di Giovanni Gnazzi

Ha vinto Berlusconi. Ha chiesto un referendum su di lui e ha vinto, strappando quattro regioni al centrosinistra. Non quattro regioni qualsiasi, ma il Lazio, il Piemonte, la Campania e la Calabria. Esiti diversi tra loro, perché se per quanto riguarda la Campania o la Calabria, la sconfitta del centrosinistra era nell’aria, visto l’orrendo spettacolo offerto negli ultimi anni, quella del Piemonte e, in qualche misura, del Lazio, non sono certo state sconfitte risultato di malgoverno, cosa del resto riscontrabile anche nelle proporzioni del voto. Meglio quindi non perdersi in oziosi origami sulle cause locali dell’affermazione della destra, perché il voto è stato un voto politico, non amministrativo.

La campagna elettorale ha riproposto, senza soluzione di continuità, una realtà che da quindici anni appare irremovibile: quale che sia la scadenza, quale che sia la posta in gioco, la campagna elettorale della destra è di Berlusconi. Nessuno può onestamente dire che siano i candidati locali a sfidarsi: chiunque sia il candidato del centrosinistra, l’avversario è il presidente del Consiglio con il suo strapotere mediatico che, per risultare ulteriormente più efficace, si giova delle norme che vietano il dibattito elettorale sul tubo catodico. Perché queste norme? Perché la par condicio ridurrebbe profondamente il vergognoso squilibrio dell’informazione pubblica e privata a favore del Premier. Nessun dibattito va mandato in onda proprio per permettere a lui stesso di essere l’unico a poter parlare, in ogni canale e a qualunque ora.

Ogni campagna elettorale è falsata: completamente diverso il peso della comunicazione tra le forze in campo. Anche per questo, prima che per l’innato cesarismo, Berlusconi si agita per chiudere la bocca alle trasmissioni sgradite. Lui, più di chiunque altro, sa quanto può influire un parziale ripristino delle condizioni minime di equilibrio nella comunicazione, e cerca di evitarlo ad ogni costo.

E’ quindi relativo discettare su questioni locali perdendo di vista la centralità di questo elemento. Ignorare questa vergognosa sproporzione nell’accesso all’informazione, alla quale si aggiunge l’evidente differenza d’investimenti economici per le campagne elettorali tra destra e centro-sinistra, significa girare a vuoto, cercare con la lente in un angolo quello che è visibile a occhio nudo davanti alla finestra.

Ma, pure fatte queste considerazioni, non è possibile negare l’altro dato - non meno determinante - di queste elezioni. Il berlusconismo non è alle corde. Il blocco sociale della destra continua ad essere maggioritario e s’identifica - pure con sfumature diverse - con l’impianto culturale, prima ancora che politico, della destra. E’ un blocco sociale ideologico e identitario, che sceglie sulla base dell’appartenenza e della difesa degli interessi che la coalizione berlusconiana garantisce. Ha nel darwinismo sociale e nella guerra alla cultura i suoi segni identitari più precisi. Sa benissimo quali politiche padronali propone e quanto odio di classe dimostra, così come conosce la fumosità delle promesse e l’incapacità cronica di governare.

Ma è proprio l’incapacità di governare che viene premiata da un elettorato che vede le regole come un freno, l’equilibrio istituzionale come debolezza, la competenza come una minaccia alle leggi del “fai da te”. Non ha nessuna tensione di tipo morale, né vede nel rispetto delle regole e del confronto politico un elemento distintivo della qualità del progetto politico. Anzi, come una tifoseria di ultras, gode proprio nel vedere la sua squadra vincere, anche contro il regolamento se serve. In questo senso, risulta davvero ingenua l’idea di metterla in crisi a partire dall’evidenziazione della incompatibilità democratica del premier.

