di Ilvio Pannullo

Per alcune ore, l'incubo di una nuova “marea nera” è tornato ad impaurire gli abitanti della Louisiana. Dopo il disastro della BP, sempre nel Golfo del Messico è scoppiata una nuova piattaforma petrolifera, la Vermilion Oil 380, di proprietà della Mariner Energy. Per fortuna, questa volta gli operai a bordo della piattaforma, in tutto 13, sono riusciti a salvarsi tuffandosi in mare. La nuova esplosione ha naturalmente preoccupato le associazioni ambientaliste statunitensi e Michael Brune, il direttore di Sierra Club, la più grossa Ong ecologista Usa, ha subito affermato: «I nostri cuori si rivolgono ai lavoratori coinvolti in questo disastro e alle loro famiglie. Questo è il secondo incidente negli ultimi mesi che ha scagliato i lavoratori del petrolio in acqua, e alcuni di loro non li ha mai restituiti.

L'industria petrolifera continua ad inveire contro la sua regolamentazione, ma è diventato fin troppo chiaro che l'attuale approccio alla perforazione in mare aperto è semplicemente troppo pericoloso. Non abbiamo bisogno di mettere i lavoratori americani e le nostre acque in pericolo perché le multinazionali petrolifere solo così possono battere i tutti i record di guadagno. Invece di proseguire nella pericolosa, sporca e antiquata perforazione in mare aperto, si potrebbe investire in energia pulita e in un sistema di trasporto del XXI secolo, che creerebbe posti di lavoro buoni e sicuri e infonderebbe nuova vita alla nostra economia.

Quanti disastri ci vorranno ancora perché i nostri leader si decidano ad agire? Non vogliamo vedere più un altro disastro petrolifero. Il disastro Bp avrebbe dovuto essere un allarme, invece si è premuto il pulsante della sveglia. Oggi la sveglia si è messa nuovamente in moto. Il petrolio è troppo pericoloso e sporco. È il momento di portare l'America fuori del petrolio e verso l'energia pulita e sicura».

In questo contesto desta un certo sconcerto sapere che, con un tempismo che nella migliore delle ipotesi desta sorpresa e nella peggiore desta perplessità. Proprio la BP, il 25 luglio, ha confermato le indiscrezioni del Financial Times: presto inizierà una serie di trivellazioni nel Golfo libico della Sirte. Si tratta di un accordo risalente al 2007 che prevede la trivellazione di cinque pozzi in acque profonde, a 1.760 metri di profondità, 200 più in giù di quella del pozzo Macondo nel Golfo del Messico.

Dalle dichiarazioni rese, la BP spenderà 900 milioni di dollari in un periodo di 7 anni nell’esplorazione di tre settori del golfo libico per un’area di 54 mila chilometri quadrati, situata a soli 600 chilometri dalla Sicilia. L’obiettivo sono i giacimenti di idrocarburi del pre-Oligocene la cui ultra-profondità pone delle sfide tecnologiche considerevoli e la cui perforazione potrebbe richiedere fino a sei mesi di tempo.

Il solo dato dovrebbe far riflettere quanti ancora credono che l’economia del petrolio sia prossima alla fine. Purtroppo i comportamenti schizofrenici delle masse e la miopia dei governanti stanno spingendo il pianeta verso un futuro che appare sempre più compromesso, nonostante siano in costante aumento i segnali della febbre di cui soffre la nostra Terra. L’annuncio della BP di nuove trivellazioni sul Mediterraneo arriva, infatti, a tre mesi dall’esplosione della piattaforma della Deep Water Horizon nel Golfo del Messico, che dal 20 aprile al 15 luglio ha causato una fuoriuscita di 4,9 milioni di barili (780 milioni di litri) di petrolio sospinto verso le coste della Louisiana.

Le immagini dell’immane catastrofe ambientale sono ancora negli occhi di tutti, ma probabilmente a mancare è la dimensione quantitativa del disastro. Per farsi un’idea delle dimensioni, la macchia nera fuoriuscita dal pozzo corrisponde grosso modo alla quantità di petrolio prodotta finora dal più grande campo petrolifero del nostro paese, quello della Val d'Agri in Basilicata. L’operazione static kill con la quale è stata arginata la perdita, ha utilizzato finalmente con successo una tecnica abituale per il settore petrolifero, ma mai sperimentata a quelle profondità e che richiede un minimo di 24 ore per essere portata a compimento. Alla fine, la BP ha annunciato una perdita di 32 miliardi di dollari connessa all’oil spill, solo 3 dei quali già sopportati.

Certe tragedie dovrebbero far riflettere: se si pensa al pianeta come ad una grande famiglia e alla specie umana come a chi ha le maggiori responsabilità - perché detentrice dei maggiori poteri - se ne deduce che il nostro comportamento è decisamente schizofrenico. Completamente scollegano dalla realtà. Come “genitori del pianeta” meriteremmo che ci venisse revocata la potestà genitoriale. Questo perché c'eravamo abituati fin da bambini ad aspettarci un futuro ricco di prosperità, benessere, un futuro radioso, strepitoso, un futuro in cui sofisticati macchinari superveloci e  autoveicoli sempre più efficienti ci avrebbero consentito di spostarci a grande velocità o addirittura volando nel cielo da una parte all'altra del paese.

