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di Roberta Folatti
Il giorno più lungo
La morte arriva per conto suo, spesso sul più bello, non gradisce che la si convochi, ama sorprendere. E può succedere che quando la si sta cercando, qualcosa o qualcuno si frapponga ad essa, scompigliando le carte. Tra la voglia di morire e l’amore ritrovato per la vita c’è solo un lievissimo scarto.
E’ di questo scarto che racconta A single man, la prima opera cinematografica di Tom Ford. Lo stilista, l’uomo fashion per eccellenza ha tratto un bel film dal romanzo di Christopher Isherwood. (Dello stesso scrittore vi consiglio “Mr Norris se ne va”)
Ambientato nei primi anni ’60, è la storia di un professore che perde il suo giovane compagno in un incidente stradale e si rende conto di non essere capace di continuare da solo. Programma così, fin nei dettagli, il suo suicidio e si prepara a vivere la sua ultima giornata. Ogni cosa ha più spessore se guardata per l’ultima volta, gli si imprime nella mente e negli occhi, suscita in lui ricordi dolci e amari di quando condivideva col compagno pensieri, emozioni, stimoli. Tom Ford firma un’opera matura, per molti versi sorprendente, che commuove e suscita interrogativi, che affonda il coltello nella carne viva, nei sentimenti e nelle paure del protagonista.
Eppure c’è qualcosa che di tanto in tanto spezza l’incantesimo, riportandoci im modo fastidioso alla professione d’origine dell’autore della pellicola. Una tendenza estetizzante che se, come sfondo del film non disturba anzi riconcilia mettendo al bando la volgarità, a tratti appare eccessiva, sembra prendere la mano a Ford. E’ tutto perfetto, ogni personaggio, comprese le comparse, è elegantissimo, di bell’aspetto, ogni ambiente è arredato con estremo gusto, le case sono degne di una rivista di architettura. Come se Ford non tollerasse di inquadrare qualcosa di dozzinale, qualcuno o qualcosa che non rispetti i suoi canoni estetici. La prova più evidente è la scena dell’incontro tra il professore e il bel madrileno, fuori dal supermercato: sembra di essersi trasferiti sul set di uno spot pubblicitario, il giovane assomiglia molto di più a un modello del terzo millennio che a un personaggio degli anni ’60.
Al di là di questo “dominio estetico”, il film è riuscito, Colin Firth non delude e la vicenda del rigido George, che nasconde dietro una vita metodica abissi di sensibilità, incide una traccia profonda in chi se ne lascia invadere.
A single man (Usa, 2009)
Regia: Tom Ford
Sceneggiatura: David Scearce, Tom Ford
Fotografia: Eduard Grau
Costume: Arianne Phillips
Cast: Colin Firth, Julianne Moore. Matthew Goode
Distribuzione: Archibald
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di Roberta Folatti
Prima o poi si deve atterrare...
Tra le nuvole è una commedia raffinata e pungente, forse la cosa meno azzeccata è il titolo, che dà l’idea di qualcosa di dozzinale, della solita americanata senza nerbo. Ma Jason Reitman non è un regista qualunque, nel suo curriculum comparivano già due film riusciti (“Juno” e “Tank you for smoking”) per cui era lecito aspettarsi una terza prova convincente.
Se a un buon direttore si aggiunge un’orchestra decisamente intonata, il grosso del lavoro è fatto. E George Clooney è davvero in forma magistrale, l’uomo più adatto a interpretare il protagonista di “Tra le nuvole”, un “tagliatore di teste” pieno di fascino che malgrado il lavoro ingrato riesce a non farsi disprezzare dalle sue “vittime” anzi è capace di rimotivarle, tanto che alcune di esse lo ringraziano per i consigli dispensati. E lui, in qualche modo,sembra essere partecipe dei drammi che gli si snodano sotto gli occhi o semplicemente ha trovato la giusta formula per approcciarsi ai neodisoccupati.
