di mazzetta

C'era una volta un mondo nel quale il primo maggio era la festa dei lavoratori. Erano i lavoratori i protagonisti della festa ed era il lavoro, il motore sudante che muoveva tutto il paese. Lavoro come strumento di riscatto sociale, come via di fuga dalla miseria e dall'abbruttimento, passaporto per una vita dignitosa e tranquilla, anche se consumata in gran parte da una routine abbracciata più per dovere che per amore.

Il lavoro era tutto questo e una società appena uscita da un medioevo rurale durato secoli, bramava riscatto e lavoro, per avere lavoro e riscatto. Poi qualcosa ha cominciato a cambiare lentamente, il fallimento del “socialismo reale” ha aperto le porte alle pretese del padronato e della grande finanza e in pochi anni i media controllati dall'elite hanno trasformato prima l'immagine e poi la sostanza stessa del lavoro e dei lavoratori.

La meccanizzazione e l'informatizzazione hanno fatto il resto, consentendo di ottimizzare i processi produttivi e di diminuire la quantità di lavoro necessaria per unità di prodotto. Poi è arrivata la delocalizzazione e, con essa, la concorrenza di altri lavoratori che lavorano per molto meno, lavoratori ancora affamati di quell'atavico riscatto, bramosi di sedere alla grande tavola del consumo e, per questo, disposti a tutto. Miliardi di braccia gettate su un mercato con sempre meno barriere per le imprese e sempre più severo nel controllo delle masse lavoratrici.

Così il lavoro è diventato sempre di meno, è pagato sempre peggio e alla fine ha perso molto del suo valore reale e simbolico. Perché se oggi gli stipendi sono in proporzione più bassi, è altrettanto evidente che il lavoro come mezzo per la realizzazione personale e il riscatto sociale ha esaurito la sua funzione. Uno stato di cose testimoniato anche dal crollo della mobilità sociale nelle economie avanzate, dalla strage di competenze mandate al macero insieme ad intere generazioni di laureati e della sostanziale svalutazione di quelle organizzazioni sindacali che tanto avevano contato nello strappare diritti e dignità per i lavoratori.

Oggi, dopo una non troppo lunga trasformazione economica e sociale, il lavoro non c'è più e quello che c’è vale poco. È un dato di fatto: non c'è abbastanza lavoro per poter assicurare un reddito a tutti o quasi tutti, non c'è nelle economie avanzate e non c'è nemmeno in quelle emergenti, che emergono proprio perché hanno un serbatoio inesauribile di braccia pronte a tutto per entrare nel grande gioco.

Nel nostro paese il fenomeno è molto evidente, anche se poco dibattuto. La quota di italiani che ha un lavoro o un reddito da lavoro è bassissima, imbarazzante: tra i paesi dell'OSCE stanno peggio solo Turchia e Messico e, anche una volta che si faccia la tara dell'economia sommersa, si resta ben lontani dai paesi che stanno messi meglio. Tutti comunque in peggioramento, non solo per la crisi incombente.

La mancanza di lavoro e lo scarso valore dello stesso pongono una sfida enorme alla politica e allo stesso sistema ultra-liberista che negli ultimi tempi è sembrato a lungo privo di alternative. L'alternativa alla disgregazione sociale e all'impoverimento di intere società dovrebbe essere un argomento di dibattito interessante, ma la vilificazione della politica, funzionale all'ideologia che reclama il primato delle élite economiche proprio sulla stessa politica, sembra un antidoto efficace a qualsiasi tipo di discorso appena serio.

Non che le forze storicamente interessate al progresso sociale aiutino molto: da tempo i sindacati confederali hanno trovato il loro baricentro nella tutela dei pensionati e il loro stile nella concertazione, tanto che da qualche anno “festeggiano” il primo maggio con un grande concerto, passata la festa non ne rimane niente. Musica sì, proposte no. Nemmeno le forze politiche di sinistra sembrano troppo attive, pochi arrivano ora a concepire l'idea di un reddito di cittadinanza come necessaria misura di un nuovo welfare, non più legato al lavoro (workfare) che non c'è più, eppure si tratta di strumenti già presenti in varie forme in quasi tutta la UE. Eppure il Partito Socialista francese discute di “un nuovo modello produttivo” e addirittura di un “nuovo modello di civiltà” che ripensi fiscalità e welfare. Discorsi troppo complicati per l'Italia del ventunesimo secolo?