Ci è stato fatto credere, grazie un sapiente bombardamento mediatico, che grazie al consumismo esasperato di massa ogni generazione sarebbe stata più ricca e benestante di quella che la precedeva. Ma siamo sicuri di questo? Siamo davvero sicuri che ci saranno risorse per tutti? La risposta è no: la verità è che la civiltà umana, all'inizio del nuovo millennio, si trova innanzi a un baratro di proporzioni inimmaginabili, almeno per l’uomo medio, oramai intontito dal dorato mondo di illusioni disegnato da calciatori e veline. La linfa che ha alimentato una fenomenale orgia energetica, consentendo alla nostra specie di proliferare a dismisura, si sta esaurendo.

Si sta cioè esaurendo quella variante di petrolio, il cosiddetto petrolio convenzionale (light sweet crude oil) sulla quale sino a oggi si è basata tutta l'evoluzione della civiltà umana, in tutte le sue forme. Nei prossimi cinque anni il greggio non sarà più disponibile in termini quantitativi tali da soddisfare completamente le richieste del mercato e di conseguenza non sarà più a buon mercato. Appare quasi ridicolo puntualizzarlo, ma talvolta anche l'ovvio può non risultare così scontato come si potrebbe pensare: viviamo in un pianeta dotato di risorse fossili definite che, se consumate ai ritmi che impone la moderna società industriale e consumistica, inevitabilmente sono destinate ad esaurirsi.

Ma cosa è accaduto di così pericoloso da aver aggravato lo scenario per i prossimi anni? Semplice, due grandi orsi, Cina ed India, sino a qualche anno fa in letargo industriale, hanno deciso di svegliarsi, favoriti in questo dalla follia globalizzatrice che anima quel superclan - la superclasse direbbe il premio nobel per l’economia Stiglitz - che siede sul ponte di comando del mondo. Due nuovi ed insaziabili concorrenti di Europa, America e Giappone, per l'accaparramento non solo delle risorse strategiche ma anche di stabilimenti, posti di lavoro, brevetti, capitali e risorse umane.

Da qui la corsa per nuove trivellazioni, alla disperata ricerca di quell’oro nero che difficilmente potrà essere sostituito nel suo ruolo di risorsa strategica essenziale. L’annuncio della BP deve essere letto anche come il chiaro segnale che ormai - vale proprio il caso di dirlo - si sta raschiando il fondo del barile. Se infatti si prevedono stanziamenti così ingenti per la realizzazione di nuove piattaforme in mare aperto, è solo perché di nuovi giacimenti di petrolio scoperti a terra oramai non si parla più da anni.  È allora il caso di domandarsi se vi sono dei fattori sistemici che possono produrre potenziali disastri come quello del GdM e come quello paventato nel Mediterraneo. In realtà ve ne sono due, uno legato all’altro.

Il primo è la sete di petrolio dell’economia mondiale, non solo del mondo occidentale. Oggi il mondo ingurgita, stante la depressa situazione economica, 84 milioni di barili di petrolio ogni giorno, in riduzione dagli 86 pre-crisi. Il 61 per cento di quest’ammontare se lo beve il settore dei trasporti, un settore in tendenziale continua crescita. L’Agenzia internazionale dell’energia prevede che il consumo mondiale di petrolio, in assenza d’interventi, passerebbe dalle 4093 Mtoe (milioni di “tonnellata equivalente di petrolio”) del 2007 alle 5009 nel 2030, continuando a risultare la fonte principale e con una quota percentuale sostanzialmente invariata. Se il mondo continua ad avere bisogno di energia, e di petrolio in particolare, allora è necessario assicurarne i rifornimenti.

In mezzo a speculazioni circa i picchi e l’esaurimento prossimo venturo delle riserve mondiali, accade che il 90 per cento di queste sia controllato dalle compagnie nazionali soprattutto dei paesi Opec, le cosiddette Noc (National Oil Companies) che tengono generalmente lontane o in posizione subalterna le grandi compagnie occidentali. Come conseguenza, Big oil deve andarsi a cercare il petrolio in zone più impervie e costose, dai campi ultra-profondi del Golfo del Messico e della costa occidentale dell’Africa, alle zone del Polo Nord e tra le sabbie oleose del Canada. Le oil majors sono per di più le uniche a possedere la tecnologia per questo tipo di operazioni.

E questo è il secondo fatto. La capacità produttiva in acque profonde (da 2000 piedi, o 610 metri, di profondità e oltre) a livello globale è triplicata dal 2000 ad oggi, ed è pari a più di 5 milioni di barili al giorno. I principali paesi interessati sono il Brasile (26 per cento), gli USA nel GdM (22 per cento), l’Angola (15 per cento) e la Nigeria (12 per cento). Seguono India (6 per cento), Egitto (5 per cento) e Norvegia (5 per cento). Le previsioni pre-disastro davano infine una capacità produttiva in crescita a 10 milioni di barili al giorno al 2015.