Una scelta interessante è stata quella di inserire nel film le testimonianze autentiche di persone che hanno perso il lavoro nell’ultimo periodo di crisi, il regista la spiega così: "Volevamo che le scene dei licenziamenti fossero il più possibile veritiere perciò abbiamo pensato “Perché non riprendiamo la realtà?”. Lo scorso anno ci siamo recati a Detroit e a St. Louis, le due città più colpite dalla disoccupazione e abbiamo pubblicato annunci diffondendo la notizia che stavamo facendo un film su questo argomento e stavamo cercando gente disposta a parlare della propria esperienza. Abbiamo ricevuto tantissime risposte ed è stato molto triste e commovente. Ogni giorno i mass- media ci comunicano notizie di tagli di posti di lavoro ma spesso si parla di numeri e quindi è facile dimenticare che si tratta di esseri umani. La cosa di cui sono più orgoglioso è che il film finalmente dà un volto a questi numeri".
Ryan Bingham, interpretato da Clooney, è dunque perennemente in viaggio da un capo all’altro dell’America per portare la “triste novella” a impiegati e operai. Alla fine trascorre più ore della sua vita in volo che sulla terraferma tanto che decide di disdire l’affitto di casa sua, destinata a rimanere quasi sempre disabitata. Le sue abitudini vengono destabilizzate il giorno in cui una giovane collega conquista le attenzioni della dirigenza con un progetto di ottimizzazione dei costi che punta ad eliminare gli spostamenti, facendo lavorare i “tagliatori di teste” in videoconferenza.
Per Ryan si profila un cambiamento radicale di stile di vita e questo lo spaventa, anche perché a terra non ha punti di riferimento, affetti consolidati, interessi che possano riempirgli il tempo libero riconquistato. Quest’aria di rinnovamento va in parallelo con la frequentazione di una donna affascinante (conosciuta naturalmente tra un aeroporto e un hotel di lusso), in qualche modo il suo corrispettivo femminile, pure lei viaggiatrice e assorbita dal lavoro: si rincorrono facendo collimare impegni e spostamenti, tra loro c’è ironia e passione, nessuno dei due da principio si sbilancia più di tanto.
L’incontro di Ryan con questi due personaggi corroderà in modi del tutto imprevisti le sue granitiche certezze, portandolo a concepire per la prima volta il desiderio di una stabilità sentimentale. Il nuovo film di Reitman scorre piacevolmente con dialoghi brillanti, ben scritti, che scavano nella psicologia dei personaggi con una sfavillante superficialità. Il tema della perdita del lavoro rimane una costante, un sottofondo con una sua forza specifica. Il risultato è un ottimo mix di commedia e aspetti più amari, la fotografia di una società dotata dei mezzi più avanzati per comunicare che però ha disimparato a comunicare davvero.
Tra le nuvole (Usa, 2009)
Regia: Jason Reitman
Sceneggiatura: Jason Reitman, Sheldon Turner
Basata sul romanzo di Walter Kirn
Fotografia: Eric Steelberg
Cast: George Clooney, Vera Farmiga, Anna Kendrick
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
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di Roberta Folatti
I tempi lunghi dell'amore
A Camilla e Silvestro servono dieci inverni e un bel po’ di errori prima di capire quel che a noi spettatori salta all’occhio fin dall’inizio... Val la pena di non lasciarsi sfuggire questa piccola produzione italo/russa, un film lieve e profondo che parla di vite normali che si intersecano per poi divergere e, come accade spesso, finiscono per correre su binari paralleli per troppo tempo.
Siamo in una Venezia “spiata” da prospettive insolite, poco pittoresche forse, ma ugualmente suggestive. Se amate l’ambiente lagunare anche nei suoi aspetti vagamente decadenti (senza arrivare agli estremi de “La morte a Venezia”), non perdetevi Dieci inverni diretto da Valerio Mieli: si scoprono angoli della città assolutamente inediti, fuori dai comuni passaggi turistici. Il film che vi consiglio di recuperare, rimandando per una sera avatar e prime cose belle, ha una trama ben costruita, credibile, in cui è facile idetificarsi. Quante volte succede che i tempi fra due persone non si decidano a coincidere e che un feeling anche smaccato resti continuamente inespresso? Sospeso, trascurato, reso evenescente dalla timidezza...
