La settimana scorsa Mario Draghi ha detto che il governo sta valutando la possibilità di rendere obbligatorio il vaccino anti-Covid. Non è sceso nei dettagli, ha solo risposto “sì” a una domanda in conferenza stampa. Strano, no? Se davvero l’esecutivo pensasse di varare un provvedimento senza precedenti in Europa, ci si aspetterebbe che il Premier affrontasse l’argomento in modo un po’ meno laconico.

A ben vedere, però, l’obbligo vaccinale non è molto verosimile, soprattutto per ragioni politiche. L’articolo 32 della Costituzione stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Significa che, per rendere obbligatorio il vaccino, il governo non potrebbe usare il solito decreto d’urgenza, ma dovrebbe presentare in Parlamento un disegno di legge. E quasi certamente - a meno di tradimenti in massa - Camera e Senato boccerebbero il provvedimento, visto che i leader dei due partiti con più seggi (Lega e M5S) si sono espressi in modo chiaro contro l’imposizione delle punture.

La scudisciata è di quelle pesanti, che lasciano il segno. Giovedì sera Mario Draghi ha impallinato Matteo Salvini con una reprimenda inattesa, soprattutto per la durezza dei toni. Le parole del presidente del Consiglio sono già incise nella storia di questa legislatura: “L’appello a non vaccinarsi - ha detto in conferenza stampa - è un appello a morire”. Non si tratta di una frase generica, ma di un preciso riferimento alle posizioni del leader leghista, che da qualche tempo si è inventato un compromesso per tenere buoni pro-vax e no-vax. La nuova linea del Carroccio suona più o meno così: “Le iniezioni vanno bene, ma per chi ha meno di 40 anni forse no”. Come sempre, la chiarezza manca dove il pensiero latita. 

Italia Viva vuole affossare il Ddl Zan per arruffianarsi il Vaticano e aprire una sponda alla destra. Il giochino è talmente scoperto che lo ha capito perfino la strana coppia Pd-M5S: i grillini, dopo i dem, respingono al mittente gli emendamenti dei renziani, sostenendo che il provvedimento deve essere approvato così com’è.

I parlamentari pentastellati del gruppo Pari Opportunità precisano in una nota che “pensare di eliminare i termini orientamento sessuale e identità di genere e tornare alla definizione di omofobia e transfobia rischierebbe di far compiere un altro passo indietro, come già accaduto in passato. Negli anni scorsi, infatti, i disegni di legge per il contrasto all'omotransfobia si fermarono proprio perché le espressioni usate per identificare il movente d'odio, quindi omofobia e transfobia, non vennero ritenute abbastanza precise per garantire la determinatezza del precetto penale, come peraltro ha ricordato recentemente anche il professore di diritto pubblico comparato dell'Università La Sapienza Angelo Achillaci”.

Il Movimento 5 Stelle è ormai a un passo da una crisi di nervi. Al centro del contendere c'è il ruolo del garante nel nuovo statuto in via di allestimento. Da una parte c’è Beppe Grillo, che vuole continuare a esercitare quella regia occulta (ma neanche troppo) che del Movimento è sempre stata un tratto distintivo. Dall’altra Giuseppe Conte, che rifiuta di salire in sella con le mani già legate.

Negli ultimi giorni, Grillo ha proposto delle aperture al rivale-alleato, concedendogli di gestire la comunicazione e di nominare i vicepresidenti. Troppo poco per l'ex premier, deciso a rivoluzionare i poteri del garante.

Giuseppe Conte finge di avere la situazione sotto controllo, ma la gestazione del nuovo Movimento 5 Stelle si sta rivelando molto più difficile del previsto. In realtà, la fase di ricostruzione non è nemmeno cominciata: ci sono ancora le macerie del passato da levare di mezzo. E sono parecchie. Prima di diventare leader di una nuova forza politica progressista, l’ex Premier deve risolvere una serie di guai che si articolano su due piani: uno economico, l’altro politico.

Iniziamo dai soldi, che, come sempre, rappresentano la questione più spinosa. Davide Casaleggio chiede agli eletti circa 450mila euro di quote non versate a Rousseau. Che questi soldi gli spettino davvero è tutto da dimostrare, perché tra la Fondazione e il Movimento non c’è mai stato alcun contratto. I pagamenti di senatori e deputati a Rousseau sono previsti dallo statuto pentastellato, ma dal punto di vista della legge si inquadrano come “elargizioni liberali”. In teoria, quindi, non c’è alcun obbligo di versamento.

Il problema è che la Fondazione custodisce un tesoro inestimabile per il Movimento, ovvero i dati degli iscritti. Anche su questo fronte la situazione è più che mai anomala, visto che – sempre per legge, e sempre in teoria – i nomi degli iscritti a un partito appartengono agli organi del partito stesso. Nel caso del Movimento 5 Stelle, la lista dei nominativi è in mano a Casaleggio Jr, che ha intenzione di cederla ai vertici pentastellati solo quando le sue pretese economiche saranno soddisfatte.


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