La Fondazione Argentina Altobelli ha inaugurato una collana editoriale dedicata al tema “Sindacato e Storia”, con la quale intende divulgare le lotte, le sfide, i contributi della classe lavoratrice e del movimento sindacale nella storia d’Italia. Il primo volume è dedicato al centenario dell’abolizione della Festa del Lavoro decretata dal Governo Mussolini nel 1923: “L’anno in cui il Governo Mussolini cancellò il Primo Maggio. Dal primo Consiglio dei Ministri (1° novembre 1922) al Patto interconfederale di Palazzo Chigi (19 dicembre 1923)”. Ne abbiamo brevemente discusso con l’autore, Michelangelo Ingrassia, docente di Storia Contemporanea e di Storia delle Istituzioni Educative Contemporanee presso l’Università degli Studi di Palermo.

 

 

Un nuovo libro si aggiunge alla sterminata bibliografia sul fascismo, non rischia di essere ripetitivo?

Penso non esistano casi definitivamente chiusi nella storia e ringrazio la Fondazione Argentina Altobelli che, incoraggiando la pubblicazione di questo volume, ha voluto contribuire a tenere aperto il cantiere della ricerca sul fascismo ritenuto ormai circoscritto alla tesi defeliciana degli anni del consenso. Questo libro ha indagato il fascismo dal di dentro. Ho studiato i verbali delle sedute alla Camera dei Deputati, le Gazzette Ufficiali del Regno d’Italia, i decreti legge emanati dal governo Mussolini; da una prospettiva particolare: economica e del lavoro. Il governo Mussolini esprimeva una maggioranza parlamentare di centrodestra che metteva insieme i liberali, i popolari, i riformisti di centro e i nazionalisti sulla base di un programma economico liberista: privatizzazioni, riduzioni di personale e aumenti di carichi e tempi di produzione, compressione salariale e contemporanea stabilizzazione degli stipendi, agevolazioni fiscali a imprese e banche, organizzazione del lavoro verticistica, salvataggi di imprese e banche con denaro pubblico. Tutto attuato con il potere di decretazione previsto dallo Statuto.

Questo connubio economico e politico tra fascismo e liberismo, peraltro, continuò anche negli anni del Regime e del corporativismo, quando Confindustria, Confagricoltura e sindacati fascisti si riunirono in un unico organismo e il Partito fascista assorbì il nazionalismo e parti di liberalismo, popolarismo e riformismo centrista.

Questo schema emerge se si vanno a leggere tutte le pagine del celebre libro di Giacomo Matteotti “Un anno di dominazione fascista”, dove il deputato socialista non denunciava solo l’uso della violenza politica ma anche della decretazione istituzionale. Matteotti aveva ben compreso l’essenza intima del capitalismo italiano e del suo patto con il fascismo in una Nazione, l’Italia, che aveva il più forte partito socialista d’Europa, il più organizzato partito comunista del Continente e la più forte organizzazione sindacale del panorama europeo. Per attuare anche in Italia le politiche liberiste che si andavano realizzando contemporaneamente nell’Europa del primo dopoguerra, era necessario abbattere con la violenza l’opposizione della sinistra e del Sindacato.

 

Esiste una correlazione con il presente?

Diversificando i contesti, è possibile parlare di analogie. La sistematica frantumazione del mercato del lavoro, dei diritti contrattuali, della forza-lavoro, del potere d’acquisto e della rappresentanza è una cosa attuale che proviene dal passato fascista; così come la tendenza a incrementare la produttività e i profitti intensificando carichi, tempi e modi di lavoro peraltro a parità di salario. La differenza sta nell’uso della violenza garantito ieri dallo squadrismo fascista per piegare la forte e organizzata resistenza di sinistra e sindacale.

