di Roberta Folatti

All’improvviso la verità...


Un intrico di sentimenti contraddittori, velenosi, a volte mortali. Lungi dall’essere un’oasi di serenità e protezione, la famiglia per Francis Ford Coppola può rivelarsi un potente ostacolo alla crescita personale. D’altra parte neppure rimanere all’oscuro del proprio passato familiare aiuta, anzi il rovello cresce dentro come una pustola rigonfia di pus. Che prima poi va schiacciata, e se esplode da sè è peggio...
Benny sta per compiere i diciotto anni, è cresciuto in un collegio di lusso offertogli da un padre di successo, grande direttore d’orchestra, ma completamente inadempiente nel ruolo di genitore. Una figura autocentrata, avvezza all’adulazione, del tutto concentrata sulla propria carriera. Di sua madre invece Benny non sa praticamente nulla, se non che è morta giovane in circostanze poco chiare. Il suo più grande cruccio è l’abbandono della famiglia da parte del fratello Angelo, allontanatosi con la scusa di cercare ispirazione letteraria altrove e mai più ritornato, malgrado avesse promesso di ripassare a prenderlo.
Piuttosto che continuare a chiedersi perchè si sia comportato così, Benny preferisce affrontare il toro per le corna piombando in casa di Angelo, che ora si fa chiamare Tetro, e scompigliandogli la vita. Che a quanto si apprenderà in seguito, era già andata in frantumi anni prima. Benny si aspetta delle risposte, quasi le pretende, ma Tetro non sembra per nulla disposto a dargliele.
Segreti di famiglia, scritto, sceneggiato e diretto da Coppola, prende il via dall’arrivo di Benny a Buenos Aires dove Tetro ha messo su casa con la sua compagna Miranda. La capitale argentina è ripresa con taglio ironico e divertito tranne nei momenti più tragici, quando diventa uno sfondo pittorico adatto ai colpi di scena e alle rivelazioni drammatiche. Coppola capovolge i canoni consueti con la scelta del bianco e nero per il presente, relegando il colore alle ricostruzioni di episodi passati e agli inserti di danza, con cui  sottolinea gli snodi fondamentali della storia. Le luci, a volte accese e fiammeggianti, altre malinconiche hanno un ruolo importante, alla fotografia il rumeno Mihai Malaimare fa un lavoro egregio.
Segreti di famiglia è un film costruito sui volti e sulle atmosfere; una volta usciti dal cinema rimane appiccicato addosso lo sguardo inquieto, a tratti febbricitante di Vincent Gallo e il fascino stratificato, frutto di mille morti e mille rinascite, di Buenos Aires. Oltre alla certezza che la famiglia non sia esattamente un luogo idilliaco, anche se i legami che da lei scaturiscono sono comunque incancellabili, nel bene e nel male. Non serve mettere distanza fisica tra noi e quei legami e nemmeno ammucchiare dentro una vecchia valigia i ricordi scomodi...

Segreti di famiglia (Usa, Argentina, Spagna, Italia, 2009)
Regia: Francis Ford Coppola
Sceneggiatura: Francis Ford Coppola
Cast: Vincent Gallo, Alden Ehrenreich, Maribel Verdù, Klaus Maria Brandauer
Distribuzione: Bim
 

 

 

 

di Roberta Folatti

 

Italietta grottesca

Le intenzioni erano senz’altro buone ma il film di Luciano Melchionna, il secondo lungometraggio della sua carriera, raggiunge solo in parte gli obiettivi che si era prefisso. La commedia grottesca Ce n’è per tutti finisce per essere un aggregato di gag, alcune decisamente sopra le righe, fastidiose e molto – troppo – prevedibili. E’ lecito, anzi, è quasi doveroso, per un autore innovativo che viene dal teatro, mettere alla berlina lo strapotere della tivù che inculca massicce dosi di nulla nelle vite di ciascuno di noi, ma il modo scelto da Melchionna in certe parti appare poco originale. In primis nella parodia della cinica conduttrice televisiva, interpretata da una Anna Falchi ultravolgarizzata, o nell’immagine della gente attratta da una telecamera che fruga, che si insinua attraverso il buco della serratura, che violenta.


