di Nicola Lillo

L’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, era a conoscenza dei contatti avviati dal Ros dei carabinieri tra Vito Ciancimino e il generale Francesco Delfino. Un altro tassello si aggiunge al mosaico che i pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia stanno cercando di formare. È ripreso, infatti, il processo a carico del generale Mario Mori e del colonnello Muro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss mafioso Bernardo Provenzano nell’ottobre del 1995.

In aula erano attesi l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli e il magistrato ed ex dirigente del Ministero della Giustizia, Liliana Ferraro, collaboratrice di Giovanni Falcone, assente, però, per motivi di salute. I due erano stati citati dopo le dichiarazioni rese in aula da Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, nell’ambito della presunta trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra dopo le stragi del 1992.

Martelli inizia il suo racconto rispondendo alle domande del pm Ingroia, con un breve excursus sul suo mandato, per poi concentrarsi su quanto già aveva detto alla trasmissione Annozero. Dichiarazioni che fecero “sobbalzare dalla sedia” Michele Santoro e Sandro Ruotolo. Il racconto svela che il capitano dell’Arma De Donno incontrò Liliana Ferraro a fine giugno 1992, annunciandole che dopo aver agganciato Massimo Ciancimino, avrebbero potuto incontrare il padre Vito, con l’obiettivo di fermare le stragi. De Donno chiese supporto politico al ministero. La Ferraro aveva già risposto al capitano: “rivolgetevi a Borsellino”. “Il giudice Ferraro poi mi disse - dichiara Martelli - di aver incontrato il capitano dei carabinieri De Donno, il quale le aveva fatto riferimento ad un’azione del Ros destinata a porre fine al periodo stragista”.

L’ex Guardasigilli, venuto a conoscenza della richiesta del Ros, racconta che si adirò “per il rifiuto da parte del Ros di accettare una legge appena varata (quella che istituì la Dia competente su quelle indagini, ndr) e continuavano la loro iniziativa senza giustificazioni, né rispetto della gerarchia competente. La trovai una sorta d’insubordinazione. Io informai subito il capo della Dia, Tavormina, e il ministero dell’Interno”. Chi era il ministro in questione? Martelli non ricorda con precisione. Fino a fine giugno c’era Vincenzo Scotti e il primo luglio s’insediò Nicola Mancino. “Ritengo che fosse Nicola Mancino” conferma poi, precisando anche che “se minimamente avessi avuto sentore di una trattativa l’avrei denunciata pubblicamente”. “Sono convinto che lo scopo del Ros – continua – fosse virtuoso: fermare le stragi, arrestare i latitanti.

Ma il metodo utilizzato, inaccettabile. Ciancimino era uno dei capimafia più pericolosi una delle menti criminali più raffinate in organico a Cosa nostra. Un boss mafioso a tutti gli effetti, tra i più efferati e più pericolosi in virtù del suo inserimento negli ambienti amministrativi e si stava rischiando di dargli un ruolo super partes. Capivo che i carabinieri avevano un rapporto stretto con lui”.

Rivelazioni che mettono un po’ di luce su quei giorni del 1992. Il racconto dell’ex guardasigilli è certamente importante per la Procura. Un riscontro alle parole di Massimo Ciancimino, già querelato da Nicola Mancino, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Quest’ultimo replica a Martelli: “Né Martelli né altri mi parlò mai di contatti con Ciancimino. Ho sempre escluso, e coerentemente escludo anche oggi, che qualcuno, e perciò neppure il ministro Martelli, mi abbia mai parlato della iniziativa del colonnello Mori del Ros di volere avviare contatti con Vito Ciancimino. Ribadisco che, per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell’Interno, nessuno mi parlò mai di possibili trattative con la mafia”.

“L’on. Martelli - osserva il vice presidente del Csm - fra Scotti e Mancino usa la forma dubitativa: ma se uno non si ricorda bene è inutile fare nomi. Quando la dottoressa Ferraro avrebbe incontrato De Donno si era nel giugno 1992, ed io mi insediai al Viminale l’1 luglio successivo. Con il Ros non avevo alcuna relazione istituzionale e, perciò, non c’era bisogno di dire a me un fatto che poteva interessare, semmai, il ministro della Difesa dell’epoca, da cui il colonnello Mori dipendeva”.

