di Antonio Rei

La manovra ha cambiato nome, da legge di Stabilità a legge di Bilancio, ma non sostanza. Come l’anno scorso, il governo Renzi ci ha preparato un minestrone costosissimo con i soliti ingredienti: mance e mancette elettorali, soldi sparpagliati più o meno a caso senza alcun disegno strategico in termini di politica economica, né dal punto di vista fiscale né da quello industriale.

Anzi, a ben vedere quest’anno sta andando anche peggio. Pressato dall’appuntamento referendario del 4 dicembre, da cui dipende il suo futuro politico, il Premier sta facendo di tutto per comprarsi la benevolenza degli elettori. Il problema è che stavolta i conti davvero non tornano: il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare domani la nuova manovra, e ancora mancano all’appello più di 7 miliardi.

Un’enormità di denaro, anche se dovrebbe pesare per meno di un terzo sul pallottoliere finale. La legge di Bilancio, infatti, ha una taglia extralarge da ben 24,5 miliardi e al momento il Governo è arrivato a rabberciare coperture per soli 18,4. Dove trovare il resto del malloppo?

Fin qui Renzi e Padoan hanno riposto le proprie speranze nella Commissione europea. Del resto il commissario Ue all’economia, Pierre Moscovici, ha lasciato intendere che Bruxelles tifa per il Sì al referendum, se non altro per preservare la stabilità politica in Italia. Renzi non è ben visto in Europa, ma è considerato comunque il minore dei mali, visto che la destra si è liquefatta e l’unica alternativa sono i 5 Stelle.

Allo stesso tempo, però, Moscovici ha detto che i desideri di Roma non saranno soddisfatti per intero. Il nostro Governo prevede per il prossimo anno un deficit/Pil al 2% e ha chiesto alla Commissione di poter alzare l’asticella di un altro 0,4% per le necessità relative ai migranti e alla ricostruzione post-sisma, margine che coprirebbe gran parte della voragine ancora aperta nella manovra (circa 6,4 miliardi). Bruxelles non arriverà a tanto ed è probabile che alla fine si troverà un accordo a metà strada sul 2,2%, con uno scostamento dello 0,2% che vale circa 3,3 miliardi.

A quel punto, mancheranno all’appello poco meno di 4 miliardi e l’unica soluzione sarà aumentare i tagli alla spesa pubblica. Al di là del fatto che si tratta di operazioni recessive, in quanto la spesa dello Stato concorre a formare il Pil, c’è da preoccuparsi perché quando si tratta di ridurre le uscite la vittima prediletta è sempre la stessa: la sanità.

In origine era previsto che l’anno prossimo la dotazione del Fondo Sanitario Nazionale aumentasse di due miliardi di euro, ma il Tesoro potrebbe imporre un colpo di scure per abbattere l’incremento a quota 500 milioni. In un Paese sempre più vecchio come il nostro, un taglio del genere si tradurrebbe certamente in una riduzione delle prestazioni garantite: dall’esenzione dal ticket per alcune categorie di persone al piano vaccini, passando per la rimborsabilità della fecondazione eterologa in tutte le Regioni italiane. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha chiesto a Padoan di alzare le accise sul tabacco per raggranellare 750 milioni, così da far crescere il Fondo Sanitario di un miliardo e 250 milioni.

Anche se riuscisse a superare questo scoglio, tuttavia, il Governo dovrebbe comunque reperire ancora altre risorse. E allora ecco spuntare l’idea geniale: secondo alcune indiscrezioni, c’è l’ipotesi di varare una voluntary disclosure sul contante interno. Come quella già sperimentata per il rientro dei capitali all’estero, ma stavolta indirizzata ai contanti che gli italiani tengono nelle cassette di sicurezza o sotto al materasso. In sostanza, dietro la garanzia della non punibilità penale riservata però solo a chi ha evaso le tasse, bisognerebbe rivelare la provenienza del “nero” e pagare qualcosa. Una trovata che sembra partorita dalle meningi di Fabrizio Corona, come ha giustamente rilevato Pier Luigi Bersani.

E tutto ciò per cosa? Per una manovra in cui si spendono (inevitabilmente) 15,1 miliardi per scongiurare l’aumento dell’Iva, e il resto lo si impiega per finanziare spot elettorali più o meno convincenti. La misura principe di questa legge, ad esempio, è il cosiddetto Anticipo pensionistico: una novità talmente poco conveniente per i lavoratori che, prevedibilmente, sarà usata soltanto dai disoccupati e da chi, purtroppo, sa di non avere ancora molto tempo da vivere. Altro che flessibilità in uscita.

Al contempo sarà azzerato il metadone degli incentivi alle assunzioni (anche perché nella forma ridotta al 40% da quest’anno si sono rivelati pressoché inutili) e si promette d’introdurre misure risibili per far assumere quattro stagisti o per potenziare quel pastrocchio di Garanzia Giovani. Insomma, l’ennesimo brillante intervento per rilanciare il mercato del lavoro.

