Estendere l’embargo al gas russo non vuol dire spegnere l’aria condizionata, ma chiudere impianti industriali e finire in recessione. Lo hanno spiegato i cinque maggiori istituti economici tedeschi - Ifw di Kiel, Ifo di Monaco, Diw di Berlino, Rwi di Essen e Iwh di Halle - presentando la settimana scorsa a Berlino le stime di primavera.

Secondo l’analisi, se la Germania interrompesse ad aprile le importazioni di gas dalla Russia, rinuncerebbe a 220 miliardi nel biennio 22-23, mettendo a rischio 400mila posti di lavoro. La crescita attesa per quest’anno - già scesa per la guerra al 2,7%, dal 4,8 previsto in autunno - si assottiglierebbe ancora all’1,9%. L’anno prossimo, invece, arriverebbe una “forte recessione”, con un calo del Pil pari al 2,2%: solo due mesi fa, la stima per il 2023 era di +3,1%.

Da qualche settimana, governanti e rappresentanti delle istituzioni europee si divertono a raccontare favole sul gas. Dicono che stiamo lavorando per ridurre la dipendenza da quello russo, abbassando i consumi e trovando nuove forme di approvvigionamento. Peccato che nessuno abbia il coraggio di citare i veri numeri, né di raccontare la storia fino in fondo.

La guerra in Ucraina imporrà al governo italiano (e non solo) di rimettere mano al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il motivo principale riguarda la transizione energetica, uno dei pilastri su cui si fondano i Pnrr di tutti i Paesi. Alla luce dei nuovi rapporti con Mosca, Bruxelles sta mettendo a punto una strategia per ridurre la dipendenza europea dal gas e dal petrolio della Russia. Questo obiettivo avrà la precedenza rispetto alla tutela dell’ambiente e in alcuni casi potrebbe giustificare il ritorno temporaneo al carbone. È chiaro quindi che i Pnrr dovranno essere modificati, ricalibrando priorità, politiche e allocazione delle risorse.

L’improvvisa voglia di guerra della politica italiana rischia non solo di annullare la ripresa post-pandemia, ma anche di trascinare il Paese in una nuova crisi economica. E per cosa? Non c’entra nulla la difesa della democrazia ucraina, peraltro mai esistita. Sembra piuttosto che le ragioni dell’interventismo siano di natura personale.

Prendiamo i due politici nostrani che nelle ultime settimane hanno calcato in testa con più forza l’elmetto della Nato: Mario Draghi ed Enrico Letta. Del primo basta ricordare il discorso d’insediamento alle Camere: in quella sede, l’attuale Presidente del Consiglio rimarcò più di una volta la professione di fede atlantista dell’Italia, e ora sta semplice mantenendo le promesse. Come la quasi totalità dei suoi predecessori, il Capo del governo italiano si dimostra disponibile a sacrificare l’interesse dei suoi connazionali sull’altare dell’obbedienza a Washington. Del resto, in assenza di questa predisposizione non sarebbe mai arrivato a Palazzo Chigi.

Se dall’insieme dei partiti italiani rappresentati in Parlamento togliamo Lega e Fratelli d’Italia, quello che rimane può essere definito come “la non-sinistra che sa stare a tavola”. È una compagine litigiosa, fratturata da odi personali feroci, ma allo stesso tempo accomunata da due caratteristiche. Primo, nessuno si definisce di sinistra né di centrosinistra, parole scomparse anche dal vocabolario del Pd. Secondo, nessuno condivide i tratti più beceri della destra-destra: nazionalismo, razzismo, xenofobia.

Dopodiché, la non-sinistra che sa stare a tavola comprende due sottoinsiemi, ciascuno con i propri rituali. Il primo è quello dei minipartiti che hanno il cuore a destra, si definiscono riformisti, progressisti o repubblicani e, per farla breve, di solito vengono indicati come “centro”. Ossessionati dall’immagine del cantiere, sono sempre impegnati a costruire un nuovo polo che abbia come stella polare le riforme, non meglio precisate.


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