Intanto, mentre alcuni elementi aprono uno squarcio su una parte della storia del nostro Paese ancora poco chiara, è stata recapitata nell’abitazione di Bologna di Massimo Ciancimino una busta con proiettili di kalashnikov e una lettera contro Violante Martelli, Michele Santoro, Spatuzza e i pm Di Matteo Ingroia e Lari.

Il processo verrà aggiornato al prossimo 4 maggio, mentre l'altro ieri è stato nuovamente interrogato il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Ascoltato dal Procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal pm Antonino Di Matteo, al termine dell’interrogatorio la Procura di Palermo ha acquisito agli atti il libro “Don Vito, le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione”, scritto a quattro mani dallo stesso Massimo Ciancimino e da Francesco La Licata, giornalista de La Stampa, dove si raccontano i retroscena inediti sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra.


 

di Nicola Lillo

Altro giro, altro regalo. Il ddl sul legittimo impedimento è stato promulgato. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l'altro ieri ha posto la sua firma sul disegno di legge. Il provvedimento, approvato in via definitiva dal Senato il 10 marzo scorso, entrerà in vigore con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. La ventitreesima legge ad personam per il Premier. Un provvedimento che consentirà a Berlusconi e ai suoi ministri di schivare le aule di giustizia per i prossimi 18 mesi.

Un obiettivo fondamentale per il Presidente del Consiglio, intimorito dai diversi procedimenti a suo carico, l’ultimo dei quali è l’inchiesta di Trani, poi trasferita al “porto delle nebbie” di Roma. A Berlusconi non importa se il testo di legge venga o meno spazzato via dalla Corte Costituzionale, come molto probabilmente avverrà. Ciò che per lui conta è saltare i processi, in vista di un nuovo lodo Alfano in salsa costituzionale. Anche se, va ricordato, la nostra Costituzione prevede la possibilità di ritenere incostituzionali anche leggi approvate con procedimento aggravato, dunque leggi costituzionali.

Il legittimo impedimento non è altro che una legge a tempo, necessaria, secondo la maggioranza, dopo il vuoto normativo che si è venuto a creare in seguito all’abolizione dell’immunità parlamentare (dopo Tangentopoli). I 18 mesi dovrebbero servire, appunto, per emanare quella riforma costituzionale evocata da Berlusconi. La legge non è altro che un Lodo Alfano o Schifani esteso addirittura ai ministri. Napolitano sembra non essersene reso conto. Difatti questa norma non farà altro che impedire il normale svolgimento dei processi a carico di questi soggetti. Il Presidente della Repubblica non ha neppure capito che si tratta di una legge incostituzionale utile solo ad evitare una sentenza di condanna in primo grado per Berlusconi nel processo Mills. O almeno si spera non abbia capito.

Speranza che si perde leggendo il primo articolo della legge. Come fa notare l’ex magistrato Bruno Tinti, infatti, “l’art. 1 dice che il legittimo impedimento vale per le udienze penali in cui presidente del Consiglio e ministri sono imputati. Quindi non vale quando siano chiamati a testimoniare. Domanda: se il problema consiste nel fatto che la presenza nelle udienze penali è incompatibile con le attività coessenziali alle funzioni di governo, com’è che questa incompatibilità non è stata prevista quando si tratta di testimoniare?”. Inoltre ci si chiede: essendo una norma a tempo, dopo i 18 mesi gli impegni “legittimi” sono cessati o no? Le risposte vengono da se…

Qualche giorno fa Napolitano non firmò il testo che sarebbe andato a modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che prevede la possibilità per un lavoratore di ricorrere ai giudici del lavoro nel caso in cui il licenziamento fosse stato applicato senza giusta causa. Il primo rigetto alle camere di una legge dell’attuale maggioranza. Un atto che fece già pensare ad una probabile promulgazione del ddl sul legittimo impedimento. Difatti, due rinvii alle camere consecutivi sarebbero stati sorprendenti per Napolitano. Insomma, una sorta di boccata di ossigeno prima di una nuova firma a favore del Premier.

Se poi lo stesso Napolitano afferma che è inutile non firmare una legge in quanto se la presentano una seconda volta è obbligato a firmarla, qualche problema sorge. Bisognerebbe infatti spiegare che ci si può dissociare da un abuso. Ci si può dimettere. O anche il semplice rinvio è un segnale forte e importante nei confronti della maggioranza. Il garante della Costituzione non può firmare norme palesemente incostituzionali.