Si prevede ancora di regalare 500 euro ai 18enni e qualche altro spicciolo alle famiglie in difficoltà economiche ma non sotto la soglia di povertà. E sul fronte della competitività, la strategia Industria 4.0 sarà finanziata con 400 milioni. Gli spicci per la merenda.

Sarebbero queste le poderose misure che hanno spinto Padoan a scontrarsi con l’Ufficio parlamentare di bilancio, che non ha validato il Def perché non ritiene verosimile una crescita del Pil pari all’1% nel 2017. Il ministro del Tesoro ha assicurato che si tratta di un obiettivo raggiungibile in virtù del potenziale espansivo della manovra. Speriamo che, perlomeno, riesca a chiuderla senza far pagare alla sanità il costo del referendum.

di Antonio Rei

Si dice che le previsioni macroeconomiche servano a rivalutare gli astrologi. È vero, ma la loro prima funzione è manipolare l’opinione pubblica per scopi elettorali. Lo dimostra la tarantella che si è scatenata dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, in cui il governo stima che nel 2017 il Pil italiano crescerà dell’1%.

In realtà, quella del governo è una revisione al ribasso pesante, visto che soltanto la scorsa primavera le previsioni per l’anno prossimo parlavano di un +1,4%. Il taglio non sembra però sufficiente, considerando che il risultato è ancora più alto rispetto alle stime di tutti i centri di ricerca più importanti e delle istituzioni internazionali. Per intenderci, Ocse e Prometeia collocano il dato allo 0,8%, mentre il solo Fondo monetario internazionale si spinge fino allo 0,9%. Confindustria addirittura si ferma allo 0,5%.

Ora, è normale che un esecutivo nazionale spari più in alto degli analisti privati o stranieri. Tuttavia, in questo caso il governo è stato contraddetto anche dalle stesse istituzioni interne. A manifestare perplessità e dubbi su quell’1% sono state la Corte dei Conti (da sempre ignorata da tutti), la Banca d’Italia (che da Banca Etruria in poi non è in buoni rapporti con Palazzo Chigi) e soprattutto l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, un organismo indipendente creato nel 2014 proprio con il compito di svolgere analisi e verifiche sui numeri del Def.

Il ministro Padoan ha provato a difendersi in ogni modo. “I numeri che produciamo - ha detto ieri - sono basati su un’attenta valutazione degli impatti della manovra, non sulla fantasia. Sono aspettative realizzabili”. E come? Per giustificare questa ambizione il numero uno del Tesoro ha giocato la carta della manovra, che secondo lui sarà talmente espansiva “da avere un impatto importante sulla crescita”. Insomma, la legge di Stabilità - che resta da completare - è l’asso nella manica con cui il governo stupirà tutti. Ed è solo un colpo di fortuna che dai calcoli dei tecnici sia venuto fuori proprio quel dato, l’1%, appena oltre la soglia psicologica dello “zerovirgola”. Abbastanza alto da rassicurare, ma non troppo alto da risultare ridicolo. Dobbiamo crederci?

La storia non lascia molti dubbi. Lo scorso gennaio Renzi aveva definito “assolutamente alla nostra portata” per il 2016 una crescita dell'1,6%. Poi in primavera ha abbassato l’asticella all’1,2%. Ora ammette che non andremo oltre il +0,8%. La meta di quanto pensava a gennaio.

D’accordo, nel frattempo c’è stata la Brexit, il rallentamento del commercio internazionale, le varie crisi geopolitiche, i venti solari e l’invasione delle cavallette. Va bene tutto, ma la cantonata presa quest’anno non è per nulla una novità: dal 2002 al 2016 i vari governi italiani, ogni anno impegnati a vaticinare sul Pil dell’anno successivo, hanno sbagliato 14 previsioni su 15. E in 12 casi l’errore è stato per eccesso, nel senso che la realtà si è rivelata peggiore delle aspettative.

Perciò, a ben vedere, la storia ci suggerisce che le previsioni macroeconomiche governative siano una burattinata di cui i cittadini potrebbero tranquillamente fare a meno. Il problema è che non ne può fare a meno il governo. Meno che mai questo, appeso com’è al filo di un referendum. 




di Carlo Musilli

In una sorta di nemesi finanziaria, i mercati hanno spostato i riflettori dalle banche italiane al cuore bancario della Germania, Deutsche Bank. Venerdì scorso il titolo in Borsa del colosso tedesco ha vissuto una seduta schizofrenica: crollo del 9% in mattinata - fin sotto la soglia psicologica dei 10 euro - e rimbalzo poderoso nel pomeriggio, terminato con un rialzo del 6,4%, a 11,57 euro. Come si spiega tanta incertezza sul principale istituto dell’Eurozona, figlio prediletto del Paese che detta le regole agli altri?

A innescare la pioggia di vendite iniziale è stata una notizia diffusa giovedì sera negli Stati Uniti. Secondo un documento interno di Deutsche Bank citato da Bloomberg, 10 hedge fund Usa hanno ridotto drasticamente la propria esposizione nei confronti della banca tedesca, temendo che le sue difficoltà finanziarie preludano a una crisi.

