di Agnese Licata

Se il buongiorno si vede dal mattino, la nuova presidenza di Nicolas Sarkozy non preannuncia niente di buono per la Francia. Ieri sera, proprio mentre a Place de la Concorde i 30mila sostenitori di Sarkozy festeggiavano la vittoria con un grande concerto, a Place de la Bastille altre migliaia di persone manifestavano proprio contro il risultato del secondo turno di queste elezioni presidenziali. Inevitabili gli scontri con la polizia, qua, come nelle banlieues parigine, che riescono a bucare l’indifferenza generale solo quando prevale la violenza. A un anno e mezzo dalla guerra civile che coinvolse le periferie della Capitale, è infatti tornato a ripetersi il copione delle auto incendiate. Bisognerà aspettare che il nuovo capo di Stato francese prenda realmente il comando, il 17 maggio, per capire le vere dimensioni di questa protesta. Che é il leader dell’Ump il vero vincitore di queste elezioni diventa ufficiale verso le 20.15 di ieri sera quando, in un elegante abito bianco, Ségolène Royal ammette la sconfitta di fronte ai suoi sostenitori, accorsi in rue de Solferino sperando in una festa che non ci sarà. Le suffrage universelle a parlé, “il suffragio universale ha parlato”. Peccato che le parole scelte dal popolo francese non siano quelle che avrebbero fatto gioire il quartier generale del partito socialista. Le urne sono chiuse da appena un quarto d’ora. Ma aspettare lo scrutinio dei voti non avrebbe senso. Il risultato è troppo netto, impossibili sorprese dell’ultim’ora: è Nicolas Sarkozy il nuovo presidente della Francia.

di mazzetta

Dopo il lungo silenzio che ha avallato l’invasione etiope della Somalia su chiaro mandato americano, nonostante si trattasse di un’operazione assolutamente illegale, l’ONU e la UE cominciano a rendersi conto delle dimensioni del bagno di sangue e abbandonano la linea prudente mantenuta fino ad ora, anche per non correre il rischio di essere considerati complici di crimini contro l’umanità. Le critiche internazionali si addensano soprattutto sul Governo Transitorio somalo, ben sapendo che la dittatura etiope è sorda a qualsiasi richiamo che non provenga da Washington e che, essendo l’Etiopia un paese al quale si rifiutano anche gli aiuti umanitari perché il governo è nella lista nera delle dittature più sanguinarie e meno rispettose dei diritti umani, le buone parole avrebbero un effetto molto relativo.

di Elena Ferrara

Arrivano i falchi del business mondiale e per l’Iraq – già distrutto - sarà una nuova guerra. L’annuncio, non tanto velato, viene da Sharm el Sheik, dove si sono dati appuntamento per una conferenza internazionale, dedicata appunto all'Iraq, 60 fra Paesi e istituzioni internazionali. Tutti uniti per dire al mondo che “il punto di partenza per risolvere i vari problemi dell'Iraq è il raggiungimento della riconciliazione nazionale, perché non si può avere ricostruzione senza sicurezza e non vi è sicurezza senza il consenso nazionale”. La morale di questo discorso è, invece, ben altra. Il disegno generale consiste nell’organizzare, già da questo momento, un nuovo piano d’attacco nei confronti del disastrato paese. Da un lato si continueranno le azioni militari di distruzione e, dall’altro, si avvieranno le premesse per favorire la ricostruzione… Tradotto in termini concreti vorrà dire che mentre le truppe radono al suolo villaggi, cittadine, case e strutture avanzeranno i soccorsi tecnici ed economici. Comincerà la ricostruzione che poi sarà nuovamente calpestata. Questo, in sintesi, il piano - non confessato - che esce dal vertice di Sharm el Sheik.

di Bianca Cerri

Nel 1968 Richard Nixon andò alla Casa Bianca e subito promise che avrebbe tirato l’America fuori dai guai del Vietnam. Ma le cose andarono diversamente: il 30 aprile del 1970, l’esercito americano assetato di sangue comunista invase la Cambogia assieme agli alleati sud-vietnamiti. Il primo maggio, mentre nell’aria si avvertiva già l’arrivo dell’estate, gli studenti dell’università di Kent, in Ohio, occuparono il campus in segno di dissenso verso le politiche belliche di Nixon. In Ohio, la contestazione era sempre stata un fenomeno isolato e le autorità municipali, che non si aspettavano una presa di posizione tanto aperta da parte degli studenti, dichiararono lo stato d’emergenza. Nixon in persona chiamò al telefono il governatore Rhodes per ordinargli di espugnare l’università a tutti i costi.

di Luca Mazzucato

A dieci mesi dalla fine della Seconda Guerra del Libano, un vero e proprio linciaggio pubblico si sta abbattendo sul governo israeliano del premier Ehud Olmert e sul ministro della Difesa Peretz. Nell'atteso rapporto sul fallimento della guerra libanese, una commissione pubblica d'inchiesta, nominata dallo stesso Olmert alcuni mesi fa, ha ribadito la totale incompetenza e le gravi responsabilità dell'esecutivo Olmert-Peretz e dell'ex Capo di Stato Maggiore Halutz, già dimessosi in Gennaio. Ma il fatto più grave emerso dall'inchiesta è la sistematica e consapevole manipolazione degli avvenimenti sul campo e l'uso spregiudicato dei media, che la troika al potere ha utilizzato per coprire di giorno in giorno lo sciagurato andamento della guerra. Le rivelazioni hanno risvegliato un'opinione pubblica silente da mesi -solo ieri sera centocinquantamila persone sono scese in piazza per "licenziare" Olmert - e hanno dato il via ad una reazione a catena tra manifestazioni anti-governative e defezioni all'interno della stessa maggioranza di governo, che presumibilmente porterà alle dimissioni dell'intero esecutivo. Trascurando comunque la responsabilità più grave di Olmert, ovvero la deliberata e insensata distruzione di un intero paese, il Libano, che in un mese di guerra è stato raso al suolo e riportato indietro di venticinque anni, ai tempi della guerra dell'82, quella voluta dal predecessore di Olmert, Ariel Sharon.


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