di Emanuela Pessina

Berlino. Berlino, la città “povera ma sexi” per eccellenza - così come l’ha definita l’attuale sindaco Klaus Wowereit - non poteva che riservare un posto d’onore a Pier Paolo Pasolini, l’artista e intellettuale italiano che ha raccontato il fascino delle periferie più povere della Roma degli anni sessanta. E così, dopo la rassegna dedicata a David Bowie, ora il Martin Gropius Bau di Berlino ospita “Pasolini Roma”, una mostra interamente dedicata agli anni romani dell’intellettuale friulano.

“Pasolini Roma” racconta il rapporto intimo e imprescindibile che si sviluppa tra Pier Paolo Pasolini e la capitale italiana, divenuta sua città adottiva dai ventisette anni in poi. Eletta a teatro di molti dei suoi film e protagonista dei suoi migliori romanzi, Roma assume un ruolo cruciale soprattutto nell’evoluzione personale di Pasolini.

L’intellettuale sbarca a Roma dopo essere stato allontanato, a causa della sua omosessualità, dall’insegnamento e dal Partito Comunista locale a Casarsa della Delizia, in Friuli, il paese dove viveva,. La “voce pubblica” di Casarsa lo accusa di adescamento di giovani e lo costringe ad andarsene: la dea Fama è offesa e per Pasolini e famiglia non vi è più nulla da fare in un paese che conta oggi poco più di novemila anime.

Perché è proprio a Roma che Pasolini si riconosce finalmente come intellettuale a tutto tondo, accettando con coscienza la propria sorte di - come dice lui stesso - “poeta maledetto”. Negli anni ’50 Roma è una città piena di stimoli filosofici e letterari ed è culturalmente più aperta delle campagne del nord Italia. Gli anni romani per Pasolini significano letteratura, cinema e politica, così come periferie preindustriali, cultura di borgata e sessualità finalmente manifesta.

“Pasolini Roma” si apre con l’immagine di un treno che va, parte da Casarsa e arriva alla stazione Termini. Dai finestrini si vedono le foto del passato che Pasolini si lascia alle spalle: l’infanzia, i poeti con cui ha studiato la lingua friulana, i ragazzi cui insegnava e con cui giocava a calcio, la famiglia, il fratello Guido, morto con i partigiani a soli venti anni. Con un solo cortometraggio la rassegna risolve il passato friulano di Pasolini e introduce l’esperienza romana dell’intellettuale.

Ed è proprio qui, nella capitale, che si comincia a delineare l’elemento distintivo del Pasolini intellettuale, la sovrapposizione imprescindibile tra vita e arte: perché l’autobiografia, per Pasolini, non esiste se non come rappresentazione propria, e quindi interpretazione, di sé stesso, e la sua critica alla società non ha ragione d’essere senza i fatti che hanno caratterizzato la sua esistenza.

“Pasolini Roma” vuole mettere in risalto proprio il margine di sovrapposizione tra vita e arte dell’artista e lo fa attraverso le categorie di spazio e tempo che la città di Roma offre. La mostra si compone di sei sezioni cronologiche, comincia con l’arrivo di Pasolini a Roma nel 1950 e finisce con il raccontare la sua morte, avvenuta il 2 novembre 1975.

Ogni sezione è introdotta da immagini di Roma su uno schermo gigante e qualche frase in sovraimpressione che riassume il periodo che ci si accinge a raccontare dell’artista. Per il resto, le stanze sono coperte da scritti di Pasolini e immagini di suoi film, commentate dall’autore stesso. Ne esce un’autobiografia completa, raccontata dai commenti dell’autore stesso. Poi mappe, pannelli con stralci dei suoi film, fotografie.

I curatori della mostra definiscono Roma “la storia d’amore più importante di Pasolini”. Di sicuro la città è il frammento di vita che Pasolini sceglie per analizzare l’esistenza e la società, è il campione da scomporre ed esaminare. Al centro dell’arte di Pasolini ci sono le periferie romane, costruite dai fascisti, ci spiega l’artista, perché intese a essere “campi di concentramento per i poveri”. Pasolini ci vive mentre scrive i suoi primi romanzi e ne fa parte davvero, ci tiene a sottolinearlo. I suoi libri e i suoi film raccontano le periferie romane con lo stesso linguaggio delle borgate. Un vocabolario romanesco italiano introduce la prima stazione cronologica della rassegna.

Con la sua arte Pasolini ha affrontato tematiche primitive quali destino dell’individuo, vita contadina e borgate, religione e anticlericalismo, sessualità e morte, utilizzando sempre linguaggi che vanno al di fuori della consuetudine, immagini di una lucidità estrema. Ed è così che San Pietro diventa l’emblema di quella “religiosità senza colore, piatta, grigia, parrocchiale, uno dei prodotti più sconfortanti della stupidità”.

Con i suoi limiti di “città preindustriale”, Roma è tuttavia il posto in cui Pasolini “trova meglio di altrove il suo modo di vivere ambiguamente”, dove riesce a salvare “eros e onestà” e dove “l’omosessualità diventa un altro dentro di lui” con cui può tuttavia convivere.

Il sesso e la violenza, del resto, sono al centro delle sue opere e sono sempre bersaglio della critica dei moralisti e dei benpensanti e della censura. Un’intera parete delle sale del Martin Gropius è dedicata all’inchiostro consumato dalla stampa per raccontare i processi e le censure a carico delle sue opere, da Ragazzi di vita a Orgia, così come gli scandali nati dalla presentazione delle stesse.

Ma è proprio con le sue vicende personali che Pasolini da forza alla propria visione intellettuale, diventando così il più grande provocatore della società italiana cattolica e medio borghese, e una delle principali icone postmoderne. L’ultima stazione della mostra ricorda la morte di Pasolini solo attraverso il discorso funebre di Alberto Moravia.

I dubbi e le ipotesi sull’omicidio sono citati velocemente da un pannello fuori dalle sale della mostra, in una sorta di rispetto silenzioso. “La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne un male mortale”, scriveva Pasolini nel 1963 per Marilyn Monroe in una poesia indimenticabile. Piace pensare che per lui il male mortale sia stata l’intelligenza, non si vuole forse maltrattare ulteriormente il suo corpo.


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