di Michele Paris

Con un annuncio a sorpresa durante un discorso tenuto presso una base dell’aeronautica militare in Maryland, Barack Obama ha manifestato l’intenzione di aprire vaste aree costiere degli Stati Uniti alle trivellazioni private per la ricerca di petrolio e gas naturale. La decisione del presidente americano rappresenta un clamoroso voltafaccia rispetto a quanto aveva strenuamente sostenuto nel corso della campagna elettorale per la Casa Bianca nel 2008, quando la questione aveva fatto irruzione nel dibattito politico in seguito alle punte record toccate dal prezzo del petrolio.

Immediata e durissima è stata la reazione degli ambientalisti, ma anche di molti parlamentari democratici, preoccupati per una scelta di politica energetica che rischia di mettere a repentaglio gli sforzi finora compiuti per passare ad un sistema produttivo finalmente fondato su un’energia pulita.

Nel corso di una conferenza stampa in Florida da candidato alla presidenza, Obama due anni fa aveva risposto molto duramente alla campagna orchestrata dal Partito Repubblicano per aumentare la produzione interna di petrolio. Aprire le zone costiere alle esplorazioni avrebbe prodotto gravi “conseguenze a lungo termine ma nessun beneficio a breve scadenza”, dal momento che sarebbero stati necessari “almeno dieci anni per ricavare quantità significative di petrolio”. Inoltre, sempre secondo l’allora senatore dell’Illinois, “le trivellazioni off-shore non contribuirebbero a ridurre il prezzo della benzina né oggi, né domani, né quest’anno, né tra cinque anni”. Una volta conquistata la presidenza, infine, la promessa solenne era quella di “mantenere la moratoria sulle trivellazioni sia in Florida sia nel resto del paese, per impedire alle compagnie petrolifere di sfruttare i giacimenti esistenti al largo delle coste americane”.

Nonostante le mire decennali delle multinazionali del petrolio su queste aree costiere, il Congresso USA nel 1981 aveva approvato una moratoria che riguardava le aree al largo della costa atlantica e di quella del Pacifico, così come la Bristol Bay in Alaska sud-occidentale, una regione dall’ecosistema estremamente fragile. Il divieto era stato successivamente prorogato dai presidenti George H. W. Bush e Bill Clinton, per poi finire nel mirino del predecessore di Obama sul finire del suo mandato nel 2008. Alla rimozione della moratoria voluta da Bush jr. erano però seguite numerose cause legali, tanto che i progetti di nuove trivellazioni erano stati accantonati dalla nuova amministrazione ad inizio 2009. Ora, invece, la nuova accelerazione promossa dallo stesso Obama.

Alcune delle zone coinvolte dal progetto di esplorazione saranno aperte alle trivellazioni per la prima volta in assoluto. Le aree interessate coprono una superficie marina di quasi 700 mila chilometri quadrati, più altri 520 mila chilometri quadrati in Alaska. Le valutazioni della Casa Bianca e del Dipartimento degli Interni - il cui responsabile, l’ex senatore del Colorado Ken Salazar, è molto vicino alle compagnie petrolifere - hanno risposto a criteri non solo geologici ma anche e soprattutto di carattere politico. La motivazione principale che sta dietro a questa decisione di Obama appare infatti legata alla necessità di raccogliere consensi bipartisan attorno alla legge sul contenimento delle emissioni in atmosfera approvata l’anno scorso dalla Camera dei Rappresentanti e ferma da mesi al Senato.

Dal momento che sia la nuova legge sia la questione delle trivellazioni off-shore risultano però molto controverse, è stato necessario districarsi tra veti e pressioni varie del mondo politico ed imprenditoriale americano. Ad esempio, significative sono le aree costiere escluse dai progetti di esplorazione. Esse comprendono la costa del Pacifico, dove le riserve petrolifere sono modeste e l’opposizione a eventuali trivellazioni quasi unanime; la costa atlantica che va dal New Jersey verso nord fino al confine con il Canada, dove ugualmente i politici locali hanno espresso forti riserve; alcune aree cuscinetto al largo della costa orientale della Florida, per le quali un senatore democratico si era detto molto preoccupato, trattandosi di spazi dove si svolgono regolarmente esercitazioni miliari.

Un’altra regione aperta ai sondaggi sarà poi la porzione orientale del Golfo del Messico, dove è stimata la presenza di circa 4 miliardi di barili di petrolio e quasi 2 mila miliardi di metri cubi di gas naturale. Anche qui però l’attività estrattiva non è vista di buon occhio, soprattutto in Alabama e Florida. Come altrove, i timori riguardano possibili danni alle coste, alla pesca, alla fauna marina e alla stessa industria turistica. Il Dipartimento degli Interni da parte sua ha provato a rassicurare le autorità dei vari stati interessati, assicurando che le trivellazioni saranno consentite solo ad una distanza di oltre 300 chilometri dalle coste, rendendole perciò invisibili dalla terraferma.

Se il regalo di Obama alle compagnie petrolifere comporterà ingenti profitti per queste ultime nel breve periodo, tutt’altro che certo appare l’obiettivo di svincolare l’approvvigionamento energetico statunitense dalle forniture estere. Secondo le stime dello stesso Dipartimento degli Interni, anche se in alcuni casi basate su rilevazione vecchie di trent’anni, le riserve presenti al largo delle coste sarebbero sufficienti a coprire il fabbisogno americano di petrolio pari a tre anni. Poco più di due anni invece per quanto riguarda il gas naturale, ovviamente al ritmo dei consumi attuali.

La prima asta per l’aggiudicazione dei diritti di esplorazione potrebbe giungere già il prossimo anno e riguarderà un’area al largo della Virginia – i cui due senatori democratici sono entrambi entusiasti sostenitori delle trivellazioni – che aveva già ricevuto l’approvazione governativa per l’inizio dei lavori. Altrove, invece, bisognerà attendere alcuni anni prima che il Dipartimento degli Interni porti a termine i propri studi geologici e ambientali. Per i tratti di costa che verranno valutati idonei alle esplorazioni, si procederà con le dovute aste, non prima del 2012 secondo fonti ufficiali.

L’iniziativa di Obama sulle trivellazioni off-shore non rappresenta purtroppo un caso isolato nel suo singolare sforzo di trasformare gli Stati Uniti dal maggiore inquinatore dell’ambiente globale ad un paese che rispetti i limiti di emissione auspicati dalla comunità ambientalista internazionale. Così come era accaduto solo poche settimane fa con il rilancio del nucleare civile, il presidente americano ha infatti giustificato quest’ultimo progetto di espansione delle attività petrolifere come un passo importante verso l’efficienza energetica del suo paese.

Per raccogliere consensi su un provvedimento che intende tagliare le emissioni in atmosfera, l’amministrazione Obama è disposta insomma ad espandere un’attività che rappresenta precisamente la principale fonte di inquinamento ambientale. Un’amara ironia che di certo non sfuggirà a quanti si apprestano a combattere al Congresso per l’approvazione di una legge che negli ultimi mesi ha già dovuto subire numerosi assalti da ogni parte per ridurre il più possibile le conseguenze sulle grandi aziende inquinatrici.

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