E’ il blocco sociale della sinistra che non c’è; o, quantomeno, non è rappresentato. La campagna elettorale su cui si fomenta il centrosinistra è ormai sempre la stessa: intercettazioni, avvisi di garanzia, scandali di varia natura, appelli d’ipotetici intellettuali e via dicendo. Mancava solo il film di Moretti, stavolta, per completare il quadro. Tutto destinato a evidenziare la scorrettezza e l’illegittimità, prima che l’illegalità, dei comportamenti di Berlusconi. Giusto, ma da solo non paga. Non è questo che vogliono gli italiani: che Berlusconi é quello che è, lo sanno tutti, chi lo vota e chi non lo vota; che l’emergenza democratica sia ormai alle porte lo avvertono tutti, i suoi amici e i suoi oppositori.

E’ il percorso identitario della sinistra che non si vede, come non si vede il suo progetto politico, il suo programma elettorale. Non si capisce quale sia lo schieramento, ridotto a un dato variabile secondo i casi e le tornate elettorali. Passare con disinvoltura da Casini alla Bonino significa proporre la battaglia delle idee come una mascherata dell’opportunismo; continuare a tenere in vita il PD, che non riesce a vincere nemmeno un’elezione, quale che sia, significa perseverare in un errore politico di tipo strategico e tattico.

Serve, urgentemente, lo scioglimento del PD, la sua ridefinizione in due blocchi - uno socialdemocratico, dove far confluire tutta la sinistra, e uno di orientamento cattolico-popolare - destinati a due target elettorali diversi nella raccolta dei voti e ad un’alleanza politica per il governo del Paese.

Non è un caso che l’unica vittoria politica significativa sia stata in Puglia, dove Niki Vendola rappresenta la storia della sinistra che non si camuffa da liberale. Si dichiara comunista e omosessuale e propone un’idea di coalizione ed un programma elettorale che è tutto interno alle corde culturali della sinistra, non a quelle dei democristiani. Vendola propone, prima ancora che una giunta ed un programma, l’idea dell’unità a sinistra, guidata dalla sinistra e che parla al popolo della sinistra. Tutto quello che, infatti, vince da sempre nelle regioni “rosse”.

L’affermazione della Lega non sarà indolore per la fisionomia del PDL. Per la riforma di tipo presidenzialista che ha in mente (che in realtà è solo il tentativo di arrivare al Quirinale) Berlusconi avrà un disperato bisogno di Bossi; questi, è ovvio, chiederà in cambio, nello stesso progetto, il riassetto dell’Italia con la divisione in tre della nazione. Il cavaliere accetterà, non può rischiare i suoi affari. Quindi Fini, che pure non vuole siffatto progetto, avrà due sole strade: uscire con la minoranza dei suoi (la maggioranza ormai sta con Berlusconi) e cercare con Casini la costruzione della nuova destra moderata, o accettare il nuovo assetto padano del partito del predellino. Vedremo già dalla formazione della giunta Polverini i primi segnali. Il voto di Roma città è suonato come una campana a morto per Alemanno (che con Berlusconi ha un patto di ferro) e la Polverini, invece, sta con Fini. Vedremo se saranno le prove generali dell’addio o del mesto ritorno a Corte.

di Mariavittoria Orsolato

Dal palco di piazza San Giovanni, quello del milione presunto, il premier Berlusconi ha fatto un elenco delle innumerevoli migliorie che lui e il suo governo hanno apportato al nostro ingrato stivale. Tra le tante, è stata citata la “epocale riforma del sistema scolastico e universitario” a firma di Maria Stella Gelmini: il disegno di legge è però ancora al vaglio delle Camere, dove tutti gli schieramenti stanno facendo a gara per introdurre emendamenti (ben 800), ma i risultati di questo alacre legiferare paiono peggiorativi in modo stranamente bipartisan.

A segnalare le preoccupanti evoluzioni di quella che è a tutti gli effetti una controriforma sulla pelle degli atenei, ci pensa l’ANDU (Associazione Nazionale Docenti Universitari) che sul suo sito fa una puntuale disamina delle nuove disposizioni, preconizzando quelli che saranno i risvolti di questa non inedita alleanza tra lobbismo universitario, politica e Confindustria.

