Damasco è caduta e, come il resto del Paese, lo ha fatto senza combattere, ritirandosi di fronte all’avanzata delle truppe jihadiste a comando occidentale ma guidate sul campo da uno dei suoi funzionari prediletti: Al-Jodani, ex appartenente ad Al queda, poi membro dell’Isis e oggi, miracolosamente, insignito dai media occidentali della qualifica romantica di “Ribelle”. Il rapido arretramento delle forze armate governative davanti all’avanzata dei militanti jihadisti, rende credibili le ipotesi occidentali riguardo i limiti delle intelligence siriana ed iraniana, che non si sono rese conto di ciò che da mesi si preparava, pur se l’attacco da più direzioni lanciato a metà della scorsa settimana, secondo alcune fonti, fosse allo studio da tempo e, in base a quanto scritto dal quotidiano russo Izvestia, fosse stato coordinato tra le intelligence di Turchia, Ucraina, Francia e Israele.

Con il clamoroso fallimento delle macchinazioni di Emmanuel Macron, il quadro politico francese è in totale fermento nell’attesa dei prossimi passi dell’Eliseo per trovare una soluzione alla caduta, nella serata di mercoledì, del governo di minoranza di Michel Barnier. Il voto di sfiducia approvato per la prima volta dal 1962 dall’Assemblea Nazionale ha fatto esplodere le contraddizioni delle scelte anti-democratiche del presidente dopo le elezioni della scorsa estate, restringendo drasticamente gli spazi di manovra di quest’ultimo in un clima di crescenti pressioni per implementare misure di austerity in tempi molto brevi.

La crisi esplosa tra martedì e mercoledì in Corea del Sud ha rappresentato a prima vista il culmine dello scontro in atto da mesi tra il presidente conservatore, Yoon Suk-yeol, e la maggioranza del parlamento (Assemblea Nazionale) guidata dal Partito Democratico di centro-sinistra. Messo alle strette dall’opposizione attorno a questioni giudiziarie e di bilancio, Yoon ha reagito facendo ricorso alla legge marziale, subito bloccata però da una massiccia mobilitazione popolare e da un voto della stessa unica camera del parlamento di Seoul. Le vicende di queste ore hanno implicazioni di vastissima portata, non solo per la tenuta della democrazia formale sudcoreana, ma anche in relazione alle manovre degli Stati Uniti in Estremo Oriente per cercare di contenere la “minaccia” cinese.

La Georgia è al centro di una nuova ondata di proteste e tensioni politiche dopo la decisione del governo di sospendere le trattative per l'adesione all'Unione Europea fino al 2028. La scelta, comunicata lo scorso 28 novembre, ha scatenato violente manifestazioni nella capitale Tbilisi e in altre città. Gruppi di manifestanti, prevalentemente studenti e giovani, hanno eretto barricate e affrontato le forze dell’ordine con molotov e fuochi d’artificio. La polizia ha risposto con arresti massicci e misure di sicurezza rafforzate. A peggiorare la situazione, la presidente Salomé Zourabishvili ha fatto un appello controverso affinché anche i minori si uniscano alle proteste, mossa vista come un tentativo disperato di ampliare la base dei manifestanti.

La controffensiva delle forze governative siriane dopo l’avanzata a sorpresa nei giorni scorsi dei terroristi di Hayat Tahrir al-Sham (HTS ed ex Fronte al-Nusra) e dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA) sembra guadagnare consistenza in questo inizio di settimana grazie al supporto di Russia e Iran. In attesa di rinforzi di terra inviati da Damasco, le forze aeree russe e siriane stanno prendendo di mira postazioni e convogli dei “ribelli” nelle aree rurali della parte meridionale della provincia di Idlib e a ovest di Aleppo. L’intera vicenda ha tutti i connotati di una nuova operazione studiata dagli sponsor più o meno ufficiali delle formazioni jihadiste attive in Siria, con l’obiettivo di destabilizzare questo paese e, sia pure con sfumature diverse, favorire gli interessi strategici di Stati Uniti, Turchia e Israele.


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