Dopo essersi fatto bullizzare perfino da Carlo Calenda, Enrico Letta può reclamare la palma di segretario più disastroso nella storia del Pd, che pure di flagelli ne ha conosciuti più d’uno. Nella mezzora di comizio davanti a Lucia Annunziata, il leader di Azione ha annunciato la rottura con la coalizione guidata dai dem, affermando di essere contrario alla politica di allargamento massimo delle alleanze portata avanti da Letta. In sostanza, il problema riguarda l’affiliazione di Fratoianni, Bonelli, Di Maio e altri ex grillini.

È probabile che Calenda si sia convinto a correre da solo perché i sondaggisti gli hanno spiegato che in questo modo prenderà più voti, attingendo in maniera più sostanziosa al bacino della destra che sa stare a tavola. Allo stesso tempo, però, è pur vero che con questo strappo Azione rinuncia a una buona fetta di collegi uninominali che l’alleanza col Pd gli avrebbe garantito e che ora non può più sperare di raggiungere. Il suo rimarrà forse un sogno elettorale di mezza estate, ma se il 25 settembre andrà a sbattere contro un muro, Calenda potrà almeno consolarsi pensando di aver dato di sé un’immagine coerente.

La campagna elettorale durerà pochissimo e non sarà seguita praticamente da nessuno, perché per la prima volta nella storia della Repubblica sarà balneare. Purtroppo, a questo dato di fatto si sommano altre due circostanze che non lasciano ben sperare: primo, dopo il voto del 25 aprile il numero dei parlamentari sarà dimezzato, in virtù della sciagurata riforma costituzionale tanto voluta dal Movimento 5 Stelle (che ne patirà le conseguenze più di molti altri); secondo, abbiamo in vigore una legge elettorale raccapricciante, che praticamente obbliga i partiti a riunirsi in coalizioni per non essere spazzati via nei collegi uninominali, con cui si assegnano un terzo dei seggi.

Ora, in questo scenario, bisogna fare i conti con i sondaggi, che potranno anche essere scarsamente attendibili – sia perché spesso vengono commissionati da parti interessate, sia perché negli anni hanno dimostrato di non azzeccarci quasi mai – ma sono anche l’unico strumento a disposizione per provare a fare qualche ragionamento.

Enrico Letta ha le idee chiare: guida un partito alternativo alla destra, che però cerca alleati a destra e punta ai voti dell’elettorato di destra. In una lunga intervista pubblicata domenica su Repubblica, il segretario del Pd si è posto come antagonista di Giorgia Meloni per la corsa a Palazzo Chigi, ma non è riuscito a dire nulla di preciso né sugli alleati con cui pensa di costruire la maggioranza né sul programma che intende sottoporre agli italiani per conquistare il loro voto.

Sul primo fronte, quello delle alleanze, l’unica linea netta tracciata da Letta è quella che separa per sempre la strada dei dem quella del Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. “Il percorso comune – spiega il segretario – si è interrotto il 20 luglio e non può riprendere: è stata un punto di non ritorno. Avevo avvertito che non votare la prima fiducia sarebbe stato lo sparo di Sarajevo”.

Draghi ci ricorda, in questi giorni, la leggendaria Sora Camilla, che tutti vogliono ma nessuno si piglia. Avrebbe voluto approfittare da par suo dell’alquanto maldestro tentativo di Conte di porre dei paletti all’azione del suo governo, riaffermando la sua primazia assoluta. In tal modo avrebbe inferto un ulteriore colpo alla democrazia repubblicana, nella blanda forma rappresentativa che essa aveva assunto fin dal suo sorgere nel secondo dopoguerra ma che è stata via snaturata, depotenziando e svilendo il ruolo dei cosiddetti corpi intermedi, a cominciare dai sindacati, e dello stesso Parlamento e dei partiti. Alla fine però, per eccesso di tracotanza, si è sparato sui piedi, ma non è detto che questo esito gli dispiaccia, dato che traspare in modo evidente che voleva andare.

Nel tentativo di recuperare uno spazio di manovra politica, Giuseppe Conte rischia di condannare se stesso e il Movimento 5 Stelle all’oblio. Lo strappo arrivato la settimana scorsa - quando i senatori M5S hanno abbandonato l’Aula al momento di votare la fiducia sul decreto Aiuti - sa tanto di mossa della disperazione, e non è affatto a rischio zero. In teoria, la prospettiva migliore per Conte sarebbe quella di uscire dalla maggioranza senza far cadere il governo. In questo modo, i pentastellati potrebbero recuperare consensi (ormai ridotti al lumicino) imitando Giorgia Meloni, ovvero con il posizionamento strategico all’opposizione.

Se Draghi rimanesse coerente con la linea tenuta fin qui, questo disegno sarebbe destinato al fallimento. Il presidente del Consiglio ha sempre detto di volere una maggioranza non politica, ma d’unità nazionale, ossia la più ampia possibile: in questa prospettiva, la defezione di Fratelli d’Italia è stata considerata tollerabile, ma di certo non può esserlo quella del partito più rappresentato in Parlamento.


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