La sceneggiatura che vedeva l’Italia scivolare verso un presidenzialismo de facto inizia a vacillare. Fino a una settimana fa, l’esito più probabile della partita per il Quirinale era uno solo: Mario Draghi presidente della Repubblica e uno dei suoi uomini di fiducia, Daniele Franco, alla guida del governo. Una forzatura istituzionale macroscopica - perché il Capo dello Stato avrebbe un chiaro ascendente sull’Esecutivo - ma anche l’unico scenario ipotizzabile per tenere in piedi questa maggioranza. O almeno, tale era fino a una settimana fa.

Mario Draghi può molto, ma l’onnipotenza gli resta preclusa. La sua autorità garantisce che l’Italia obbedirà a Bruxelles in Consiglio dei ministri e in Parlamento, ma non che manterrà tutte le promesse. Per una ragione semplice: la realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza dipende in buona parte dalle Regioni, che nel nostro Paese godono di grande autonomia dallo Stato centrale e brillano per inefficienza, corruzione e impreparazione. Basti pensare all’incapacità che hanno sempre dimostrato nell’utilizzo dei soldi comunitari.

C’è una fissazione ricorrente nella politica italiana che ormai sa di muffa: creare un polo riformista che nasce dal centrosinistra, si colloca al centro e guarda senza ritegno a destra. Ci ha provato Monti dieci anni fa con risultati risibili. Ci riprova oggi Renzi, con più cipiglio e ancora meno possibilità di riuscita. Ma non è un problema: l’aderenza alla realtà non è mai stata una virtù dei riformisti all’italiana. Tantomeno di Renzi, che in questi giorni - celebrando il rituale onanistico della Leopolda - dimostra al Paese come il narcisismo, alimentato all’estremo, sfoci nella più grottesca mitomania.

Più che una trappola, quello che Mario Draghi prepara per i sindacati sembra un dopolavoro ferroviario: un ritrovo dove passare il tempo senza concludere alcunché. L’appuntamento è per martedì a Palazzo Chigi e l’ordine del giorno parla solo di pensioni, lo stesso tema di cui si è discusso senza frutto durante l’ultimo incontro. In quell’occasione, finì con il Presidente del Consiglio che, seccato, lasciò il tavolo per dedicarsi a un non meglio precisato “altro impegno”.

Il toto-Quirinale è cominciato e stavolta sembra ancora più inutile del solito. Per tradizione, due-tre mesi prima dell’elezione del Capo dello Stato inizia a roteare una girandola di nomi il cui unico scopo è nascondere le reali intenzioni dei partiti. Quasi sempre, infatti, far circolare un nome sui giornali equivale a depennarlo dalla lista dei papabili.


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