Camilla e Silvestro si incontrano per la prima volta sul traghetto che collega le varie isole veneziane, lui è piuttosto sfacciato, quasi aggressivo, lei impacciata ma cordiale. Finiscono per dormire nello stesso letto, non tanto per attrazione ma per difendersi dal freddo, l’imbarazzo impedisce qualunque ulteriore avvicinamento. Essendosi trasferiti entrambi a Venezia per frequentare l’Università, si rincontrano spesso, per un periodo fanno parte della stessa compagnia ma quando uno dei due è libero, l’altro sta inseguendo un suo sogno, è distratto e intigrato da qualcosa. Camilla dopo la laurea in slavistica, si trasferisce a Mosca per due anni, trattenuta dalla storia con un regista teatrale. Silvestro ha varie fidanzate e segue il suo progetto botanico/pedagogico.
La vita di questi due ragazzi è raccontata con garbo e autenticità, sottolineando i loro spaesamenti, i momenti di solitudine, la paura ad aprirsi. La difficoltà di sentirsi adulti, traguardo che non coincide necessariamente con la maternità: Camilla ha una bambina da un amico di Silvestro ma questa esperienza per lei sembra più negativa che positiva, almeno da principio. Crescere è complicato e i ragazzi di oggi hanno pochi punti di riferimento, alla fine l’amicizia/amore tra Camilla e Silvestro si rivelerà una vera bussola nel percorso di entrambi.
Rimanendo nell’ambito dei piccoli film italiani, distribuiti un po’ a singhiozzo, vi consiglio anche il documentario Debito d’ossigeno diretto da Giovanni Calamari.
Dieci inverni (Italia, Russia 2009)
Regia: Valerio Mieli
Sceneggiatura: Valerio Miali, Davide Lantieri, Isabella Aguillar
Musiche: Francesco De Luca, Alessandro Forti
Cast: Isabella Ragonese, Michele Riondino, Glenn BlackHall
Distribuzione: Bolero
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di Roberta Folatti
Cibo, musica, amici = “heimat”
Cucinare con passione, senza trafelatezze, cercando di curare i dettagli, è un modo di volersi bene. E di voler bene a chi ci sta vicino.
Ma quando il ristorante di Zinos, cittadino di Amburgo di origini greche, passa da un menù a base di hamburger e patatine fritte alle sapienti creazioni del cuoco Shayn, i frequentatori abituali ci rimangono malissimo. I piatti raffinati proposti dal nuovo “padrone” della cucina risultano incomprensibili, e persino indigesti, ai rozzi palati dei vecchi clienti. Si sa che molta gente è restia ai cambiamenti, anche a quelli che virano verso il meglio, così il Soul Kitchen rischia di fallire.
Il regista turco Fatih Akin racconta una storia ispirata alle vicende del suo amico Adam Bousdoukos, che è anche uno dei suoi attori “feticcio”e non a caso interpreta proprio Zinos. L’apertura di una taverna greca che ben presto divenne una vera “heimat”, intesa come luogo della famiglia e degli amici, fu un’esperienza molto intensa per tutta per la cerchia di conoscenze di Akin e Bousdoukos. "Per noi – spiega il regista – era più di un ristorante, era un luogo di avventura, un serbatoio di raccolta, un posto dove festeggiare, una casa. In “Soul Kitchen” volevo catturare l’atmosfera e lo stile di vita che ho strettamente associato alla Taverna greca e a quel periodo."
Per il protagonista del film il lavoro è una vera passione che porta con sé l’amore per la musica, diffusa nel locale attraverso uno stereo e poi anche con concerti dal vivo, la voglia di socialità e anche qualche eccesso alcolico. Vita e lavoro uniti in un progetto che procede in parallelo, se non fosse per Nadine, la donna con cui Zinos ha una storia, che improvvisamente parte per Shanghai, lasciandolo in sospeso. Altri problemi vengono dagli speculatori che vorrebbero acquistare il locale situato in una zona operaia ormai dismessa che fa gola a molti. Sarà proprio l’incontro con un vecchio compagno di scuola, apparentemente amichevole ma in realtà interessato solo ad appropriarsi del capannone che ospita il Soul Kitchen, a scatenare una serie di eventi che porteranno sull’orlo del disastro. Zinos per sua fortuna scoprirà di avere parecchi amici, persone che, pur con mille difetti, tengono a lui. E i problemi di schiena che lo assillano per tutta la durata del film finiranno per condurlo verso il vero amore della sua vita…
Divertente, malinconico, pieno di ottima musica e di vigore, con un tocco di critica sociale (contro la cosiddetta “gentrificazione”, la politica di trasformare i vecchi quartieri operai in zone residenziali borghesi alla moda), “Soul Kitchen” fa cominciare bene l’anno ai cinefili. Buona visione…
Soul Kitchen (Germania, 2009)
Regia: Fatih Akin
Sceneggiatura: Fatih Akin, Adam Bousdoukos
Suono: Kai Lüde
Scenografia: Tamo Kunz
Cast: Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu, Anna Bederke, Birol Unel
Distribuzione: Bim
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di Roberta Folatti
L’insolito duo
Sherlock Holmes e il dottor Watson si sono materializzati centinaia di volte, uscendo dalle pagine del loro creatore Arthur Conan Doyle. In questo caso i due possiedono gli sguardi ironici, sornioni, disincantati di Robert Downey Jr. e di Judd Law. La loro incarnazione in una coppia sgangherata, litigiosa, non priva di gelosie è forse la cosa più riuscita del nuovo film di Guy Ritchie.