L’idea di una scena divisa in due, in basso la superficialità e il cicaleccio inutile, in alto, dove sale il protagonista, un mondo più rarefatto e profondo, non è male. Il passaggio e l’alternarsi tra alto e basso funziona, rende dal punto di vista drammaturgico. Sopra, in cima al Colosseo, Gianluca e sua nonna si parlano con dolcezza e complicità, comprendendosi nell’intimo, senza urlare, senza aggredirsi, sotto tutti alzano la voce incapaci di ascoltarsi, nessuno sa cosa vuole e si agita alla cieca, ferendo gli altri, spesso inconsapevolmente. L’inqualificabile “cagnara” è descritta in modo efficace, anche se certi personaggi potevano essere meno stereotipati. Il regista situa il proprio film nel solco della commedia all’italiana, ma si ispira a De Sica padre o a De Sica figlio?


Gianluca che, col suo gesto silenzioso ma alla resa dei conti assordante, è salito sul Colosseo per estraniarsi da un mondo vacuo, volgare, ancora più incattivito dalla crisi economica, ha un animo nobile e sensibile: ci si chiede come faccia ad essere amico di gente come Bruno, Eva, Mauro e soprattutto come possa aver pensato di far l’amore con la psedoattrice, forse il personaggio meno riuscito del film. Certo, la sceneggiatura punta a rendere caricaturali quei giovani che si arrabattano in un mondo sull’orlo del grottesco, ma allora che ci fa, accanto a loro, uno come Gianluca, che scrive poesie, è sempre disponibile a dare una mano, non accetta compromessi lavorativi?


Se la regola è quella che sembra imporsi in ogni angolo di una Roma così insopportabilmente volgare, allora la scelta finale di Gianluca è necessaria, inevitabile. Scontata...

Ce n’è per tutti (Italia, 2009)
Regia: Luciano Melchionna
Sceneggiatura: Luca De Bei, Luciano Melchionna
Fotografia: Tarek Ben Abdallah
Cast: Lorenzo Balducci, Ambra Angiolini, Stefania Sandrelli, Anna Falchi, Giorgio Colangeli
Distribuzione: Medusa

 

 

 

di Roberta Folatti 

Satira antibush in salsa surreale

Solo George Clooney e il suo entourage potevano realizzare un film così, sembra cucito addosso a loro. Per l’argomento e per la maniera di svilupparlo, tra ironia e critica politica, quest’ultima sostanziosa ma travestita di leggerezza. L’uomo che fissa le capre non andrebbe raccontato perchè le sorprese vengono proprio dal dipanarsi della trama in un crescendo di situazioni al limite del grottesco. Ma la sorpresa più grande è scoprire che la storia raccontata nel film è vera, gli americani per un certo periodo hanno creduto veramente di essere in grado di acquisire poteri telepatici talmente forti da dominare e vincere una guerra. Solamente con quelli, abbandonando le armi più letali.

La spinta iniziale venne dalla rincorsa alle (presunte) ricerche russe che si diceva  fossero molto avanti nel campo dei poteri paranormali. Potevano gli americani farsi surclassare dall’Impero del male? E sull’onda dell’entusiasmo tipicamente yankee arrivarono a immaginare di costituire un esercito composto di gente che leggeva nel pensiero, che attraversava i muri, che all’occorrenza diventava invisibile. Questo battaglione venne battezzato First Earth Battalion, la responsabilità affidata a un tenente colonnello che aveva fatto pratica nell’ambito del movimento New Age.