Appare chiaro che l’esplosione della piattaforma nel GdM ha enormemente accresciuto la preoccupazione per le possibili conseguenze di un analogo evento nel mar Mediterraneo. Se si verificasse un simile incidente, nel giro di un mese l’equilibrio ecologico ed ambientale del nostro mare sarebbe irreparabilmente devastato. La reazione è stata dunque quella di imporre e chiedere moratorie alle nuove trivellazioni. Il nostro ministro, Stefania Prestigiacomo, ha annunciato che non si potranno trivellare pozzi entro cinque miglia delle nostre coste (la linea su cui si attesta la maggioranza delle richieste di concessione) e a 12 miglia dalle aree marine protette.

Ma anche a livello europeo il commissario all’energia, Oettinger, ha proposto una serie di misure che comprendono una moratoria sulle nuove trivellazioni in attesa di fare piena luce su cause e responsabilità dell’incidente nel GdM, il rafforzamento dei livelli di prevenzione esistenti con regimi autorizzativi severi ed approfondite verifiche e controlli, il completamento dello stress test sulla legislazione esistente in materia, lo sforzo per unire le forze con i partner per rafforzare le norme internazionali e regionali esistenti.

Nonostante l’inopportuna replica dei portavoce della BP, secondo cui la società ha esperienza di queste cose da 45 anni (!) e non deve ricevere lezioni da nessuno, quello che l’incidente del pozzo Macondo ha dimostrato è che le oil majors, o per lo meno la Bp, hanno tecnologie e capacità idonee per estrarre petrolio in acque profonde, ma non la capacità e le tecnologie per rimediare ad una perdita di petrolio di grandi dimensioni in tempi rapidi o rapidissimi.

Cosa suggeriscono allora le considerazioni fatte finora? A parte le necessarie ed assolutamente opportune misure temporanee e di breve termine, è il mondo contemporaneo e così anche l’Europa con i suoi trasporti a non potere né volere fare a meno del petrolio di cui si rifornisce. Le importazioni perciò non cesseranno, le trivellazioni non si fermeranno ed il trasporto via terra e via mare continuerà ancora a lungo. Le buone pratiche e i comportamenti responsabili hanno la funzione di rendere meno probabili incidenti come quelli del GdM e particolarmente alta la guardia deve essere tenuta nel Mediterraneo.

Questo suggerisce un ruolo importantissimo per la politica europea ed internazionale. Se però si riflette sul come sia stato possibile che il genere umano abbia impiegato 5000 anni per raggiungere una popolazione mondiale di 2 miliardi di individui, ma abbia impiegato solo dall'inizio del secolo scorso ad oggi, ossia in poco più di 100 anni, per passare dai 2 ai 6,7 miliardi attuali, sarà evidente che qualcosa di diverso e di assolutamente straordinario è successo. La formidabile crescita della popolazione mondiale coincide, infatti, con il sorgere dell'industria petrolifera e il conseguente sviluppo della petrolchimica e dei derivati del petrolio.

L'inarrestabile crescita è stata resa possibile, infatti, solo grazie al petrolio e ai suoi derivati che hanno premesso di muovere trattori da 900 CV e trebbiatrici da 12 tonnellate, che hanno permesso l'aumento del 700% della produttività dei terreni grazie alle pompe d'irrigazione, ai fertilizzanti sintetici e ai pesticidi; che ci hanno, in sostanza, permesso di svilupparci come mai prima nella storia dell'uomo era successo. Ora il gioco si è rotto, anche grazie alla mancanza di prospettiva e all'insopprimibile avidità che contraddistingue l'essere umano. Se, poi, s’immagina di spostare i trattori e le trebbiatrici di cui sopra con pannelli fotovoltaici sul tetto, allora non si è capita l'entità del problema.

Non esiste infatti altro che consenta di sostituire con facilità, a basso prezzo e in quantità abbondanti, quello su cui abbiamo potuto contare fino ad oggi. Conoscere questo significa conoscere che la radice del problema è nell’attuale modello consumistico sostenuto dai paesi industrializzati. Non bisogna dunque perdere di vista le “vere” soluzioni, quelle che consentono di risolvere questi problemi in maniera definitiva. Sono queste le misure di cui la politica può sempre meno permettersi di tralasciare.

Queste soluzioni si chiamano transizione verso economie tendenzialmente senza petrolio (ed altri combustibili fossili), che poi vuole anche dire economie tendenzialmente senza emissioni, con un ambiente e la sua biodiversità maggiormente preservati. In sostanza una politica diversa richiesta da popoli diversi in ragione d’interessi diversi. Non sarà facile, ma vale la pena di battersi. In gioco c’è la sopravvivenza di tutti e tutto.

 
 

 

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