Neppure le rivelazioni di Scalari riguardo le liti Ciampi-Berlusconi sembrano aver fatto breccia nell’attuale Presidente della Repubblica. Il giornalista, fondatore di La Repubblica, racconta infatti due episodi in cui Ciampi disse entrambe le volte “no” a Berlusconi, riferendosi alla promulgazione della legge Gasparri e alla nomina di tre giudici della Consulta. “No” che fecero infuriare il Presidente del Consiglio. Gli stessi “no” che oggi si auspicherebbero dal Presidente della Repubblica, nonché garante di una costituzione, che ormai trasversalmente si ha intenzione di stravolgere.

Questa promulgazione, infatti, dà il via a una serie di cambiamenti strutturali delle istituzioni. Oltre alla legge sulle intercettazioni prossima ventura (a cui Berlusconi tiene molto), la giustizia, la par condicio, le istituzioni si preparano a una grossa mutazione. È dell'altro ieri, infatti, la dichiarazione del ministro della Semplificazione, Calderoli, che ha affermato il raggiungimento di un “grande risultato”: cioè un metodo da seguire per le grandi riforme. I ministri competenti predispongano un testo che passa poi al tavolo dei coordinatori dei partiti, per un esame preliminare; il tutto approda poi al Consiglio dei Ministri e quindi in Parlamento. “Tutto quello che c’è da fare nel campo delle riforme - ha detto Calderoli - seguirà questo percorso”. “Il risultato é importante - ha sottolineato il ministro del Carroccio - perché adesso c’è un metodo concreto e condiviso su cui lavorare in tempi rapidi”. Segue a ruota Bersani: “Varare subito il Senato federale e il taglio del numero dei parlamentari”. Come dire, noi ci siamo. E la firma di Napolitano pure.


 

di Mariavittoria Orsolato

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano c’è e, forse, lotta insieme a noi. Non è quell’ectoplasma descritto da Travaglio, né quel narcolettico demonizzato da Beppe Grillo: quando vuole, Napolitano c’è e fa sentire la sua presenza e soprattutto il peso della sua carica. Certo, che lo faccia con i suoi tempi e modi é un altro paio di maniche, ma la notizia del rinvio alle Camere del testo che sarebbe andato a modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori - quello che prevede la possibilità per un lavoratore di ricorrere ai giudici del lavoro nel caso in cui il licenziamento fosse stato applicato senza giusta causa - è sinceramente rincuorante per tutti coloro che ormai non speravano più nella salvaguardia dei diritti costituzionali.

Ricorrendo all’articolo 74 della Costituzione, Napolitano si è infatti rifiutato di firmare la nuova legge sulla riforma del lavoro e, come spiegato da una nota del Quirinale, il Presidente “è stato indotto a tale decisione dalla estrema eterogeneità della legge e in particolare dalla complessità e problematicità di alcune disposizioni che disciplinano temi, attinenti alla tutela del lavoro, di indubbia delicatezza sul piano sociale”. Nella lettera che accompagnava il rinvio alle Camere c’era poi indicata nello specfico la norma che il Presidente gradirebbe modificata, se non addirittura espunta: è il famoso articolo 31, che prevede la risoluzione della controversia tra lavoratore e datore di lavoro non solo tramite la giustizia ordinaria ma anche tramite l’arbitrato.

Secondo tale articolo, il reintegro sul posto di lavoro previsto dall’articolo 18 dello Statuto non sarebbe più stato un diritto ma solo una possibilità: il ricorso ad una figura extragiudiziale come quella dell’arbitro (privato cittadino chiamato a giudicare in base al principio di equità e quindi in deroga a quello legislativo) va infatti a cozzare contro gli articoli 4 e 35 della Costituzione che mirano a stabilire un equilibrio tra le parti in causa, tutelando la naturale inferiorità contrattuale di un lavoro subordinato. Un arbitro può infatti decidere di non riassumere il lavoratore ma semplicemente di risarcirlo con una cifra forfettaria e di multare di conseguenza l’azienda, se a ciò si aggiunge il fatto che l’arbitrato è introdotto tramite clausola compromissoria all’interno del contratto di assunzione, ben si comprenderanno i dubbi di Napolitano.

Secondo il Colle, la legge avrebbe infatti i crismi della costituzionalità solo nel caso in cui l’arbitrato fosse deciso da entrambe le parti in causa ma dato che l’articolo 31 prevede l’implicita accettazione di questa possibilitò al momento dell’assunzione - notoriamente una condizione di debolezza contrattuale per il lavoratore - la nuova legge, così com’è, non può e non deve passare. Sempre nella nota inviata alle Camere si legge che il Presidente “ha perciò ritenuto opportuno un ulteriore approfondimento da parte delle Camere, affinché gli apprezzabili intenti riformatori che traspaiono dal provvedimento possano realizzarsi nel quadro di precise garanzie e di un più chiaro e definito equilibrio tra legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale”.

