Mentre le trattative proseguono con cadenza più o meno regolare, le prospettive di un accordo tra Iran e Stati Uniti sul programma nucleare del primo sembrano perdere quota soprattutto per la natura ambigua e confusionaria della condotta americana. L’amministrazione Trump continua a mandare segnali contrastanti circa le proprie posizioni e richieste, con ogni probabilità in conseguenza delle divisioni interne – e non solo – tra falchi e (relative) colombe. A Teheran, si deve fare quindi i conti con un interlocutore come al solito totalmente inaffidabile, bilanciando le aperture per raggiungere un’intesa, che potrebbe dare respiro all’economia iraniana, con la riaffermazione di una serie di punti irrinunciabili, perché inscritti nei diritti della Repubblica Islamica o perché del tutto estranei alla questione del nucleare in discussione.

La portata degli attacchi terroristici ucraini in territorio russo è certamente degna di nota, pur avendo raggiunto un obiettivo minimo rispetto a quello che raccontano i propagandisti ucraini, fonte di milioni di bugie in tre anni di guerra. Non sono 41 ma 4 gli aerei colpiti e solo due distrutti dall’attacco dei droni sugli aeroporti russi. La farneticante teoria apparsa sui media italiani circa la sostanziale distruzione del dispositivo strategico delle forze armate russe è degna di un fumetto di fantascienza. Non a caso è ospitata, appunto dal gruppo Gedi, Caltagirone e dal Corsera, inesauribili fonti di palle continue sul conflitto in Ucraina, sulla sua genesi, storia e cronache militari, che li rendono simili ai fogli distribuiti nelle curve degli stadi a sostegno del tifo organizzato.

La Russia dispone non solo di un numero di bombardieri decisamente più elevato (circa 80) ma, soprattutto, le 1918 testate nucleare pronte al lancio sono allocate su basi militari, sommergibili atomici, aerei da combattimento e piattaforme mobili. Insomma sotto il profilo della operatività militare l’attacco subito è decisamente poca cosa, mentre riveste notevole importanza ciò che lo ha permesso.

La sentenza emessa mercoledì contro l’amministrazione Trump da un tribunale federale americano non risolve con ogni probabilità la crisi scatenata dall’imposizione a tappeto di dazi contro decine di paesi da parte del presidente repubblicano. Il fatto che il ricorso a questo strumento sia stato giudicato illegale e le vicissitudini giudiziarie che seguiranno nei prossimi mesi potrebbero tuttavia spuntare l’arma della minaccia di applicare tariffe doganali punitive per ottenere alcuni degli obiettivi – commerciali e non – della Casa Bianca. Per il momento, mercati, borse e aziende di tutto il mondo hanno tirato un sospiro di sollievo, in attesa del prossimo capitolo di una vicenda che sta pericolosamente sconvolgendo i meccanismi economici e commerciali consolidati.

Nel patteggiamento che qualche giorno fa ha chiuso la causa legale in cui era coinvolta la Boeing per i due incidenti aerei mortali del 2018 e 2019, il fattore “giustizia” ha avuto poco o nessun peso nella decisione presa dal governo americano e approvata da un giudice del Texas. Il colosso dell’aeronautica ha accettato di pagare una sanzione decisamente trascurabile in proporzione al valore della società e dei reati in questione, riuscendo a evitare l’incriminazione e una quasi certa condanna. L’esito della vicenda, fortemente criticato dai famigliari delle vittime, è il risultato di una manovra pilotata dal dipartimento di Giustizia per salvaguardare il ruolo di Boeing nei progetti di rinnovamento del settore della difesa USA e nella promozione all’estero, da parte dell’amministrazione Trump, dell’industria bellica americana.

La decisione del neo-cancelliere tedesco, Friedrich Merz, di autorizzare il regime di Zelensky a lanciare missili forniti dall’Occidente in profondità nel territorio russo conferma che tra i governi europei continua a persistere la fantasia di potere invertire le sorti della guerra in Ucraina e dettare le condizioni della pace al Cremlino. Questa notizia è stata accolta con gli ormai noti avvertimenti da parte di Mosca circa i “pericoli” di un ulteriore coinvolgimento nel conflitto della Germania o di altri sponsor di Kiev. Soprattutto, i segnali che arrivano in questi giorni prospettano complicazioni nel già difficoltoso processo diplomatico appena iniziato. Come è accaduto ad esempio con il recente commento senza senso di Donald Trump sul presidente russo Putin e la massiccia operazione militare ordinata nel fine settimana in Ucraina.


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