Già, chiedere lavoro ha poco senso, perché oggi il lavoro non è più il passaporto sufficiente a una vita serena, se pur applicata alla produzione di ricchezza, perché questa ricchezza è distribuita in maniera sempre più ineguale e nei paesi privi di stato sociale può addirittura succedere che i lavoratori si ritrovino disoccupati, senza assistenza sanitaria e titolari per parte uguale di un debito pubblico mostruoso, esploso proprio per pagare le scommesse sconsiderate di chi già si era accaparrato quasi tutto il frutto e il valore del lavoro del paese.

È evidente che qualcosa debba cambiare. Parlavano di qualità totale e intendevano la meccanizzazione dei processi produttivi; parlavano di sinergie e intendevano la concentrazione societaria e la costituzione di monopoli e cartelli; parlavano di flessibilità e intendevano la frantumazione della forza lavoro e la guerra tra poveri per lavori pagati sempre di meno. Flessibilità al ribasso, pagata di meno invece che di più, tanto che oggi può non essere sufficiente il salario per vivere, in particolare se si parla di quello dei lavoratori più “flessibili”.

Un cambiamento che da anni chiedono i movimenti e i gruppi riuniti sotto la protezione di San Precario, che sfilano a Milano per il decennale della Mayday e in altre città europee, chiedendo continuità di reddito e sostegno per i precari, che sono ormai la metà della forza lavoro, la più negletta, ma una forza che rifiuta di dare battaglia ai lavoratori (più) garantiti e di etichettare come privilegi i loro residui diritti. Un rifiuto della guerra tra poveri che va necessariamente esteso ai lavoratori migranti, in tempo di crisi perfetto capro espiatorio e già indicati come “ladri di lavoro” dai furboni che prosperano proprio sulle guerre tra poveri.

È tempo di un nuovo welfare, è necessario riprendere il cammino del progresso sociale e per farlo è necessario che i cittadini (e i lavoratori) muovano il dibattito in questa direzione, perché vivere sperando non basterà e la storia recente dimostra che si può fare ben poco affidamento sulla corrottissima classe dirigente italiana.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

La fronda finiana che da tempo si poteva dedurre tra le righe dell’empio dibattito politico, è esplosa la scorsa settimana nel battibecco in diretta tv tra i due padri putativi del partito del predellino. Nemmeno dieci giorni e la prima testa a rotolare nel Transatlantico di Montecitorio è proprio quella di Italo Bocchino, ormai ex vice-capogruppo Pdl alla Camera, nonché primo nella lista nera berlusconiana emanata in quello che, secondo tradizione, potrebbe essere ribattezzato l’editto di Roma.

Colpevole con le sue affermazioni di “aver esposto il partito del premier al pubblico ludibrio”, Bocchino è stato coattato alle dimissioni ed è ora dato in pasto alle dichiarazioni virulente dei suoi colleghi di partito. “Ha chiesto la mia testa - lamenta l'esponente finiano - c’è stata una direttiva di Berlusconi durante Ballarò che chiedeva la mia testa. C'è un evidente tentativo, da parte di Berlusconi in prima persona, di arrivare a un'epurazione mia per colpire l'area a me vicina” ha detto Bocchino sfogandosi con i cronisti alla Camera.

Che il giovane delfino di Fini avesse alzato la cresta in più di un’occasione lo hanno visto e sentito tutti negli ultimi mesi, ma è stato probabilmente l’ennesimo scivolone della maggioranza sull’arbitrato ad esacerbare una situazione già tesa più di una corda di violino. Lo scorso martedì sono iniziati a Montecitorio i lavori di discussione sugli emendamenti al ddl sul lavoro e se “per un punto Martin perse la cappa”, qui per un voto (225 favorevoli e 224 contrari) la possibilità di utilizzare l’istituto dell’arbitrato nella risoluzione delle controversie sul licenziamento è stata definitivamente accantonata.