Quello di Napolitano è, in effetti, il primo rinvio del suo settennato, ed è un rinvio anomalo se si pensa al fatto che anche una porcata come il Lodo Alfano è stata sottoscritta senza troppi fronzoli. Le motivazioni addotte dalla prima carica dello Stato suonano infatti nuove e si tingono inevitabilmente di quel colore politico che la sua presidenza aveva cercato di esorcizzare in tutti modi. Puntare il dito sulle ripercussioni sociali che una tale norma potrebbe scatenare, oltre a rispolverare i fasti ideologici di quel Pci che gli ha dato i natali, significa opporsi apertamente al Governo e al suo modo di riformare lo Stato; un modo che evidentemente, secondo Napolitano, non tiene in debito conto delle conseguenze dei suoi atti.

Certo però, questa non è e non sarà la prima battaglia di una possibile guerra tra Palazzo Chigi e il Quirinale: la prossima settimana Napolitano sarà chiamato a decidere sul legittimo impedimento. Appare difficile che dia picche a Berlusconi per due volte di seguito.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Sarà pur stata messa in commercio il primo aprile, ma la RU486 non è uno scherzo, così come non lo è il motivo per cui la si somministra. A non averlo capito è la Lega Nord, che dopo l’ubriacatura delle Regionali inizia a fare la voce grossa sui temi cari a quell’elettorato cattolico, da molti dato per disperso. I minacciosi veti, che mercoledì e giovedì sono stati scagliati contro la pillola abortiva dai neogovernatori Roberto Cota e Luca Zaia, hanno fatto dimenticare a porporati e simpatizzanti i matrimoni celtici e i riti di purificazione con le acque del Po, ed hanno finalmente rivelato quello che da mesi i fautori della Padania stanno intavolando con il Vaticano.

Il plauso di monsignor Rino Fisichella, presidente della Ponteficia Accademia per la vita, espresso poche ore dopo la vittoria del Carroccio in Piemonte e Veneto, in nome di “una piena condivisione con il pensiero della Chiesa”, ha infatti il valore di un “via libera” all’assalto del bacino d’influenza di San Pietro. Dopo la defezione di Fini, ormai stabile su posizioni ben più laiche della sinistra, nel novero dei graditi alla Curia si è liberato un posto che Berlusconi - causa scandali di vario genere e natura - non può rivendicare solo per sé.

Proprio in questo vuoto si vuole piazzare Bossi, probabilmente conscio che il solo voto territoriale non può dare quel potere contrattuale necessario alle sue strampalate rivendicazioni, prima fra tutte quella che da anni vede la Lega impegnarsi in crociate anti-islamiche. Un appoggio della Chiesa in tal senso, significherebbe un ulteriore sdoganamento di quella filosofia razzista e decisamente medievale secondo cui gli “infedeli” vanno allontanati e repressi, ed in secondo luogo legittimerebbe la lotta senza esclusione di colpi a quell’immigrazione clandestina che i leghisti, nella loro sconfinata grettezza, associano alla pelle scura e al Corano.

Alla Chiesa poco importa che uno dei suoi propri pilastri fondanti sia l’ecumenicità, quella che la nuova Lega di Zaia e Cota sta offrendo è un’iniezione di popolarità cui, dopo le coperture e i silenzi sui preti pedofili, non è minimamente pensabile rinunciare. Tra una Miss Padania e un tricolore bruciato, nel Carroccio torna in auge la Vandea, quella della Lega della prima ora, al tempo interpretata dalla Pivetti, prima che si desse al lattex.

Insomma questo inedito connubio è il più classico dei matrimoni d’interesse: al Carroccio l’appoggio dei vescovi e dei cardinali serve a ricordare al Pdl quanto la sua posizione sia precaria rispetto a quella “Italia che produce”, al Vaticano la Lega è cara nella misura in cui è l’unica a sbilanciarsi sui quei temi etici ( aborto in primis) che la destra di ala berlusconiana ha abbandonato per concentrasi contro toghe rosse e giornalisti poco reticenti.

