Rogatica nella Republika Srpska. E, dopo due anni, non c'è stato alcun processo, né in Italia né nella giovane repubblica balcanica. Tutto avvenne in una fredda mattina invernale, durante quella che doveva essere l'operazione di arresto di un presunto criminale di guerra serbo-bosniaco. La missione, da parte della missione "di pace" in Bosnia Erzegovina Eufor, venne assegnata ai carabinieri italiani. Ma l’operazione finì in modo tragico, in quel piccolo paese ad una settantina di chilometri da Sarajevo: un morto e due feriti gravi. La persona morta è Rada Abazovic, di 46 anni, i feriti sono il marito ed il piccolo figlio. Rada Abazovic morì per le ferite riportate due ore dopo il suo ricovero all’ospedale di Foca.

di Luca Mazzucato

Non è una battuta razzista da bar sport, ma la dichiarazione ufficiale di Olmert, primo ministro israeliano. Da venerdì l'esercito israeliano ha bloccato le forniture di carburante alla Striscia di Gaza e impedito alle Nazioni Unite di consegnare gli aiuti umanitari. L'unica centrale elettrica di Gaza City domenica si è spenta, lasciando al buio circa un milione e mezzo di persone. “Per quanto mi riguarda, tutti gli abitanti di Gaza possono camminare,” ha replicato stizzito Olmert alla domanda preoccupata di un giornalista riguardo la catastrofe umanitaria in corso. Potranno sicuramente camminare verso un radioso futuro anche i pazienti in dialisi all'ospedale di Gaza e i trentacinque bambini prematuri nell'incubatrice, per non parlare delle decine di malati gravi tenuti in vita dalle macchine. Il gasolio per il generatore di emergenza dell'ospedale può bastare per poche ore, dopo le quali la sentenza è già scritta. Quarantacinque pazienti sono già morti da giugno a questa parte a causa della chiusura di Gaza da parte dell'IDF.

di Bianca Cerri

Le centinaia di signorine che lavorano nei bordelli nell’hinterland di Las Vegas, Reno e Carson City possono tirare un sospiro di sollievo. Il baraccone elettorale è ripartito e finalmente si torna al peccato, vera forza motrice dell’economia del Nevada. La vittoria del repubblicano Mitt Romney era in fondo prevedibile, visto che le lobbies del gioco sono tra i principali finanziatori della sua campagna elettorale. Meno prevedibile quella di Hillary Clinton, che tirando gli ispanici e le donne dalla sua parte ha comunque sbaragliato gli avversari. L’ex- first lady ha nuovamente giocato sulla fragilità delle donne in politica, perennemente ostacolate dai colleghi maschi. Con milioni di dollari e un impressionante apparato propagandistico a disposizione, Clinton continua ogni tanto a tirare fuori i panni della donzella indifesa, vittima della prepotenza maschile. Pare che la tattica funzioni, ma forse non sarebbe stata sufficiente per vincere a Las Vegas se il destino non avesse offerto alla candidata democratica la possibilità di giocarsi un’altra carta sfruttando la coincidenza del voto con il decimo anniversario dell’affare Lewisnky.


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