L’emendamento a firma Pd, su cui il Governo è stato battuto, riguarda il comma 9 dell’articolo 31 e stabilisce che l’eventuale ricorso alla figura stragiudiziale dell’arbitro possa essere usata solo nel caso in cui la contese siano già in atto e non in quelle che “dovessero insorgere”, come voluto dal testo originale tanto caro al Governo e a Confindustria. Viene perciò ulteriormente ridimensionata l’utilità effettiva dell’arbitrato, che ora non ha più ragione di esistere all’interno di un’eventuale clausola compromissoria in sede di stipula del contratto: un ottimo risultato per i lavoratori, un tremendo autogol per la maggioranza.

A incidere in modo decisivo sul risultato finale è stata, infatti, la defezione di ben 95 deputati in forza al Pdl, che secondo il deputato della libertà Giancarlo Lehner - protagonista addirittura di uno scontro fisico con l’ex An Antonino Lo Presti - è stata dovuta solo ed esclusivamente ad una trappola della fronda finiana, decisa ormai ad affondare ogni tentativo di riforma della maggioranza berlusconiana.

Per quanto la cosa possa apparire plausibile nel quadro confuso di questa lotta fratricida - che di solito colpisce più volentieri a sinistra che a destra - è difficile vedere questa plateale sconfitta sul ddl lavoro come un’imboscata degli ex An, anche se per il capogruppo Pd alla Camera, Dario Franceschini, “quasi cento deputati di maggioranza assenti su una norma così importante non sono mai un caso”.

Così deve averla pensata anche Padron’ Silvio, che non ha esitato a telefonare all’ormai ex alleato Bocchino intimandogli “farai i conti con me”. Detto fatto: il fedelissimo di Fini è stato ostracizzato ed ora la sua unica funzione è quella di monito vivente a chiunque, da ora in poi, decida di uscire dal seminato preposto dal premier e dai suoi grevi fedelissimi. Se è vero che, come ha affermato Berlusconi nella recente cena con i senatori a palazzo Grazioli, “la fedeltà degli alleati verrà misurata all’interno delle aule Parlamentari”, allora è bene che l’ala finiana si prepari: il partito dell’amore si trasformerà definitivamente in quel Comitato di Salute Pubblica che nella Francia rivoluzionaria mozzò tante teste quante riucì a scovarne. In tutto questo bailamme c’é però una nota positiva ed è rappresentata dal fatto che, a oggi, non sia solo più l’opposizione a sperare che Berlusconi faccia la fine di Robespierre.

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Le credenziali dei russi ex sovietici, quanto a centrali nucleari, non sono proprio doc. C'é sempre aperta quella pagina di Cernobyl. Ma a Villa Gernetto, in Brianza, (dimora settecentesca del premier italiano) nessuno ha voluto ricordare quella tragica avventura del 26 aprile del 1986, quando esplose il reattore numero quattro della centrale nucleare sovietica di Chernobyl. E così Putin e compagni (i boss del "Gazprom" e del ministero dell’Energia Nucleare) arrivati da Berlusconi in qualità di commessi viaggiatori della nuova elite dominante, hanno messo a segno il loro obiettivo.

Berlusconi ha accolto tutte le proposte russe e ha siglato l'accordo che segna l'avvio di un progetto nucleare di conio russo, unico nel suo genere. Tutto nel segno della "profonda amicizia ed affetto" che lo lega a Putin. In pratica una intesa in famiglia per lo sviluppo della fusione nucleare con la creazione di un reattore sperimentale, denominato Ignitor, che porta alla nascita della prima partnership pubblico-privata del settore in Russia.

Il memorandum di Villa Gernetto - siglato dal Ceo dell’Enel Conti e da Boris Kovalchuk, presidente della russa Inter Rao Ues - prevede l’avvio di una cooperazione sul nucleare, in vista della costruzione di nuovi impianti e di una collaborazione su innovazione tecnica, efficienza energetica e distribuzione sia in Russia che nei Paesi dell’Est europeo. Il frutto della prima partnership pubblico-privata sul settore nucleare sarà la realizzazione della centrale nucleare di Kaliningrad, che utilizzerà la tecnologia di ultima generazione Vver 1200 e che sarà composta da due gruppi da 1170 megawatt l’uno.