Fino ad ora si era privilegiato un Sherlock Holmes compassato, razionale, senza sbavature emotive: l’interpretazione che ne dà Downey Jr. è praticamente ribaltata. L’investigatore più celebre del mondo è – passatemi il termine – un casinista, incapace di incanalare nel modo più opportuno la sua genialità, che passa le giornate barricato in casa a verificare teorie e a tentare improbabili esperimenti oppure esce per incontri di lotta libera in cui il pubblico lo dà per perdente. Gracilino com’è, lo salva solo il suo cervello che anticipa strategie difensive e programma attacchi a sorpresa. Nella pellicola di Ritchie, Holmes e Watson danno e ricevono tante di quelle botte, scampano a tanti di quegli agguati – scenograficamente notevoli anche se alla fine un po’ ripetitivi – da sembrare due eroi alla Indiana Jones.
Questa versione “virile” dei due personaggi letterari, che li rende difficilmente imbrigliabili anche da un punto di vista fisico, è l’aspetto meno credibile, ed è anche fonte di una certa noia. Scazzottate e inseguimenti finiscono per essere sovrabbondanti rispetto alle indagini e alle intuizioni puramente intellettive. Non si sa se Conan Doyle si rivolterebbe nella tomba o se si farebbe una risata, rimane comunque legittimo che, partendo dal prodotto creativo di uno scrittore, ci si avvii su strade personali. Gli sceneggiatori in questo caso avrebbero potuto fare un’ulteriore sforzo.
Da parte sua Ritchie non si discosta dalle sue peculiarità e trasforma la storia di Holmes e Watson opposti al terribile lord Blackwood in un’avventura spettacolare, molto fisica, anche se le deduzioni investigative basate sui più microscopici indizi non mancano.
La coppia detective/dottore si ritrova nel bel mezzo di una congiura che mira a mettere sotto scacco non la sola Inghilterra ma il mondo intero. Holmes e Watson scopriranno, tra mille peripezie, cosa si nasconde dietro una sequenza di delitti in apparenza legati alla magia nera. Nel privato intanto il dottore sta per convolare a nozze abbandonando la convivenza con Holmes che è palesemente geloso della futura sposa. I battibecchi e gli screzi fra i due sono una delle componenti più divertente del film, Downey e Law danno una prova convincente, soprattutto il primo. Il dottor Watson è deciso a coronare la sua storia d’amore ma è anche attratto dalla sete di avventura del compagno di tante indagini. Ironia, spavalderia, senso dell’umorismo abbondano, i dialoghi in Sherlock Holmes sono decisamente brillanti, un po’ troppo contorta invece la matassa della trama. Gli scenari ottocenteschi, con una Londra ricostruita sia nei bassifondi che nelle stanze sontuose del Parlamento, sono di una bella suggestione. Ritchie si dimostra un abile intrattenitore, tra i film chiamiamoli di evasione, uno dei più dinamici della stagione.
Sherlock Holmes (Gran Bretagna, Australia, Usa, 2009)
Regia: Guy Ritchie
Fotografia: Philippe Rousselot
Montaggio: James Herbert
Costumi: Jenny Beavan, Melissa Meister
Cast: Robert Downey Jr., Judd Law, Eddie Marsan, Mark Strong
Distribuzione: Warner Bros