Il primo punto affrontato dall’ANDU riguarda l’ANVUR, l’agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca, vera e propria Authority degli atenei i cui poteri sono stati ampliati dall'emendamento del relatore, il senatore Giuseppe Valditara in quota PDL, posto all'articolo 5-bis comma 4. Nel testo si legge: “Nel caso in cui la valutazione effettuata dall’ANVUR ai sensi del comma 3 sia negativa, i professori e i ricercatori sono esclusi dalle commissioni di abilitazione, selezione e promozione del personale accademico, di esame di Stato, nonché dagli organi di valutazione dei progetti di ricerca.” Con ciò s’intende affermare che l'ANVUR avrà il compito di vagliare, caso per caso, ogni professore, ricercatore o assistente iscritto nel libro paga dell'ateneo di competenza e valutarlo in base a quelli standard europei tanto cari al ministro dalla penna rossa.

Certo, l'idea di un organo indipendente che vigili sull'operato di quelli che dovrebbero essere i mentori dei nostri figli è più che allettante, ma visti i precedenti nazionali in materia di Authority, il rischio più grosso è che le valutazioni non vengano fatte sul merito effettivo ma in base all'appartenenza partitica o ideologica. Se a ciò si aggiunge che il primo e importante compito dell'ANVUR è l'assegnazione dei fondi statali, pare lecito, oltre che saggio, metterne in dubbio l'imparzialità.

La critica più forte dell'ANDU è però rivolta al manifesto progetto di trasformare gli atenei in governance sulla falsariga delle ASL territoriali, in cui Rettore e Consiglio di Amministrazione hanno l'ultima parola su ogni delibera riguardante sia l'attività didattica sia il reclutamento e il successivo monitoraggio disciplinare di docenti e ricercatori. Nel dettaglio l'articolo 2 comma 2f prevede che il CdA sia preposto a “funzioni di indirizzo strategico, di approvazione della programmazione finanziaria annuale e triennale e del personale”, “della competenza a deliberare l’attivazione o soppressione di corsi e sedi”, “della competenza ad approvare la proposta di chiamata da parte del dipartimento”, oltre che la “competenza disciplinare relativamente ai professori e ricercatori, ai sensi dell’articolo 5-septies”. In questo modo Rettor e e CdA assumono poteri e giurisdizioni prima impensabili in un sistema di istruzione pubblica, con il conseguente svuotamento pratico e deliberativo di organi indispensabili alla rappresentanza - sia del corpo docenti che di quello studenti - come il Senato Accademico e il Consiglio di Dipartimento e dei Corsi di Studio.

Ma dato che al peggio non c’è mai fine, gli emendamenti proposti da maggioranza e opposizione vanno a toccare soprattutto il capitale umano degli atenei, dove capitale umano sta per docenti di terza fascia, ricercatori e assistenti precari. In base alle nuove disposizioni, infatti, i concorsi saranno bloccati, ci sarà una drastica riduzione dei docenti di ruolo e soprattutto la liquidazione della maggior parte dei precari ad oggi operanti nei settori della ricerca e della didattica. A questi ultimi poi, oltre a non venir nemmeno riconosciuto il merito di portare avanti - in molti casi gratuitamente - il lavoro che i docenti sarebbero tenuti per contratto a svolgere, vengono aumentate le ore di effettivo servizio: se prima infatti le ore non dovevano superare le 350, con l’emendamento all’articolo 5-bis comma 1 e i soliti giochi di parole tanto cari alla nostra maggioranza, le ore rimangono 350 ma invece che essere un limite sono una base, dato che il  testo furbescamente gli antepone un “almeno”.