L’avvio della produzione è previsto tra il 2016 e il 2018, con una quota rilevante dell’energia prodotta destinata ai mercati europei. Inter Rao Ues detterà i termini e le condizioni per la partecipazione di investitori stranieri al nuovo progetto di reattore nucleare mentre ad Enel toccherà studiare gli aspetti tecnici, economici e normativi del progetto valutando condizioni e modalità di una possibile partecipazione. Nel corso di una conferenza stampa Berlusconi ha annunciato che i lavori per la costruzione di nuove centrali nucleare “inizieranno entro la legislatura”.

Per quanto riguarda invece l’altro tema affrontato nel vertice, Putin, ricordando che nel progetto South Stream, partecipano pariteticamente Eni e Gazprom, ha spiegato che “tutto procede bene”. In Turchia “sono terminati i lavori nella zona economica speciale”, ha aggiunto il primo ministro russo. Per il gasdotto, ha continuato, “abbiamo già un progetto realizzato per posare i tubi sul fondo del Mar Nero e abbiamo già costruito il gasdotto in Turchia”. South Stream “avrebbe una tratta un po’ diversa, ma niente di particolarmente nuovo”.

Il primo ministro russo ha poi annunciato che il gruppo francese Edf “parteciperà al progetto e ha chiesto di avere una partecipazione del 20%”. Stesso discorso per la pipeline North Stream, Putin ha infatti sottolineato che “non ci sono disguidi o ritardi” e “anche se l’Italia non è azionista del progetto, partecipa con le tecnologie”. Berlusconi ha invece ricordato che la costruzione del South Stream è prevista per il primo semestre 2012.

Quindi l'annuncio che entro la legislatura verrà avviata la costruzione della prima centrale nucleare in Italia. Nel frattempo, l'Eni potrà ampliare la sua collaborazione con il colosso energetico russo Gazprom anche fuori dall'Europa, ad esempio in Africa, così come l'Enel dà vita alla prima partnership pubblico-privata con la società russa Inter Rao Ues. Il tutto in un clima in cui ciò che viene esaltato è, appunto, il grande legame Berlusconi - Putin.

Berlusconi, intanto, si affretta a spiegare che l'energia nucleare «potrà essere creata per fusione e non più per scissione», in un programma che «potrà cambiare gli scenari per la produzione di energia per le nuove generazioni». Nessuna notizia, comunque, sul luogo in cui il governo italiano intende edificare la centrale, però per il premier va avviata un'opera di «convincimento», visto che la gente è terrorizzata all'idea di vivere accanto ad un sito. Eppure, rassicura, «noi eravamo all'avanguardia, tanto che nel 1967, avevamo ben tre centrali funzionanti, ma poi sotto la spinta degli ecologisti estremi abbiamo dovuto rinunciare. Oggi - puntualizza il Cavaliere attraverso la radio di Mosca - non è possibile restare fuori da questa opportunità».

La Russia, dal canto suo, è disponibile a collaborare al progetto di ritorno al nucleare in Italia attraverso «linee di credito» o di una eventuale «cessione di combustibile», secondo quanto anticipa Putin, spiegando che nel suo Paese è stato adottato «un programma ambizioso, che prevede uno sviluppo dell'energia atomica» con l'obiettivo di farla crescere dal 15-16 per cento del totale al 25 per cento. Tutto questo per dire e ribadire che Cernobyl è preistoria.

Intanto a Mosca i maggiori media - riferendo dell'intesa Berlusconi-Putin sul nucleare - riportano anche le posizioni dell'italiana "Legambiente". E in proposito ricordano che l'incidente, avvenuto nella centrale ucraina, causò, secondo il rapporto ufficiale redatto da agenzie dell'ONU, sessantacinque morti accertati con sicurezza e altri quattro mila presunti, per tumori e leucemie, su un arco di ottanta anni, ma che numerose associazioni stimano in una cifra di gran lunga più alta il prezzo pagato in vite umane. Il governo italiano - notano alcuni commentatori russi - si appresta ora a rilanciare l'energia atomica in Italia, affermando che le centrali di ultima generazione sono sicure". C'è però chi alla stazione radio Eco di Mosca lancia un "Auguri!" che non sappiamo come definire...

di Cinzia Frassi

Mai come quest'anno la Festa di Liberazione dal fascismo e dal nazismo è occasione per osservare. Il tentativo della destra di riscrivere la storia potrà sembrare un dettaglio, elemento trascurabile dei ritmi e delle strategie della politica della seconda repubblica italiana. In realtà non c’è niente di casuale: si tratta di fatti marginali certo, ma di tanti piccoli sassolini che, se collegati dal tratto di una penna, ne delineano il percorso verso il revisionismo storico della Resistenza, della Storia d'Italia, della Liberazione dal fascismo e dal nazifascismo.

