di Mario Braconi 

Una sentenza della Corte Europea di Giustizia, il cui contenuto è stato reso noto giovedì, stabilisce che i sistemi di monitoraggio del traffico internet possono potenzialmente ledere il diritto alla libertà di espressione; quanto ai diritti della proprietà intellettuale, se è vero che la loro tutela è riconosciuta dalla Carta dei diritti fondamentali, “nulla in quel documento fa pensare che essi siano involabili e pertanto debbano essere protetti ad ogni costo”. In altre parole, la Corte Europea ha dato rilievo formale ad un concetto noto al senso comune: la libertà di espressione è più importante degli interessi commerciali delle major che producono e distribuiscono contenuti (film, musica e ora anche libri).

Tutto é nato nel 2004 quando, alla Sabam, la SIAE belga, si sono accorti che alcuni clienti dell’internet provider Scarlet (allora controllato da Tiscali) utilizzavano illegalmente contenuti di proprietà dai suoi associati, ovvero se li scambiavano mutualmente, utilizzando architetture peer-to-peer. Sabam ha trascinato in tribunale Scarlet chiedendo, ed ottenendo, che l’ISP filtrasse gli account dei suoi clienti per impedire loro di condividere contenuti i cui diritti patrimoniali erano gestiti da lei gestiti.

Scarlet si è rivolta alla Corte d’appello, sostenendo che la decisione del tribunale di primo grado era in contrasto tanto con la legge europea sulla privacy quanto con la direttiva sull’e-commerce: quest’ultima, pur consentendo la possibilità al danneggiato di agire legalmente contro chi utilizza illegalmente materiale coperto da copyright, vieta di imporre agli ISP sistemi di monitoraggio generalizzato del traffico dei loro clienti. Nel frattempo, una seconda sentenza del 2007 faceva ricadere su Scarlet l’improbo compito di “impedire ai suoi clienti di violare i diritti d’autore”. Nel 2010, la Corte d’appello belga ha chiesto alla Corte Europea di giustizia (CEG) di fare chiarezza.

Il contenuto della sentenza era stata già largamente anticipato lo scorso aprile dalle dichiarazioni di Pedro Cruz Villalón, uno dei suoi Avvocati Generali, organi consultivi della CEG, i cui pareri non sono legalmente vincolanti. Cruz Villalon aveva sbriciolato le fondamenta dell’ordine di filtraggio obbligatorio dei clienti facendo leva su tre punti: primo, se esso fosse stato valido, su tutti i provider europei sarebbe ricaduto un identico obbligo, cosa impossibile. Secondo: un simile ordine avrebbe riguardato anche i non clienti di Scarlet che condividevano illegalmente contenuti con i clienti del provider belga (potevano essere residenti in altri stati e quindi soggetti a leggi diverse).

Infine, secondo l’Avvocato Generale, le disposizioni di leggi vigenti in Belgio ai tempi della sentenza non prevedevano in modo esplicito e chiaro l’obbligo dei provider di installare software di filtraggio e blocco, oltretutto a loro spese.

La sentenza di ieri, oltre a ribadire quanto già detto da Cruz Villalòn, sottolinea che “l’ingiunzione caduta su Scarlet può mettere potenzialmente a rischio la libertà di informazione, dal momento che un sistema di filtraggio non è in grado di distinguere tra contenuto liberamente scambiabile e contenuto protetto da copyright, cosa che può significare un blocco delle comunicazioni legali”.

Secondo Alex Hanff, attivista di Privacy International, sentito dal sito di informatica ZdNet, la sentenza costituisce un precedente importante, specialmente in Gran Bretagna. Nel Regno Unito il dibattito su cosa si dovrebbe vietare e come nel cyberspazio è vivo e tutt’altro che facile da districare: tanto è vero che le disposizioni della legge che dal 2010 disciplina la cosiddetta “economia digitale” (il “Digital Economy Act”) sono state sottoposte ad un processo di revisione che si protrae praticamente dal giorno dell’approvazione della legge e minaccia di protrarsi fino al 2013.

Una delle norme più dibattute è proprio quella che riguarda la possibile “schedatura” degli IP dei clienti che condividono materiale soggetto a copyright, con l’obiettivo di comunicarne le generalità a chi gestisce patrimonialmente i diritti d’autore.

La nuova sentenza, però, non impedisce il blocco di siti internet notoriamente dediti allo scambio illegale di file, dal momento che questa misura è consentita dalla Direttiva comunitaria sull’e-commerce. Secondo Hanff, però, bloccare siti come The Pirate Bay (in sé legalmente ammessa) comporta la necessità tecnica di filtrare i contenuti dei clienti degli Internet provider. Un sito come The Pirate Bay, infatti, funziona grazie al grande numero di “tracker” e “mirror”, e, secondo Hanff, l’unico modo per impedirvi l’accesso è quello di analizzare quello che scaricano i clienti degli ISP.

Sembra comunque che in Gran Bretagna tale tipo di filtraggio non venga effettuato: secondo una fonte di ZdNet, la Virgin Media (parte di un gruppo che, offrendo al pubblico tanto contenuti che connettività, si trova in una situazione unica per valutare la questione), abbia deciso di abbandonare un software “packet-sniffing” (“annusa-pacchetti”), dopo il periodo di test.

Con tutte le cautele del caso, oggi è un giorno importante per la libertà di espressione digitale in Europa. E’ comprensibile la disperata frustrazione provocata alle industrie dell’intrattenimento dalla condivisione illegale di contenuti: essa infatti danneggia le loro rendite, minacciando un modello di business obsoleto quanto redditizio. Il vero problema, però, è oggi all’estrema rigidità delle major, si contrappone un atteggiamento anarcoide degli utenti, che tendono a considerare il giusto ricavo di un artista un “furto del sistema”.

Entrambi gli atteggiamenti sono errati e dannosi: il rischio è quello di strozzare gli artisti. Il fenomeno, non controllabile, dei peer-to-peer dovrebbe però stimolare il settore a trovare nuovi modi per rendere legale (e ragionevolmente redditizio, con accento sull’avverbio) quello che comunque verrà consumato illegalmente: una sana logica di riduzione del danno. Viceversa, la strada che le major hanno scelto per combattere la pirateria passa attraverso la violazione dei diritti fondamentali dei cittadini ed il tentativo di imporre assurdi obblighi di monitoraggio agli internet provider. Almeno è stato così fino a ieri.

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