Il passaggio sotto il controllo federale della Guardia Nazionale della California e l’impiego di duemila soldati nelle strade di Los Angeles nel fine settimana, per reprime le proteste contro l’intervento della polizia anti-immigrazione, rappresenta l’ultima e finora più grave iniziativa nel quadro del disegno autoritario in fase di implementazione da parte del presidente americano Trump. La mobilitazione di migliaia di cittadini nella metropoli della California con una vastissima popolazione di immigrati o di origine straniera indica invece una crescente resistenza in generale contro le politiche anti-democratiche e anti-sociali dell’amministrazione repubblicana, esemplificate dall’ultra-reazionario “One Big Beautiful Bill Act” in discussione al Congresso di Washington. Nonostante l’opposizione diffusa alle decisioni di Trump di questi giorni, la situazione venutasi a creare a Los Angeles rischia di evolvere pericolosamente in un colpo di mano che annulli di fatto e anche in maniera formale i diritti costituzionali negli Stati Uniti.

Lo scontro tra Donald Trump ed Elon Musk, passati in pochi giorni da amici e nemici e che rischia di trasformare i due un tempo alleati in prossimi avversari (Musk si propone di fondare un nuovo partito) ha riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Un po’ perché appare una buona arma di distrazione di massa dal terribile genocidio sionista a Gaza e un po’ perché la nota di colore riveste sempre un’attrazione irresistibile per una informazione che punta al gossip come narrazione alternativa al pubblico interesse.

La questione dello scontro andrebbe divisa comunque in due aspetti: quello della forma,  molto trattata dal main stream, e quello della sostanza, decisamente passata sotto tono.

E’ vero che il circo mediatico del potere in versione pubblica di Washington ha nei due personaggi due delle maggiori attrazioni, ma è altrettanto vero come la rottura sia avvenuta nei contenuti della politica economica e fiscale, nel ruolo stesso che dovrebbe ricoprire il miliardario di origine sudafricana e sul suo effettivo peso decisionale.

La nuova macchina della morte israeliana a Gaza, mascherata dietro scopi umanitari, ha sospeso giovedì per il secondo giorno consecutivo le proprie operazioni nella striscia dopo che letteralmente a poche ore dall’inizio della distribuzione di “aiuti” aveva già fatto registrare il massacro di decine di civili palestinesi. Lanciato tra la ferma opposizione delle vere organizzazioni umanitarie il 27 maggio scorso col nome orwelliano di “Fondazione Umanitaria per Gaza” (GHF), il piano del regime di Netanyahu si è confermato essere uno strumento ulteriore del genocidio in corso dall’ottobre 2023. Una mossa che si è rivelata disastrosa anche sul piano dell’immagine, nonostante l’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti e a parte qualche condanna puramente retorica, continui a tenere gli occhi ben chiusi davanti all’inferno scatenato dallo stato ebraico.

Il tentato colpo di stato di sei mesi fa e la successiva rimozione del presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, al termine di un procedimento di impeachment, hanno pesato in maniera decisiva sull’esito del voto anticipato di martedì nel paese del nord-est asiatico per eleggere il suo successore. A vincere è stato infatti il candidato di centro-sinistra Lee Jae-myung con un margine piuttosto consistente, anche se inferiore alle previsioni, su Kim Moon-soo, candidato del Partito del Potere Popolare (PPP) del deposto presidente, grazie anche all’affluenza più alta registrata dal 1997 (79,4%). Il nuovo presidente potrà contare sulla maggioranza del suo Partito Democratico (DP) in Parlamento, ma è atteso da una serie di questioni spinose sia sul fronte domestico, a cominciare dall’economia e dalle crescenti disuguaglianze sociali, sia sul piano internazionale, con i riflessi delle politiche commerciali ultra-aggressive dell’amministrazione Trump e della rivalità sempre più accesa tra Cina e Stati Uniti.

Mentre le trattative proseguono con cadenza più o meno regolare, le prospettive di un accordo tra Iran e Stati Uniti sul programma nucleare del primo sembrano perdere quota soprattutto per la natura ambigua e confusionaria della condotta americana. L’amministrazione Trump continua a mandare segnali contrastanti circa le proprie posizioni e richieste, con ogni probabilità in conseguenza delle divisioni interne – e non solo – tra falchi e (relative) colombe. A Teheran, si deve fare quindi i conti con un interlocutore come al solito totalmente inaffidabile, bilanciando le aperture per raggiungere un’intesa, che potrebbe dare respiro all’economia iraniana, con la riaffermazione di una serie di punti irrinunciabili, perché inscritti nei diritti della Repubblica Islamica o perché del tutto estranei alla questione del nucleare in discussione.


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