E' vero, ogni anno, a ridosso d’importanti ricorrenze, c'è chi si fa avanti con sortite di diverso tipo. Nel 2000 dalla destra venne la proposta di istituire una commissione per la revisione dei libri di storia scolastici perché giudicati "marxisti". Ci sono stati anche vari tentativi di mettere sullo stesso piano coloro che hanno combattuto per la Patria e i caduti della Repubblica di Salò, alleati dell’invasore tedesco. Nel 2008 Ignazio La Russa, durante la celebrazione dell'Armistizio dell'8 settembre, disse che era suo dovere morale ricordare i caduti di Salò. Oggi è ministro della Difesa. Accanto a lui c'era il Presidente della Repubblica a bacchettarlo.

Ma ce n'è per tutti i gusti anche quest'anno alla viglia della Festa della Liberazione. Ad esempio a Milano è stata firmata nei giorni scorsi un'ordinanza che consente ai negozi di restare aperti, forse nel tentativo di trasformare la ricorrenza in una sorta di shopping natalizio fuori stagione. Ma il caso più eclatante se l'è inventato il Presidente della Provincia di Salerno, che si è preso la briga di diffondere manifesti in cui la Liberazione diventa inno agli americani salvatori contro l'avanzata comunista. Un tantino miope.

Luciano Violante a questo proposito ha dichiarato: “C’è una sorta di complesso d’inferiorità da parte di coloro che non riconoscono quello che è stato il ruolo della lotta di liberazione per riconquistare la democrazia in Italia. Vedo che a Salerno c’è un Presidente di Provincia che dice che sono stati liberati dagli americani. C’è chi vieta di cantare “Bella ciao” come a Sassuolo, e anche in Friuli c’è qualcosa del genere. Inviterei queste personalità del centrodestra a pensare che l’Italia è stata liberata insieme da americani, neozelandesi, australiani e italiani». Sarebbe stato meglio lo avesse ricordato quando lui stesso parlò delle "ragioni dei ragazzi di Salò", dimenticando la differenza che passa tra il torto e la ragione, tra l’onore e la vergogna.

Questi solo alcuni elementi di una lunga stagione di tentativi di distrarre la storia, ritoccarla come il trucco dei dirigenti di partito sotto i riflettori delle loro convention. Un pezzetto alla volta si erode la realtà storica: senza bisogno di idealizzare la Resistenza e la Liberazione, il 25 aprile si festeggia e si onora il sacrificio di coloro che si sono battuti per la Patria contro il ventennio fascista e l'occupazione nazista. Il 25 aprile si festeggia la Liberazione per mano dei partigiani, giovani e vecchi, uomini e donne, cattolici e non.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che alla vigilia del 25 aprile si trovava a Milano al Teatro alla Scala per le celebrazioni della Liberazione, ha sottolineato l'importanza di mettere alla base dell'identità dello Stato la verità storica. Davanti ad una platea molto coinvolta non ha mancato di spendere parole circa l'unità stessa. In sala era presente il Presidente del Consiglio, “l'uomo delle riforme” come amano definirlo i suoi e la Lega che mette alla base del suo ricatto politico proprio il federalismo. Il Presidente Napolitano ha sottolineato che “l'idea di dividere l'Italia in più stati è fuori dalla storia e dalla realtà” ed ha continuato dicendo che l'unità d'Italia “non può essere oggetto di irrisione né considerarsi mito obsoleto o residuo del passato”. E ancora: “quelle autonomie regionali e locali di cui si sta rinnovando e accrescendo il ruolo secondo un'ispirazione federalistica, è la strada per far crescere di più e meglio tutto il nostro Paese e per affrontare obiettivi quali il diritto al lavoro e garantire il futuro dei giovani”. Ai cenni di approvazione del Presidente del Consiglio si sono poi unite le parole del ministro Calderoli, a dir poco sinistre: “Le sue parole mi fanno condividere la posizione sull'unità”.