La vicenda è ricostruita nel libro di Jon Ronson, dal quale è stata tratta una sceneggiatura che è finita nelle mani di Clooney e del suo socio nella “Smoke House”, già produttrice di “Good night and good luck” e “In amore niente regole”. Ne sono rimasti talmente entusiasti che Grant Heslov ha deciso di dirigere il film (si tratta della sua prima esperienza da regista) e a Clooney è andato il ruolo da protagonista. Ruolo che gli calza a pennello con le sue sfumature gigionesche su una base di personaggio positivo. Si potrebbe definire l’eroe buono anche se un tantino maldestro, che insieme al flemmatico Jeff Bridges e con il supporto esterno del pavido Ewan McGregor rappresentano il versante ingenuo, generoso e pacifista dell’esercito americano. Invece quello cattivo che da chi poteva essere incarnato se non da Kevin Spacey?

Con questo po’ po’ di “dotazione attoriale”, “L’uomo che fissa le capre” è già a buon punto, se si aggiunge una sceneggiatura che sprizza ironia da tutti i pori e un fondo serio di denuncia sociale, direi che il successo del film è praticamente assicurato. Ingrediente ulteriore e un po’ eccentrico, le capre, causa di un immutabile senso di colpa nel mite Clooney che non si perdona di averne uccisa una con la forza dello sguardo... Le situazioni surreali si moltiplicano e il simpatico attore, ormai mezzo italiano, trova la giusta misura per essere irresistibilmente comico e al tempo stesso consapevole. Viene a galla un’America, quella di Bush e delle sue teorie sull’esportazione della democrazia, molto inquietante, che calpesta diritti e si sente in qualche modo autorizzata a fare cose illecite. Meno male che ora c’è Obama!

L’uomo che fissa le capre (Usa, 2009)
Regia: Gran Heslov
Sceneggiatura: Peter Straughan
Fotografia: Robert Elswit
Cast: George Clooney, Jeff Bridges, Ewan McGregor, Kevin Spacey
Distribuzione: Medusa

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 di Roberta Folatti

Ribaltamenti emotivi


Se ha un difetto La doppia ora è quello di essere troppo carico di idee, suggestioni, richiami. Gli spunti della trama si sovrappongono creando un gioco di specchi affascinante che dà alla pellicola un’aura di inquietudine, di malinconica sospensione. I piani della realtà si moltiplicano, mescolandosi e ingannando lo spettatore.


Il protagonista maschile del film, interpretato da Filippo Timi, quando sull’orologio si verifica la coincidenza di una doppia ora (06.06, 12.12, 23.23) rimane sempre sconcertato, come se quel dettaglio dovesse per forza riportare ad altro, racchiudere un misterioso significato. Questo sconcerto finisce per avvolgere l’intera storia, i personaggi sono immersi in una specie di nebbia che a tratti si dissolve per poi riformarsi più spessa.


L’opera prima di Giuseppe Capotondi si apre su un momento di socialità artefatta, una serata di speed dating, durante la quale ci si conosce attraverso incontri combinati e brevi colloqui a rotazione. Espedienti per single alla ricerca di compagnia.


Guido rimane colpito dalla bionda Sonia e quando decide di contattarla riscontra molto entusiasmo da parte sua. Sono entrambi timidi e poco loquaci ma sembra nascere una vera comprensione fra loro. Il percorso di conoscenza viene bruscamente interrotto da un fatto violento, una rapina nella villa dove Guido lavora come custode. Da quel momento tutto cambia, le carte in tavola vengono mescolate più volte, realtà e sogno si confondono in un bel crescendo di tensione.


Forse non tutti i fili si ricongiungono perfettamente però “La doppia ora” riesce a coinvolgere con ribaltamenti di scena prima di tutto psicologici, interiori. I protagonisti sono diversi da come sembrano, e anche i cattivi hanno delle sfumature di fragilità. L’attrice russa Ksenia Rappoport, che interpreta Sonia  è stata premiata a Venezia con la Coppa Volpi sbaragliando una concorrenza agguerrita. Notevole la sua capacità di disegnare sul volto della protagonista una gamma di sensazioni inafferrabili, una volubilità appena accennata, sottotono, quasi dimessa. Un contributo all’atmosfera inquieta viene sicuramente anche dalle musiche di Pasquale Catalano.