Fortunatamente, per ora la legge batte l’elucubrazione politico-ideologica e dall’Ordine dei Medici arriva l’ennesima conferma della bontà della Ru486: la pillola abortiva è compatibile con la legge 194 e “chi dice di non volere la Ru486, al di là delle legittime preoccupazioni etiche e morali, mette in discussione la stessa 194” ha detto il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Amedeo Bianco. Ed anche dalle fila del Governo s’ode una voce fuori dal coro.

La Ministra per le Pari Opportunità, Stefania Prestigiacomo, ha infatti dichiarato in un’intervista a La Repubblica le posizioni di Zaia e Cota sono state assunte “ancora sull'onda dell'euforia legittima per il risultato elettorale” e che “da donna e da madre, davanti a una figlia maggiorenne che volesse decidere per un'interruzione di gravidanza, credo che sarebbe ingiusto impedirle l'accesso ad un intervento non cruento - naturalmente in regime ospedaliero e sotto stretto controllo medico - come quello garantito dalla Ru486”. La Prestigiacomo non è però la sola a far muro contro le velleità dei due neogovernatori leghisti, anche il Ministro della Salute, Ferruccio Fazio, si fa scudo della legge 194 e invita i due a leggersi la legge, ricordando che le leggi vanno sempre rispettate.

Se per ora Cota sembra aver fatto un passo indietro dichiarando di non essere mai stato in contrasto con la legge, Zaia - sicuramente sostenuto dal congenito bigottismo dei suoi elettori - afferma di contro: “Ribadisco che la mia coscienza è informata e ordinata nel pensiero della Chiesa”. A dar man forte alla causa i pensa poi quel Casini che dovrebbe stare all’opposizione ma che spesso e volentieri combatte (si fa per dire..) dalla parte opposta: in un’intervista del Tg1 ha auspicato una modifica della 194 in ragione del peso politico della Lega all’interno della coalizione di Governo. Per la modifica della legge sul divorzio, invece, dovremo attendere la terza moglie.

 

di Giovanni Gnazzi

Ha vinto Berlusconi. Ha chiesto un referendum su di lui e ha vinto, strappando quattro regioni al centrosinistra. Non quattro regioni qualsiasi, ma il Lazio, il Piemonte, la Campania e la Calabria. Esiti diversi tra loro, perché se per quanto riguarda la Campania o la Calabria, la sconfitta del centrosinistra era nell’aria, visto l’orrendo spettacolo offerto negli ultimi anni, quella del Piemonte e, in qualche misura, del Lazio, non sono certo state sconfitte risultato di malgoverno, cosa del resto riscontrabile anche nelle proporzioni del voto. Meglio quindi non perdersi in oziosi origami sulle cause locali dell’affermazione della destra, perché il voto è stato un voto politico, non amministrativo.

La campagna elettorale ha riproposto, senza soluzione di continuità, una realtà che da quindici anni appare irremovibile: quale che sia la scadenza, quale che sia la posta in gioco, la campagna elettorale della destra è di Berlusconi. Nessuno può onestamente dire che siano i candidati locali a sfidarsi: chiunque sia il candidato del centrosinistra, l’avversario è il presidente del Consiglio con il suo strapotere mediatico che, per risultare ulteriormente più efficace, si giova delle norme che vietano il dibattito elettorale sul tubo catodico. Perché queste norme? Perché la par condicio ridurrebbe profondamente il vergognoso squilibrio dell’informazione pubblica e privata a favore del Premier. Nessun dibattito va mandato in onda proprio per permettere a lui stesso di essere l’unico a poter parlare, in ogni canale e a qualunque ora.

Ogni campagna elettorale è falsata: completamente diverso il peso della comunicazione tra le forze in campo. Anche per questo, prima che per l’innato cesarismo, Berlusconi si agita per chiudere la bocca alle trasmissioni sgradite. Lui, più di chiunque altro, sa quanto può influire un parziale ripristino delle condizioni minime di equilibrio nella comunicazione, e cerca di evitarlo ad ogni costo.

E’ quindi relativo discettare su questioni locali perdendo di vista la centralità di questo elemento. Ignorare questa vergognosa sproporzione nell’accesso all’informazione, alla quale si aggiunge l’evidente differenza d’investimenti economici per le campagne elettorali tra destra e centro-sinistra, significa girare a vuoto, cercare con la lente in un angolo quello che è visibile a occhio nudo davanti alla finestra.