Se, infine, uno degli obiettivi primari dell'epocale riforma era quello di mettere un freno definitivo alla dilagante pratica del nepotismo e del baronato negli atenei, con gli emendamenti agli articoli 8 e 9 si sconfessa di fatto questo nobile proprosito: i concorsi rimarranno infatti su base locale e l'unico requisito necessario alla candidatura sarà l'abilitazione nazionale all'insegnamento. Alla faccia della tolleranza zero.

Per ora tutte queste novità rimangono sulla carta, in attesa di essere approvate dalle Camere in un iter che avrebbe già dovuto essere iniziato ma che per l'enorme mole di emendamenti non sarà discusso fino al 13 aprile. Il ministro è fiducioso sul fatto che la sua creatura venga approvata entro l'estate, nel frattempo attendiamo che l'Onda - il movimento nato spontaneamente dagli studenti di tutti gli atenei italiani nell'ottobre di due anni fa - si faccia sentire ancora e con più voce.

di mazzetta

Le elezioni regionali in corso si sono trasformate nell'ennesimo plebiscito pro o contro Silvio Berlusconi e, questa volta, è indubbiamente per volontà dello stesso Berlusconi. Travolto dagli scandali con l'emersione delle sue allegre serate con prostitute, del suo accompagnarsi a minorenni, lasciato dalla moglie, tradito da parte del suo stesso partito, Berlusconi ha deciso di giocare il tutto per tutto. Ha costretto i suoi sgherri a chiudere la finestra televisiva alle opposizioni, ma non gli è bastato occupare la televisione a ogni ora del giorno e della notte, i sondaggi sono rimasti deludenti.

Ancora più deludente la figuraccia rimediata con la presentazione delle liste per la Provincia di Roma, amplificata da un decreto legge inapplicabile e infine dalla decisione di negare la verità addossando la colpa ai magistrati e i radicali. Una buffonata che ha costretto a una rapida inversione di marcia molti dei suoi sostenitori, che avevano coperto di contumelie il povero Milioni, quello che tirato di qua e di là per cambiare le liste fino all'ultimo, era rimasto fuori e si era dovuto inventare la pietosa scusa del panino. Contrordine camerati, è colpa dei “rossi”. E tutti si sono allineati.

Un disastro anche la manifestazione “oceanica” voluta dal premier, appena qualche decina di migliaia di persone “cammellate” pagando loro i trasporti e anche il pranzo al sacco e poi trasformati in “un milione” da quel Verdini già coinvolto nel sistema delle tangenti che gravita attorno alla Protezione Civile.

Male anche il tentato soccorso della chiesa, che con Bagnasco ha invitato gli elettori a votare i partiti che si oppongono all'aborto. Una scelta pessima, sia perché non si ricordavano da tempo ingerenze vaticane tanto maldestre, sia per il fatto indubitabile che le regioni non hanno alcuna competenza sull'aborto. Per non dire che il pulpito Vaticano non è esattamente quotatissimo e che ha fatto un po' senso questo schierarsi “per la vita” da parte di una gerarchia che sta facendo l'impossibile per negare le evidenti responsabilità nel proteggere i pedofili in tonaca che negli anni hanno stuprato decine di migliaia (almeno) di bambini in giro per il mondo. Ma la Chiesa dopo il caso Boffo ha ottenuto tanto, anche di più dei disoccupati o delle aziende in crisi, per le quali ci sono state solo buone parole, qualcosa doveva pur provare per ringraziare il generoso Silvio

Un disastro e Silvio lo sa, sa che il problema è portare a votare i suoi, ai quali le storie con le prostitute e le minorenni piacciono davvero poco, per non parlare della crisi in Lombardia, dove la corruzione sembra endemica e dove Formigoni ha dato la sua solidarietà ai colleghi tangentari; ma non al povero Pennisi: come mai? Un disastro su tutti i fronti, che difficilmente potrà essere compensato dall'occupazione delle televisioni. Per questo Berlusconi ha già messo le mani avanti e per questo i suoi alleati fremono, sperando di raccogliere i voti dei delusi di destra e che questi elettori non puniscano la coalizione astenendosi.

