di Silvia Mari

Il film di Mario Martone è un’immersione purissima e fedele nella biografia esistenziale e letteraria di Giacomo Leopardi. Con qualche incursione di modernità, forse un po’ forzata o soltanto inutile, e con un punto di vista interessante sulle inquietudini del giovanissimo poeta. Un bene e non un caso che si torni a ricordare Leopardi in un tempo storico cosi travagliato, come quello che attraversa l’Italia, proprio come allora.

Quando il paese cercava la sua unità, tentava di superare il giogo dei vari sovrani e serpeggiavano idee fresche e liberali, quando la coercizione di un papa imperatore soffocava la filosofia e l’arte.

In questo fermento e conflitto il giovane poeta di Recanati sfidava tutti per ingegno e per assenza di paura e pur nelle sue condizioni fisiche precarie portava con sé la forza di una novità incontenibile. Forse è un po’ questa la metafora che ricorre e che può restituire piena attualità all’opera di questo giovane che non fu mai soltanto del proprio tempo.

L’Italia piegata dalla crisi ha bisogno di ritrovare il suo passato, non quello sepolto e superato, ma quello che non è mai estinto e che è ancora gloria vivissima, ben al di fuori dei confini nazionali.

Ricordare Leopardi oggi è pensare al presente dell’Italia. Il suo genio e la sensibilità estrema asfissiati dalla morsa di Recanati, la sterminata biblioteca, la malattia e poi la morte della Musa Silvia dei Grandi Idilli:, tutto è riportato in un ritratto perfetto. Formidabile Elio Germano, piegato e ritorto in un fisico sofferente e provato che Leopardi trascinava nel suo viaggio per l’Italia, rivendicando nei salotti letterari e agli intellettuali del tempo la dignità filosofica e psicologica del suo male di vivere, senza scorciatoie legate alla sua condizione.

Un’anticipazione miracolosa dello spleen e delle grandi inquietudini dell’uomo del Novecento. Ateismo, materialismo, attaccamento forsennato all’esistenza, pur in una spietata filosofia del dolore cosmologico, emergono con forza nella scena dell’Italia attraversata da rinnovamento e ansie di restaurazione, restituendo a Leopardi un’originalità fuori dal tempo, dirompente. Non c’è la militanza politica che il Giordani prova ad instillare nel giovane Giacomo, ma non c’è nemmeno la compostezza e la sobrietà di Manzoni. Leopardi è oltre.

Il suo pensiero e la sua poetica non possono che creare disordine e scompiglio. Un tormento interiore vivissimo che non può andare d’accordo con le regole rigide del Conte Monaldo, tutto sovrano e Dio, e della ieratica madre Adelaide. Eppure non c’è militanza in alcun partito o corrente o appartenenza fissa ai salotti della letteratura. Perché nulla è abbastanza per contenere la visione del mondo di Leopardi.

Anche per questo, nel film, risulta un po’ stucchevole la colonna sonora melodica e moderna che accompagna la sua disperazione dopo il rifiuto della donna desiderata, Fanny. Per questo è troppo didascalica l’esplicita lettura psicologica che trasforma la natura delle Operette Morali in una grande statua di sabbia che ha il volto di Adelaide Antici. Come a voler spiegare per bene che tutto il dolore esistenziale provenisse dal mancato rapporto affettivo con la figura materna.

“Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” scriverà Montale un secolo dopo nella devastazione di una storia che non ha riferimenti e di una filosofia che non ha più sistemi.

Leopardi precorre tutto questo mente traduce l’Odissea all’impronta, scrive i suoi versi e annota le sue osservazioni matematiche in una sintesi tra passato e futuro unica e irripetibile. In cui manca con un silenzio assordante il presente. Quello che sfugge al telaio di Silvia. Che serve appena a rubare l’infinito dietro alla siepe. Quello che ai tempi del colera porterà Leopardi a finire in una fossa comune, lasciando vuoto il sepolcro che lo commemora ancora nella città di Napoli. Come accade solo agli immortali.


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