Ma, pure fatte queste considerazioni, non è possibile negare l’altro dato - non meno determinante - di queste elezioni. Il berlusconismo non è alle corde. Il blocco sociale della destra continua ad essere maggioritario e s’identifica - pure con sfumature diverse - con l’impianto culturale, prima ancora che politico, della destra. E’ un blocco sociale ideologico e identitario, che sceglie sulla base dell’appartenenza e della difesa degli interessi che la coalizione berlusconiana garantisce. Ha nel darwinismo sociale e nella guerra alla cultura i suoi segni identitari più precisi. Sa benissimo quali politiche padronali propone e quanto odio di classe dimostra, così come conosce la fumosità delle promesse e l’incapacità cronica di governare.

Ma è proprio l’incapacità di governare che viene premiata da un elettorato che vede le regole come un freno, l’equilibrio istituzionale come debolezza, la competenza come una minaccia alle leggi del “fai da te”. Non ha nessuna tensione di tipo morale, né vede nel rispetto delle regole e del confronto politico un elemento distintivo della qualità del progetto politico. Anzi, come una tifoseria di ultras, gode proprio nel vedere la sua squadra vincere, anche contro il regolamento se serve. In questo senso, risulta davvero ingenua l’idea di metterla in crisi a partire dall’evidenziazione della incompatibilità democratica del premier.

E’ il blocco sociale della sinistra che non c’è; o, quantomeno, non è rappresentato. La campagna elettorale su cui si fomenta il centrosinistra è ormai sempre la stessa: intercettazioni, avvisi di garanzia, scandali di varia natura, appelli d’ipotetici intellettuali e via dicendo. Mancava solo il film di Moretti, stavolta, per completare il quadro. Tutto destinato a evidenziare la scorrettezza e l’illegittimità, prima che l’illegalità, dei comportamenti di Berlusconi. Giusto, ma da solo non paga. Non è questo che vogliono gli italiani: che Berlusconi é quello che è, lo sanno tutti, chi lo vota e chi non lo vota; che l’emergenza democratica sia ormai alle porte lo avvertono tutti, i suoi amici e i suoi oppositori.

E’ il percorso identitario della sinistra che non si vede, come non si vede il suo progetto politico, il suo programma elettorale. Non si capisce quale sia lo schieramento, ridotto a un dato variabile secondo i casi e le tornate elettorali. Passare con disinvoltura da Casini alla Bonino significa proporre la battaglia delle idee come una mascherata dell’opportunismo; continuare a tenere in vita il PD, che non riesce a vincere nemmeno un’elezione, quale che sia, significa perseverare in un errore politico di tipo strategico e tattico.

Serve, urgentemente, lo scioglimento del PD, la sua ridefinizione in due blocchi - uno socialdemocratico, dove far confluire tutta la sinistra, e uno di orientamento cattolico-popolare - destinati a due target elettorali diversi nella raccolta dei voti e ad un’alleanza politica per il governo del Paese.

Non è un caso che l’unica vittoria politica significativa sia stata in Puglia, dove Niki Vendola rappresenta la storia della sinistra che non si camuffa da liberale. Si dichiara comunista e omosessuale e propone un’idea di coalizione ed un programma elettorale che è tutto interno alle corde culturali della sinistra, non a quelle dei democristiani. Vendola propone, prima ancora che una giunta ed un programma, l’idea dell’unità a sinistra, guidata dalla sinistra e che parla al popolo della sinistra. Tutto quello che, infatti, vince da sempre nelle regioni “rosse”.

L’affermazione della Lega non sarà indolore per la fisionomia del PDL. Per la riforma di tipo presidenzialista che ha in mente (che in realtà è solo il tentativo di arrivare al Quirinale) Berlusconi avrà un disperato bisogno di Bossi; questi, è ovvio, chiederà in cambio, nello stesso progetto, il riassetto dell’Italia con la divisione in tre della nazione. Il cavaliere accetterà, non può rischiare i suoi affari. Quindi Fini, che pure non vuole siffatto progetto, avrà due sole strade: uscire con la minoranza dei suoi (la maggioranza ormai sta con Berlusconi) e cercare con Casini la costruzione della nuova destra moderata, o accettare il nuovo assetto padano del partito del predellino. Vedremo già dalla formazione della giunta Polverini i primi segnali. Il voto di Roma città è suonato come una campana a morto per Alemanno (che con Berlusconi ha un patto di ferro) e la Polverini, invece, sta con Fini. Vedremo se saranno le prove generali dell’addio o del mesto ritorno a Corte.


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