In tutto questo delirio non si è parlato ovviamente dei temi propri delle elezioni regionali; è difficile sapere e capire cosa propongano destra e sinistra agli elettori ed è difficile capire il senso e l'utilità dell'andare al voto. Un senso queste elezioni però ce l'hanno, ed è quello che gli ha voluto dare Berlusconi, cioè quello di un plebiscito sulla sua persona; una tristezza, ma tant'è. Basta saperlo ed adeguarsi, cercando di dare il colpo di grazia al premier inutile e ormai impazzito come la maionese, che si è addirittura messo a promettere che sconfiggerà il cancro in tre anni.

A sinistra andando a votare e a destra astenendosi, gli italiani che conservano ancora un residuo di dignità e di cultura democratica hanno la possibilità di punire il puttaniere imbizzarrito e di ridurlo, forse, a più miti consigli, indicando anche ai suoi l'unica soluzione utile per il bene del paese: l’uscita di scena di Silvio Berlusconi.

 

 

di Laura Viviani

Ventitre anni fa l’80% degli italiani si schierarono contro le centrali nucleari. Un no secco e deciso. Il 23 luglio 2009 il governo ha emanato però una legge che, tra le altre cose, prevede la reintroduzione del nucleare in Italia. Il provvedimento aveva come buon proposito quello di dare uno scossone all’economia del nostro paese, così è stata motivata la scelta nucleare. Il Governo comunque non ha ancora reso noto il suo piano nucleare, molto probabilmente si pronuncerà solo dopo le elezioni regionali. Un tema troppo scottante per discuterne in campagna elettorale? Pare proprio di sì, tanto che Legambiente e Greenpeace hanno lanciato un appello a tutti i candidati alla carica di governatore regionale affinché si esprimessero in modo chiaro e deciso sulla questione del nucleare.

Sono tredici le regioni chiamate al voto domenica 28 e lunedì 29 marzo: Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria. La campagna elettorale televisiva, la più incisiva, non è delle più accese, dato che i riflettori dei maggiori talk show di approfondimento politico sono stati oscurati con forza dai dirigenti Rai. Il dibattito politico è stato così rilegato ad una comunicazione politica vecchio stile. Tribune politiche soporifere che altro non sono che delle vetrine per i candidati che, indisturbati, ripetono ai cittadini le linee guida studiate a tavolino dai partiti. Il ruolo di garanzia informativa che il giornalista dovrebbe rappresentare per i cittadini viene assolutamente cancellato. Sarà il cittadino che, suo malgrado, dovrà fare un bel po’ di sforzi in più per conoscere e capire i programmi dei candidati e, per esempio, le loro posizioni sulla riapertura del governo all’energia nucleare.

Approvata il 23 luglio 2009, la legge 99, dal titolo "Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia", contempla appunto la reintroduzione del nucleare in Italia e affida al governo la decisione ultima in merito alla localizzazione delle centrali, degli impianti per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e per lo smantellamento degli stessi. Potere decisionale che contrasta con quanto stabilito dal Titolo V della Costituzione sui poteri concorrenti delle regioni in materia di governo del territorio.

Solo i presidenti di regione avranno la possibilità di opporsi alla costruzione di centrali, come peraltro hanno già fatto undici regioni che hanno presentato ricorso alla Corte costituzionale ed è quindi essenziale sapere cosa hanno dichiarato riguardo l’utilizzo dell’energia nucleare gli ipotetici governatori.

I candidati di centro sinistra si schierano apertamente per il no al nucleare. Mercedes Bresso, governatore uscente della regione Piemonte, si dice “contraria a questo nucleare ma a favore della ricerca”, dato che ha finanziato studi sulla piccola fusione nucleare. Sì quindi ad un nuovo tipo di nucleare se esiste, ma non a quello che il presente ci offre. Sulla stessa lunghezza d’onda il candidato del Pd per la Lombardia, Filippo Penati, che afferma che solo tra 25 anni sarà possibile intravedere una prospettiva che induca a valutare il ritorno alla tecnologia atomica, ma “oggi questo nucleare non ci serve: non porterebbe neppure lavoro alle aziende italiane”. Più di un candidato esprime preoccupazione per la volontà del governo di scavalcare la competenza delle regioni nella sua scelta di consentire o meno l’impianto di centrali nucleari sul territorio.