Un teatrino di facciata che dimostra quanto poco attendibile e onesta, nel senso ampio del termine, sia oggi la compagine politica tutta, con poche eccezioni nominali. Una messa in scena che si estende anche ai preparativi per le prossime celebrazioni del 150esimo dell'Unità d'Italia, dove l'ex Presidente Carlo Azeglio Ciampi ha rassegnato le dimissioni e, a seguire, altre personalità.

Ad osservare con attenzione, a mettere insieme questi eventi ed altri, è chiara l'intenzione di mettere da parte la storia, di lasciarla dimenticare e dove non è possibile, cercare quanto meno di cucirle addosso altri significati. A fare il resto c'è un'informazione che ruota attorno ai fatti del momento, li esalta, li gonfia, li usa fino a consumarli e il giorno successivo ricomincia da capo.

Anche in occasione d’importanti ricorrenze come quella di oggi, come la prossima dell'Unità d'Italia, si spendono poche parole, poche energie e poco impegno, soprattutto dalla compagine politica che governa oggi il paese che avverte il passato storico italiano come un nemico.

Oggi però saranno le piazze d'Italia a resuscitare la storia, a tramandarla, a farla rivivere alle nuove generazioni. Per questo motivo sono importanti le celebrazioni storiche: sono un modo concreto di passaggio del testimone. Un segnale importante, estremamente emblematico, soprattutto in questo momento storico, è stata l'apertura delle iscrizioni, avvenuta nel 2006, dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. I testimoni della Resistenza fanno sapere che, ad oggi, i nuovi iscritti dell'ANPI sono under 30. Forse non tutto è perduto.

 

di Fabrizio Casari

Una rottura politica insanabile e inevitabile. La messa in onda dello scontro tra Berlusconi e Fini ha rappresentato, per la prima volta nella storia della monarchia assoluta forzitaliota, non solo e non tanto la prima discontinuità pubblica, ma anche la presentazione in società di due modelli di destra diversi, forse inconciliabili. Il racconto dello scontro alla direzione del predellino vede un capo supremo che reagisce nervosamente a critiche politiche precise, articolate senza sconti, per quanto non esasperate nei toni e non ultimative nell’esito proposto.

Alle critiche il cavaliere ha risposto invitando Fini a dimettersi dal suo ruolo a Montecitorio. Come se Montecitorio fosse un ramo d’azienda. Buffa questa storia per la quale se si vuole far politica ci si dovrebbe dimettere dallo scranno più alto di Montecitorio. Il Presidente della Camera non è forse una nomina politica? O viene eletto per concorso pubblico? E perché il ruolo di garanzia istituzionale dovrebbe far velo su quello politico? Sembra un’ammissione d’inconciliabilità dei due livelli: il che non è nuovo, ma nemmeno confortante.

Lo scontro tra i cofondatori del Pdl indica anche molte altre cose, sia di contorno che di sostanza. Nella prima categoria si possono iscrivere l’imbarazzo generale di una platea di dipendenti di fronte alle critiche al capo (che di loro decide presente, futuro e modello 730) a cui si possono aggiungere le piroette dei voltagabbana, i voltafaccia dei fedeli a tempo, la rappresentazione plastica ed urlata di un partito di eletti che divengono peones. Alla seconda categoria va invece iscritta della fine della mediazione tra le diverse istanze della destra italiana, che aveva fino ad ora tenuto insieme le pulsioni xenofobe con la questione meridionale, l’ideologia dell’impresa con quella della rappresentanza corporativa del mondo del lavoro.

Il cemento dell’anticomunismo non basta più; soprattutto è inutile, vista l’assenza, appunto, dei comunisti. La posizione di Fini rende palese, sul piano personale e politico, l’esaurirsi di ogni funzione politica del Presidente della Camera, che vede la fine di un progetto politico di lungo respiro per una destra che, caso unico in Europa, continua a manifestarsi solo attraverso l’odio di classe e le pulsioni cesariste del proprietario di tutto. D’altra parte il predellino non aveva mai convinto l’ex delfino di Almirante. Roba di plastica, uno spot elettorale, un modo per riperpetrare all’infinito lo strapotere di Silvio e l’assoluta inutilità di tutto il resto. Già solo la richiesta di dibattito politico, non a caso, è sembrata al cavaliere un’onta da lavare con le dimissioni da Presidente della Camera.

