di Giuseppe Zaccagni

Non avrà ancora il carisma di quella Evita Peron, ma è certo che alle elezioni presidenziali che si terranno in Argentina il 28 ottobre prossimo, nell’Olimpo del potere - la Casa Rosada - dovrebbe salire la 54enne Cristina-Elizabeth Fernandez, avvocato e moglie del presidente in carica Nestor Kirchner. E’ lei - che ha già il titolo di “Prima signora d’Argentina” - la candidata che è stata prescelta dal “Fronte per la Vittoria” che è l’ala sinistra del famoso movimento giustizialista di stampo peronista. Ma la sua candidatura è anche dovuta alla “benevolenza” del marito che, per ragioni ignote, ha insistito per favorire l’ingresso trionfale della moglie al vertice del potere. La campagna elettorale in corso sta travolgendo ogni ipotesi. Il Times chiama Cristina “The Latin Hillary” - notando che la sua attività è ora tutta centrata su quei rapporti internazionali che ha saputo tessere in questi anni presentandosi, sempre e ovunque, come un’attiva militante in favore dei diritti umani sia in Argentina che nell’intero continente latinoamericano. Eccola quindi questa Cristina del futuro (“primera dama”) impegnata a passare quasi più tempo all'estero che in patria. E' stata in Francia e in Spagna. Poi in Venezuela, Ecuador e Messico. Poi in Germania e poi in Austria. E si sa che a giorni volerà negli Stati Uniti e prima delle elezioni, andrà a visitare i vicini Brasile e Cile. Dicono in Argentina che lo sguardo rivolto all'estero sarà una delle caratteristiche del suo governo, dopo gli anni del marito, noto per l'idiosincrasia alle lingue, ai summit internazionali e a tutto quello che non è argentino.

di Raffaele Matteotti

Una grande cospirazione del silenzio si sta dando da fare per occultare l’ennesimo genocidio. Un regione non troppo remota, l’Ogaden, si trova circondata dalle truppe di un governo dittatoriale. La regione ospita quasi cinque milioni di abitanti, seicentomila stanno per morire di fame secondo diverse organizzazioni internazionali. Il governo ha sigillato la regione, armando bande di predoni e praticando la pulizia etnica nelle zone più densamente popolate dall’etnia che costituisce l’ossatura locale della resistenza al governo centrale. Case bruciate, esecuzioni pubbliche, lo stupro come arma terrorizzante; un menù già tristemente noto. Decine di paesini sono stati bruciati, centinaia di migliaia i profughi, una fotocopia di quanto accaduto in Darfur. Diversamente dal Darfur però la regione non è accessibile, la dittatura ha sigillato i confini ottenendo non solo di affamare la popolazione, ma anche di impedire l’accesso di curiosi. I curiosi esistono ancora, fortunatamente, ma ben poco possono fare. Il giornalista inglese David Blair è stato arrestato e trattenuto, poi liberato ed espulso, nonostante l’atteggiamento per niente aggressivo nei confronti della dittatura, fino a poco tempo fa era decisamente più ostile ai “ribelli” che al governo. Al giornalista del New York Times, Jeffrey Gettleman, che è riuscito a documentare le atrocità è andata un po’ peggio ed è “sparito” per una settimana prima di essere espulso.

di Bianca Cerri

Il cadavere misurava una cinquantina di centimetri in tutto e, dopo averlo steso su una barella, l’ausiliario lo ha trasportato fino ai locali della lavanderia della clinica da dove poi è stato prelevato e cremato in modo che non ne restasse traccia. Cancellare la vita di un malato di mente deforme è la cosa più facile del mondo in una clinica privata degli Stati Uniti. Per sottomere i soggetti agitati, gli infermieri hanno l’abitudine di somministrare sostanze chimiche e di ricorrere agli strumenti di contenimento, causando spesso la morte dei pazienti. Un’inchiesta e due coraggiosi documentari hanno finalmente rivelato al pubblico quello che per anni era rimasto sepolto dietro una spessa cortina fatta di indagini sciatte, comportamenti ambivalenti dei magistrati e promesse politiche mai mantenute. Il disagio psichico continua ad essere un fastidio per quasi tutte le società, ma negli Stati Uniti, quando un malato di mente muore all’interno di una struttura psichiatrica, preferiscono eliminare del tutto i segni del suo passaggio sulla terra. Gli ispettori sanitari non intervengono mai e le direzioni degli ospedali dove tra il 2002 ed il 2006 sono avvenuti circa 700 decessi - dovuti a maltrattamenti di varia natura - sono riuscite a far passare per morti naturali dei veri e propri omicidi.

