di Agnese Licata

Sembra aver deciso di andare dritto per la sua strada, Nicolas Sarkozy. Sicuro di quei milioni di francesi che mai, dal 1974 ad oggi, erano stati così tanti nello scegliere un candidato di centrodestra, Sarkozy sceglie di non sedurre i voti dei centristi e di prepararsi al ballottaggio del 6 maggio continuando a sbandierare ai quattro venti le sue parole preferite: ordine, sicurezza, autorità. Anzi, rincara la dose. Nel palazzetto dello sport di Bercy, dove il leader dell’Ump ha tenuto il suo comizio domenica scorsa, si è scagliato contro il Sessantotto, presunta origine di quel declino francese che i cittadini d’oltralpe sentono incontrastato da troppo tempo. “Da allora – ha affermato con orgoglio Sarkozy – non si può più parlare di morale in politica, ci ha imposto il relativismo morale e intellettuale. Gli eredi del ’68 ci hanno imposto che non c’è nessuna differenza tra bene e male, tra bello e laico, tra vero e falso, che l’allievo e il maestro si equivalgono, che non bisogna dare voti, che si può vivere senza una gerarchia dei valori”. E ancora: “Guardate come l’eredità del ’68 indebolisce l’autorità dello Stato!”. Insomma, il coacervo di tutti i mali sarebbe ancora lì, nonostante quelle barricate siano state seppellite da quasi quarant’anni di storia, da una globalizzazione che ha cambiato il volto del mondo, dalla fine di tutti gli ideali politici e civili e da tanto altro ancora.

di Giuseppe Zaccagni

In tutto l’Est europeo soffia forte il vento della revisione storica e della resa dei conti con i comunisti e il regime polacco dei gemelli Kaczynski lo accusa di "crimine comunista" per aver instaurato, il 13 dicembre del 1981, la legge marziale. E così l’ex generale di Varsavia, il generale-presidente Wojciech Jaruzelski (84 anni), rischia fino a dieci anni di reclusione. "So – dichiara oggi - che i miei compatrioti mi odiano per quello che ho fatto e non posso dar loro torto. Ma, se non avessi “invaso” io stesso il Paese con le nostre forze armate e imposto la legge marziale, lo avrebbero fatto i russi con i loro carri armati e sarebbe andata peggio". Con lui sono accusati altri otto protagonisti dell'epoca, fra cui l'ex ministro degli interni Czeslaw Kiszczak e l'ex segretario del partito comunista Stanislaw Kania.

di Elena Ferrara

Lo scontro è duro e carico di pericolose avventure. Tutto avviene in una Turchia (stato laico con una schiacciante maggioranza della popolazione di fede musulmana) che chiede, dal 2005, di entrare in Europa ma che si trova a fare i conti con una situazione interna sempre più a rischio e che vede svilupparsi un braccio di ferro tra il governo e l’esercito. La contesa riguarda la scelta del futuro candidato alle elezioni presidenziali e, più in generale, gli atteggiamenti nei confronti del principio di laicità dello stato. E questo vuol dire che il cielo di Ankara è più che mai coperto di nuvole nere. La crisi politica è iniziata quando il ministro degli esteri Abdullah Gul, unico candidato alle presidenziali sostenuto dal partito filo islamico del premier Tayyp Erdogan, non è riuscito ad essere eletto in Parlamento. Uno scacco notevole per quei partiti che in questi anni si sono riconosciuti nella sua linea politica (dal Partito del Benessere a quello della Virtù sino al Partito per la Giustizia e lo Sviluppo). E così Abdullah Gul (classe 1950, economista e banchiere, primo ministro e titolare degli Esteri) si trova ora ad essere di nuovo l’ago della bilancia di una situazione politico-istituzionale dove i condizionamenti delle ideologie e delle religioni sono più forti che mai.

di Carlo Benedetti

“Il dissenso è stimolato e finanziato dall’Ovest”, “I dissidenti sono nemici del Paese e fanno della dissidenza una vera professione”, “Nelle file del dissenso si infiltrano agenti di potenze straniere”… Erano questi, in sintesi, i punti centrali della propaganda e delle polemiche che il Cremlino, negli anni sovietici, rivolgeva a coloro che si rifiutavano di seguire i dettati della “società socialista”. Il passato torna. Perché il capo della Russia (che ha studiato, in piena era Urss, i manuali della lotta alla dissidenza) risponde alle manifestazioni di piazza - che mettono in stato d’accusa la sua gestione - sfoderando tutto l’armamentario della vecchia epoca. E’, in pratica, la “fase uno”. Fa circondare i giovani che lanciano accuse, fa strappare i cartelli che alzano e poi fa sfoderare i manganelli. Botte, quindi. E subito i commissariati del centro di Mosca e di San Pietroburgo si riempiono di “dissidenti”. Verbali e processi in vista. Poi, immediata, scatta la “fase due”. Quella della diffamazione e delle accuse di collisione con “potenze straniere”. Ecco i fatti.

di Carlo Benedetti

Tra la Russia e l’Estonia c’è un brutto stato di tensione. Il governo di Tallin sta organizzando in queste ore lo spostamento di un monumento che fu costruito in onore dei soldati dell’Armata rossa che liberarono il Baltico. Il gesto è chiaro. L’Estonia attuale – quella nazionalista e antirussa – non tollera al centro della sua capitale un monumento che ricorda il periodo sovietico. L’operazione di demolizione dovrebbe avvenire di notte con la città praticamente bloccata e con la zona centrale isolata. Si temono “disordini” e proteste. Ma già i russi dell’Estonia, stanchi per gli insulti e le vessazioni del regime, sono scesi nelle strade della capitale per far sentire la loro voce al paese e all’Europa. Manifestano per difendere il monumento agli eroi dell’Armata e per chiedere rispetto nei confronti di quei soldati che diedero la loro vita per cacciare i nazisti e vincere la seconda guerra mondiale. E così, dopo tante e dure polemiche dei mesi scorsi, si è arrivati agli scontri di piazza con i nazionalfascisti locali che vogliono eliminare il sacrario (è chiamato il “Milite di bronzo”) e i russi che si oppongono.


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