Piuttosto indecisi i candidati dell’Udc. Savino Pezzotta, candidato in Lombardia, non accenna all’argomento nel suo programma di governo, ma a domanda diretta risponde che “servono maggiori certezze sulla sicurezza del nucleare, anche se noi siamo tendenzialmente favorevoli”.  Di opinione opposta il suo collega di partito in corsa nel Veneto, Antonio De Poli, che attacca il suo avversario Pdl Luca Zaia: “Zaia tace perché sa sul nucleare, perché siede in Consiglio dei Ministri. Parlerà quando potrà farlo senza perdere voti. Non ha un compito difficile, il ministro Zaia. Deve solo dire, come dico io: se sarò governatore mi opporrò con tutte le forze ad una centrale nucleare in Veneto”.

De Poli centra il nocciolo della questione e le relative perplessità che scaturiscono dalle dichiarazioni della maggior parte dei candidati Pdl. Non si schierano contro la decisione del governo di reintroduzione del nucleare ma, vuoi l’autosufficienza a livello energetico, vuoi le condizioni sfavorevoli a livello territoriale, non vogliono il nucleare nelle loro regioni. Roberto Formigoni (Lombardia), Renata Polverini (Lazio), Luca Zaia (Veneto), Sandro Biasotti (Liguria), Monica Faenzi (Toscana), Fiammetta Modena (Umbria), Erminio Marinelli (Marche), Stefano Caldoro (Campania), Rocco Palese (Puglia), Giuseppe Scopelliti (Calabria): sono loro i candidati che hanno scelto la posizione più comoda, quella definita con l’acronimo NIMBY, dall’inglese “non nel mio cortile”. In parole povere: sì al nucleare perché fa risparmiare, ma non nella mia regione perché i cittadini non lo vogliono. La posizione più chiara è quella di Roberto Cota, Pdl, che appoggia il nucleare anche nel suo Piemonte, perché pensa che “il nucleare sia una fonte di energia pulita”.

Merita una riflessione la scelta del governo di non rivelare i possibili siti prescelti per il nucleare. Si emana una legge, la si vota in Parlamento, ma non si comunica ai cittadini se si vogliono costruire le centrali nelle loro regioni, perché si ha paura di perdere voti. Ci si chiede come si possa relegare il nucleare ad un tema di scarsa importanza di cui non si parla, di cui non si deve dire, anziché essere chiari con i cittadini che devono ragionare ed essere consapevoli delle loro scelte di voto.

 

 

di Nicola Lillo

“E Annozero può ricominciare…”. È così che Santoro dà il via a “raiperunanotte”. In uno studio allestito in poco più di 24 ore all’interno del palazzo dello sport di Bologna, va in scena la libertà di informazione. Quella libertà sottrattaci dall’oscuramento dei talk show politici in campagna elettorale. Una censura che ha mobilitato e smosso gli animi. Erano, infatti, in seimila dentro al Paladozza, e altrettanti all’esterno del palazzetto. Ma il più era a casa, davanti al proprio computer: 120 mila gli accessi contemporanei sul web e primato italiano di maggior evento seguito sulla rete. Tanti gli ospiti. Applauditissimi.

