Le pressioni di Stati Uniti e Israele di questi mesi sul governo libanese e su Hezbollah per indebolire e isolare il partito-movimento sciita non sembrano avere ottenuto risultati significativi almeno sul piano politico. Infatti, nonostante una feroce campagna militare e ricatti più o meno espliciti rivolti al nuovo governo di Beirut, l’alleanza sciita tra Hezbollah e Amal ha fatto il pieno di seggi nella quarta e ultima tranche delle elezioni municipali in Libano, andata in scena nella giornata di sabato nelle province meridionali del paese mediorientale.

In uno scenario esplosivo, Hezbollah e la sua nuova leadership hanno evidenziato una tenuta notevole, confermando, al di là della retorica occidentale, la popolarità del movimento e il fortissimo radicamento nel territorio anche grazie alle proprie attività in ambito sociale a fronte di istituzioni statali a dir poco latitanti. L’illusione di assestare un colpo mortale alla “Resistenza” libanese da parte americana e israeliana semplicemente assassinando gli esponenti di vertice o cercando di attribuire a Hezbollah la situazione drammatica del Libano è rimasta appunto tale. La campagna anti-Hezbollah ha finito piuttosto per favorire il movimento sciita, identificato a ragione come l’unico baluardo contro l’occupazione, l’influenza e la violenza sioniste.

Nonostante il ripudio internazionale alla sua campagna di eliminazione sistematica e definitiva dei palestinesi, con l’obiettivo di cancellare la Palestina, occuparne la terra e trasformarla in territorio israeliano, il governo Netanyahu ha iniziato le operazioni per l’invasione della Cisgiordania. Così smentendo che sia Hamas l’obiettivo di Tel Aviv, dal momento che in Cisgiordania governa l’ANP.

L’imboscata tesa da Trump al presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, durante l’incontro con la stampa di mercoledì nello Studio Ovale, ha fatto presa soltanto sugli ambienti di estrema destra (“MAGA”) che formano la base di consenso della Casa Bianca. Per il resto, si è trattato dell’ennesimo show senza nessun fondamento nella realtà e che ha oltretutto mostrato ancora una volta la natura razzista e criminale dell’amministrazione repubblicana. Dietro all’episodio e alle assurde denunce dell’inesistente “genocidio” dei proprietari terrieri bianchi in Sudafrica, proprio quando ne è in corso uno vero e proprio in Palestina con la piena collaborazione americana, ci sono comunque seri motivi di conflitto tra i due paesi in ambito economico e strategico, che, alla vigilia del vertice, Ramaphosa si era impegnato a discutere e ad appianare.

Arricchimento dei più ricchi e impoverimento dei più poveri. Questa è in sostanza la formula alla base del cosiddetto “One Big Beautiful Bill Act” che Donald Trump sta cercando di fare approvare al Congresso di Washington, da un lato per rendere permanenti i tagli alle tasse per le fasce di reddito più alte da lui già introdotti nel 2017 e, dall’altro, per ridurre drasticamente la spesa pubblica dedicata ad alcuni popolari programmi di welfare. Vista la sensibilità politica degli interventi richiesti dalla Casa Bianca, anche tra la maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato circolano dubbi e preoccupazioni sul provvedimento in discussione. Per questa ragione, lo stesso presidente si è recato martedì personalmente al Campidoglio, dove ha incontrato i membri del suo partito nel tentativo di convincerli a sostenere la nuova legge senza troppe modifiche o emendamenti.

Davanti agli occhi di tutto il mondo e con i propri obiettivi spiegati nel dettaglio e senza possibilità di equivoci, Israele ha iniziato nelle scorse ore quella che si annuncia come la fase finale della soluzione al “problema palestinese”. Lo stesso insignificante allentamento del blocco che da quasi tre mesi affama la popolazione di Gaza è una strategia deliberata e, ancora una volta, dichiarata apertamente per favorire la liquidazione degli oltre due milioni di abitanti della striscia. Nonostante l’acceso dibattito sulla crescente freddezza nei rapporti tra Trump e Netanyahu, non ci sono indizi significativi che prefigurino una qualche iniziativa americana per fermare il genocidio in atto. Anzi, la Casa Bianca ha fatto marcia indietro anche sul recente accordo con Hamas, che prevedeva l’impegno per un cessate il fuoco dopo la liberazione del soldato israeliano con passaporto americano, Edan Alexander.

Il lancio dell’operazione denominata “Carri di Gedeone” punta alla conquista e all’occupazione totale di Gaza, attraverso l’intensificazione delle attività militari e la rimozione forzata della popolazione palestinese, da costringere in campi di concentramento nella parte meridionale dell’enclave, in previsione del trasferimento in altri paesi. Questo processo, che ricorda anche nella scelta lessicale lo sterminio nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, è preceduto appunto dalla decisione totalmente inadeguata di concedere l’ingresso a Gaza di qualche aiuto umanitario da destinare a una popolazione letteralmente allo stremo.


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