Oggi, invece, il liberismo non ha più bisogno della violenza. La sinistra, diciamo così, ufficiale si è lasciata incantare per lungo tempo dalle sirene liberiste mentre il Sindacato, che generosamente fin dagli anni Settanta aveva concordato una politica di sacrifici in cambio di più occupazione stabile e dignitosa, si è ritrovato solo e oggi sta combattendo la più ardua e complicata battaglia della sua storia. Tanto e vero che oggi, come allora, nei rapporti tra i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni e il Sindacato, si riscontra con una certa frequenza l’uso della delegittimazione quotidiana dell’azione sindacale mediante la circolazione mediatica di luoghi comuni sulla scarsa rappresentatività e sulle arretratezze culturali.

In questo senso, da un lato si denuncia l’arroccamento sindacale sulla difesa dei diritti acquisiti in termini di occupazione, salari, dignità e qualità del lavoro; dall’altro non lo si accetta come interlocutore sui grandi temi delle riforme sociali e sulle grandi questioni economiche, a cominciare dalla lotta alla crescita delle diseguaglianze. Questo rapporto ostile con il sindacato confederale è una cosa non buona ma ancora attuale fatta a suo tempo da Mussolini, che tendeva la mano al sindacalismo confederale verso la collaborazione ma contemporaneamente pretendeva di trasformare la CGdL in una sorta di cinghia di trasmissione del suo governo.

 

Perché l’abolizione del Primo Maggio?

Mussolini, da ex socialista, ben sapeva che questa data aveva la potenza simbolica di una cultura, di una storia, di una identità di classe. Colpendo il simbolo, Mussolini intendeva sbaragliare la potenza culturale e identitaria della classe lavoratrice. Tuttavia il progetto di spersonalizzazione della classe lavoratrice fallì, come dimostrano le puntali manifestazioni clandestine di celebrazione del Primo Maggio e i rapporti di questure e prefetture; gli scioperi del 1943 provengono da questa resistenza identitaria e sono scioperi politici e di classe nel senso che sono rivolti contro il regime e contro le sue politiche liberiste, che si esasperarono negli anni di guerra. Mussolini, del resto, non solo abolì la Festa del Lavoro ma cancellò la parola “Lavoro” dal circuito istituzionale a cominciare dal Ministero, che diventò dell’Economia Nazionale.

 

In conclusione, ancora oggi c’è chi definisce il fascismo una rivoluzione sociale mancata e lega le sue origini alla Sinistra; tu che ne pensi?

Per rispondere occorre ricordare che quando Mussolini assume il governo della Nazione, per la prima volta nella storia i valori dominanti sono quelli economici incardinati nel sistema capitalistico di produzione; e per la prima volta nella storia, la politica deve rispondere agli interessi che determinano e muovono il sistema sociale capitalistico di produzione se vorrà ancora valere nella realtà. Mussolini fu ben disposto ad accettare questa nuova realtà e ad agire in essa. Una disponibilità frutto di una scelta culturale e politica ragionata e non della smania di potere.

Mussolini, infatti, che si piccava di avere seguito da giovane i corsi universitari dell’economista liberista Vilfredo Pareto, aveva intuito che la Grande guerra - e soprattutto l’avvento per la prima volta nella storia di uno Stato bolscevico – avevano determinato un mutamento nel liberismo europeo. Da qui le conclusioni cui giunse, per esempio, Leo Valiani per il quale l’intuizione mussoliniana fu che l’Europa tornava a destra e che la rivoluzione in Italia doveva collocarsi all’estrema destra.

Il fascismo, infatti, dopo il disastroso esordio elettorale del 1919 e archiviato il programma sansepolcrista della rivoluzione sociale, non per caso si ripresentò sul palcoscenico della storia con l’obiettivo di mutare, come scrive Sternhell, i rapporti intercorrenti fra l’individuo e la collettività senza che ciò implichi la rottura del motore stesso dell’attività economica (la ricerca del profitto) o l’abolizione del suo fondamento (la proprietà privata) o la distruzione del suo quadro necessario (l’economia di mercato). Penso che tutto questo renda ancor più attuale di quanto non sembri, la storia che ho provato a raccontare.

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