di Carlo Benedetti

Parla correttamente il russo ed è considerata il “cremlinologo numero uno” degli Usa. Ed ora proprio a Mosca, in una conferenza stampa organizzata al termine dei colloqui ''2+2'', annuncia una raffica di niet che piombano su una platea sempre più colpita da questa esponente dell’Amministrazione americana che parla la lingua di Puskin, utilizzando però tutti i termini più complicati del contenzioso politico-militare che esiste tra Usa e Russia. Riflettori, quindi, puntati su di lei, ospite inquietante: Condoleeza Rice, classe 1954, 66° Segretario di Stato degli Stati Uniti, prima donna afroamericana a ricoprire tale carica. Così spiega un “press releases” consegnato ai giornalisti dal quale, tra l’altro, risulta che nel 1989 entrando nello staff della Casa Bianca fu subito nominata responsabile della Direzione Russia e Paesi dell'est e, dal 1990, principale consigliere del Presidente Bush per gli affari sovietici. Biografia a parte, quello che fa scattare l’interesse delle diplomazie internazionali in questi momenti di vuoto e di incertezza, è ora il tono e il livello dei colloqui svoltisi all’interno della fortezza adagiata sulla Moscova e nella residenza di Novo Ogorevo (nei pressi di Mosca) tra gli americani Rice e Robert Gates (segretario alla Difesa) da un lato del tavolo e i russi Putin, Sergei Lavrov (ministro degli Esteri), Anatolij Serdiukov (ministro della Difesa) dall’altro. Dagli incontri è uscito solo un “niet” collettivo. E così la guerra fredda va sottozero. Tutti congelati sulle loro posizioni immerse in un oceano di parole.

di Sara Nicoli

Naturalmente alla Casa Bianca si sono subito rallegrati con Al Gore per il Nobel per la Pace ottenuto ex aequo con l'Ipcc (il Comitato Intergovernativo per i Mutamenti Climatici dell'Onu) che ha stilato il recente rapporto sui poco rassicuranti cambiamenti climatici del pianeta. Ma quello di Bush è sembrato un omaggio dovuto più che voluto. Non c'è dubbio, infatti, sul fatto che con la sua campagna contro il riscaldamento progressivo del pianeta, Gore abbia principalmente messo in evidenza quanto devastante sia stata la politica ambientale del suo ex avversario politico e quanto quest'ultimo sia da annoverare tra i principali colpevoli del disastro ormai sotto gli occhi di tutti. Non ha fatto sconti Al Gore nel suo documentario vincitore dell'Oscar “Una scomoda verità”, campione d'incassi anche negli States e dove, in termini semplici, tali da essere compresi persino dai più riottosi negazionisti, parla di un prossimo innalzamento di circa sei metri degli oceani che sommergerebbe aree popolate da 100milioni di persone (in Europa gli interi Paesi Bassi). E ancora dello scioglimento dei ghiacci della Groenlandia che replicherebbe il fenomeno di interruzione della corrente del Golfo verificatasi in occasione dell'ultima glaciazione che colpì l'Europa qualche secolo fa. Ma è il messaggio finale del film che costituisce la vera “vendetta” di Gore contro Bush: i rimedi per fermare il riscaldamento globale sono arcinoti, manca solo la volontà politica per farlo. E i primi a doversi muovere dovrebbero essere proprio i massimi inquinatori, come la Cina, l'India e, prima ancora, la Casa Bianca.


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