Fini ha altro per la testa. Cerca la definitiva fuoriuscita dalle radici del Msi, in vista della formazione di una destra europea, venata di gaullismo e peculiarità italiana. Una destra moderna, riposizionata in un’epoca dove non ci sono più bolscevichi da combattere e agrari da sostenere, ma dove il disordine internazionale e la crisi di leadership statunitense, l’incompiuto progetto europeo, le contraddizioni del modello di sviluppo, la crisi degli stati-nazioni, l’incertezza identitaria dei popoli, obbligano ad un ripensamento generale di tipo sistemico.

Altro che secessione e longobardi, altro che acqua del Po e Borghezio: Fini ha un’idea della destra come destra europea, che assume le coordinate generali del sistema politico democratico che possono essere aggiustate alle singole specificità, ma che non possono considerarsi alternative al sistema di rappresentanza previsto dalla democrazia, anche quando fosse solo formale. Pur mantenendo l’impianto generale della cultura di provenienza, il Presidente della Camera chiede laicità delle istituzioni, diritti civili, percorso inclusivo dell’immigrazione: un’idea di destra che è esattamente all’opposto della mistura di xenofobia e Vandea propria della Lega.

E che il problema dell’identità della destra - e quindi della sua stessa prospettiva per il dopo-Berlusconi - sia rappresentato dalla Lega, è sotto gli occhi di tutti. Il dato delle ultime regionali parla chiaro: due milioni e mezzo di voti persi dal Pdl, di cui l’80% cannibalizzati dalla Lega. Un travaso che si spiega anche con l’assunzione da parte di tutto il Pdl delle tesi leghiste che, quindi, divengono d’un colpo tesi della destra italiana tutta e premiano, di conseguenza, chi sul territorio le spaccia. Si delinea quindi un’azienda con la Lega che detiene la quota di maggioranza del pacchetto azionario.

Ma Berlusconi (diversamente da Bossi, che nel ’94 fece cadere il governo di fronte alla cannibalizzazione della Lega al nord da parte di Forza Italia) tace e acconsente allo strapotere del partito xenofobo; ne ha un bisogno vitale per far passare le leggi ad personam. Ha bisogno disperato della lega per vincere in tutti i collegi del nord e per ridisegnare a sua immagine e convenienza l’architettura costituzionale italiana. Bossi, dal canto suo, si presenta con il figlio (autentico scienziato della politica) e Calderoli, a disegnare il percorso di riforme costituzionali. Il disegno è più o meno questo: tu consegni a noi il federalismo fiscale, le banche, gli enti e la divisione in tre del paese, noi consegniamo a te il potere politico assoluto. Lo scambio è la leadership del Pdl a Tremonti in cambio dell’ascesa al Quirinale di Berlusconi.

Roba da stomaci forti, comunque indigeribile per Fini, che con l’apertura dello scontro interno lancia un messaggio preciso: la destra non ha in Berlusconi l’unico ed ultimo rappresentante e la sua ascesa al Quirinale non è praticabile anche per la destra non berlusconiana. Anche per questo la reazione di Berlusconi è stata scomposta: è perfettamente consapevole che in gioco é sia la messa in discussione della sua leadership da parte di chi considera comunque un suo suddito (ingrato, per giunta), sia una pietra importante alle caviglie per la corsa al Quirinale.

Lo scontro, comunque, è solo agli inizi. Ma l’impressione è che Fini, le cui idee hanno molto più seguito nel suo elettorato che non tra i suoi colonnelli d’un tempo, ha aperto un cammino il cui esito è tutto da verificare: potrebbe portare all’ennesima scissione destinata ad alimentare il nuovo centro con Casini, Rutelli, Rotondi e spiccioli e, forse, con Montezemolo regista arretrato; oppure alla stagione della lenta agonia degli equilibri tenuti fino ad ora con l'assoluta supremazia del capo. Un avvicinarsi speriamo penoso, ma non pericoloso, alla fine del film.

 


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