Il primo è Travaglio, che ha ricostruito i passaggi della vicenda delle intercettazioni della procura di Trani sul caso Rai e Agcom. Poi Floris e Lerner. Norma Rangeri, Barbara Serra e Loris Mazzetti. Quest’ultimo sospeso dalla Rai per alcuni articoli contro la sua azienda scritti su Il Fatto Quotidiano. Riccardo Jacona e l’intervento video di Milena Gabanelli. Sandro Ruotolo, che ricostruisce l’audio delle intercettazioni di Trani. Numerosi anche gli artisti, come Elio e le Storie Tese e Venditti. Presente anche Morgan, che lascia il palco prima della fine della serata, probabilmente per alcune contestazioni.

C’erano le operaie della Omsa, un’azienda italiana che funziona, ma che licenzia perché delocalizza in Serbia per consentire maggiori utili all’imprenditore. Sono intervenuti anche il trio Medusa, Crozza e le immancabili vignette di Vauro. Tante anche le interviste. Ad Emilio Fede, che sciorina falsità una dietro l’altra: “Berlusconi non ha mai chiesto la chiusura di Annozero”. Basterebbe leggere qualche giornale, addirittura quello del capo.

Riempie gli schermi poi l’estro di Benigni, intervistato da Sandro Ruotolo. Una ventata di buon umore con abbracci sorrisi e baci (in bocca a Ruotolo stesso), e tanta improvvisazione. Intervista anche al grande regista Mario Monicelli, che parla di “rivoluzione”. Un taboo ormai: “La rivoluzione è necessaria, soprattutto in un paese come l’Italia che non ne ha mai fatta una”. Poi il ricordo di Enzo Biagi, applaudito anche lui. Mancava solo uno dei tre epurati dell’editto Bulgaro.

“Come si chiama quello..?” Berlusconi dixit. Si chiama Luttazzi. Al suo ingresso la platea esplode pronta ad una delle sue solite performance teatrali: il rapporto anale come metafora della situazione politico sociale italiana. Applausi a scena aperta e “standing ovation”. Il finale a sorpresa. Il giuramento di Santoro, Vauro, Travaglio, Ruotolo e tutta la troupe di Annozero, ripetuta poi all’unisono dal pubblico in piedi: “Giuro solennemente che ora e sempre la faremo fuori dal vaso”. L’idea è: niente censura e niente bavaglio! Applausi scroscianti e un Santoro che esce dal Paladozza di corsa insieme alle ex operaie della Omsa immergendosi nei cinque mila fuori dal palazzetto.

Non si sono fatte attendere le reazioni del Pdl. Nel corso della notte, infatti, Silvio Berlusconi da Bruxelles parla di Santoro: “L'Agcom dovrebbe impegnare le sue forze per sanzionare alcune trasmissioni che sono un obbrobrio incivile e barbaro”. Parole durissime. Pochi minuti prima aveva però spiegato di non voler commentare la serata perché, afferma “dovrei essere molto severo nei confronti di ciò che è stato fatto in queste trasmissioni”. Ed infatti…Continua poi chiedendo all’Agcom di sanzionare le trasmissioni del giornalista e non Tg1 e Tg5.

È infatti di ieri la notizia di una sanzione di 100 mila euro ad entrambi i telegiornali per aver mandato in onda troppo Pdl durante la par condicio. Una segnale per dire che ci sono, che l’Agcom c’è ed è operativa. Ma non basta una multa per far valere i propri ruoli. Dopo lo scandalo di Trani l’Autorità di garanzia sembra non avere troppa credibilità. Sembra il minimo dopo uno scandalo di tale portata, che in altri Paesi avrebbe portato alle dimissioni sia del Presidente del Consiglio, sia dei membri Rai e dell’Agcom.

Ma d’altronde siamo in Italia e se Barbara Serra, giornalista di Al Jazeera a Londra, commenta dicendo che “all’estero la stampa non parla più degli scandali italiani, come le liste o le intercettazioni di Trani, e sembra quasi che queste cose siano divenute abitudine in Italia, e i giornali non si stupiscono più di certe anomalie”, allora vuol dire che siamo caduti molto in basso. E ce ne siamo accorti. Meglio tenere a mente le parole profonde di Monicelli e il loro denso e ideale significato.

 


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