La doppia ora (Italia, 2009)
Regia: Giuseppe capotondi
Sceneggiatura: Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo
Musiche: Pasquale Catalano
Cast: Ksenia Rappoport, Filippo Timi, Giorgio Colangeli, Lucia Poli
Distribuzione: Medusa

 

 

 di Roberta Folatti

Un Festival di provincia trasformato in un raduno oceanico


Chi se l’aspettava che Woodstock, il raduno di figli dei fiori più famoso della storia, fosse nato così, quasi per caso... Spostato dalla località prescelta dagli organizzatori ai terreni intorno a Bethel, un piccolo villaggio a una sessantina di chilometri da New York, grazie alla decisione avventata del proprietario di un motel decrepito...


Motel Woodstock di Ang Lee è un film piacevole, divertente, arguto; il celebre Festival, che ebbe come ospiti tra gli altri Jimi Hendrix, Joan Baez, Janis Joplin, è raccontato da un punto di vista molto particolare. La sceneggiatura è basata sull’autobiografia di Elliot Tiber, in un certo senso l’artefice del megaraduno musicale e pacifista. Senza di lui infatti l’evento sarebbe probabilmente saltato visto che gli abitanti della località scelta per ospitarlo si erano tirati indietro, spaventati di fronte alla prospettiva di un’invasione di hippy. Si temeva che potessero arrivare in 100.000, alla fine superarono il mezzo milione!


Il protagonista del film è dunque Elliot, figlio di una sgangherata coppia di ebrei russi che gestisce un motel perennemente sull’orlo del fallimento. Lui si sente responsabile e non riesce ad abbandonare i genitori al proprio destino così finisce per trascurare la sua carriera di decoratore al Greenwich Village. Soprattutto in estate passa il suo tempo a inventarsi espedienti per risollevare le sorti del motel di famiglia. E con l’idea forse balorda di dirottare sul suo villaggio gli organizzatori del Festival riuscirà a ripianare tutti i debiti di mamma e papà.


L’arrivo di quella massa di persone, che mettono sottosopra la vita del sonnacchioso paesello, cambia la vita di Elliot anche dal punto di vista personale, il giovane prende coscienza della sua omosessualità e riesce finalmente a vedere la madre nella sua vera luce. Egoista, avara fino alla paranoia, dominata da paure che risalgono alla sua fuga dall’Unione Sovietica. Dopo aver capito questo Elliot si sentirà libero di lasciare Bethel e di intraprendere la sua strada senza rimorsi. Il festival con la sua carica rivoluzionaria, con l’eco strepitosa che ebbe nella generazione dei figli dei fiori rimane in secondo piano, diventa lo sfondo delle vicende familiari di Elliot.


Ang Lee ha sfruttato con abilità il buget sostanzioso che i produttori gli hanno messo a disposizione, la sensazione è quella di assistere dal backstage, o meglio da una porta sul retro, a qualcosa di irripetibile. Centinaia di migliaia di giovani, uniti dagli stessi ideali e dal medesimo approccio alla vita (in parte filtrato dalle droghe), ammassate pacificamente in un luogo che fino a quel momento aveva conosciuto solo i ritmi lenti dell’agricoltura: questo è l’incredibile scenario ricreato dal regista cinese. Con molte pennellate ironiche e una buona dose di tenerezza.


Quasi ci si commuove davanti a quei ragazzi così ingenui nelle loro passioni totalizzanti, così “love&peace” e sembra davvero che un abisso li separi dai giovani d’oggi e dalla società sfrenatamente consumista del terzo millennio. D’altra parte anche Woodstock fu un gigantesco business (il film descrive anche questo aspetto) e quei ventenni riuniti a Bethel con ideali pacifisti sono gli stessi che hanno contribuito a costruire il mondo com’è oggi...

Motel Woodstock (Usa, 2009)
Regia: Ang Lee
Sceneggiatura: James Schamus
Musiche: Danny Elfman
Cast: Demetri Martin, Paul Dano, Imelda Staunton, Kelli Garner, Liev Schreiber
Distribuzione: Bim

 

 

 


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