L’inversione di marcia di venerdì pomeriggio, invece, si deve a un’indiscrezione (non confermata) diffusa dall’Afp. L’agenzia francese ha scritto che Deutsche Bank sarebbe vicina a sottoscrivere un accordo da 5,4 miliardi di dollari con il Dipartimento di Giustizia statunitense per chiudere il caso subprime.

Sono tanti soldi, ma il sollievo dei mercati è comprensibile: per archiviare le scorrettezze sui titoli legati ai mutui, inizialmente Washington aveva chiesto alla banca tedesca addirittura 14 miliardi. Una cifra spaventosa, che nelle ultime settimane aveva sollevato dubbi circa la necessità di un aumento di capitale, se non addirittura di un intervento pubblico. Entrambe le ipotesi erano state smentite sia dal gruppo sia dal Governo tedesco, ma i numeri sembravano lasciare poco spazio alla fantasia.

Non solo i 14 miliardi chiesti in origine superano di molto gli accantonamenti effettuati da Deutsche Bank per i diversi casi giudiziari in cui è ancora implicata: anche la cifra emersa venerdì, se confermata, sarebbe comunque vicina alla soglia che secondo il mercato l’istituto potrebbe tollerare senza interventi sul capitale.

Del resto, a luglio Deutsche Bank era stata giudicata una delle banche più deboli del continente negli stress test della European Banking Authority. E sempre la scorsa estate il Fondo Monetario Internazionale ha definito l’istituto tedesco “la principale minaccia sistemica per la stabilità finanziaria globale”. Un giudizio legato non soltanto agli scandali e alle cause in giro per il mondo, ma soprattutto all’esposizione lorda in derivati, che ammonta a 42mila miliardi, circa 15 volte il Pil tedesco.

Verrebbe da pensare che una banca del genere sia oggetto di controlli ferrei, ma non è così. Al contrario, Deutsche Bank è in queste condizioni anche perché beneficia di una straordinaria indulgenza da parte del Meccanismo unico di Vigilanza della Bce, un organo autonomo dal Consiglio direttivo, guidato dalla francese Danièle Nouy ma assai sensibile alle pressioni tedesche.

Ad esempio, come ricorda Fubini sul Corriere della Sera, nell’autunno del 2014 l’Eba promosse Deutsche Bank agli stress test chiudendo gli occhi sul fatto che la banca fosse già coinvolta in 7.800 cause giudiziarie, le cui penalità sono costate 6,8 miliardi di perdite solo nel 2015 e continuano ancora oggi a sconvolgere i bilanci dell’istituto (il tutto con violente ripercussioni in Borsa, considerando che dal 2014 le azioni della banca hanno perso il 70%).

Non solo. Quello stesso anno la Vigilanza Bce prese per buone le stime di Deutsche Bank sul valore di un portafoglio di derivati, malgrado alcuni anni prima un ex manager dell’istituto avesse denunciato che i dati del bilancio 2009 erano fondati su “valutazioni improprie” frutto dei “modelli interni” della banca. Per quei conti falsati le autorità Usa multarono Deutsche Bank, mentre la Bce pensò bene di continuare a fidarsi dei modelli interni della banca anche gli anni successivi.

La differenza di trattamento sulle due sponde dell’Atlantico è evidente: basti pensare che, mentre incassa promozioni in Europa, negli ultimi due anni Deutsche Bank è stata bocciata agli stress test condotti dalla Fed sul 15% del bilancio dell’istituto tedesco che dipende dagli Stati Uniti.

In altri termini, la Bce evita d’indagare a fondo come dovrebbe, sottostimando volutamente il pericolo costituito dai guai giudiziari e dalla montagna di derivati in pancia a Deutsche Bank, mentre gli Stati Uniti non si fidano. E, purtroppo per la banca tedesca, i mercati sembrano pensarla come la Fed. Hedge fund in testa.

di Carlo Musilli

Nemmeno negli incubi più foschi aveva immaginato di ricevere un colpo del genere. Eppure è arrivato: la settimana scorsa Deutsche Bank si è vista chiedere dal governo americano ben 14 miliardi di dollari. La colpa da espiare è la più grave, perché ha a che vedere con i derivati legati ai mutui subprime, la truffa da cui nel 2008 è nata la crisi finanziaria che ha messo in ginocchio mezzo mondo.

Eppure, la cifra chiesta dagli Usa è comunque altissima. Le aspettative erano ben altre: per intenderci, il colosso bancario tedesco aveva previsto che la multa sarebbe stata di circa 2,4 miliardi di dollari. Quasi un sesto del conto che poi è effettivamente arrivato da Washington. Naturalmente, non appena il Wall Street Journal ha scritto “$14 Billion”, il titolo di Deutche è caduto a picco in Borsa.

Il sospetto è che la stangata contro la Banca di Francoforte sia una ritorsione degli Stati Uniti al caso Apple, cui la Ue ha chiesto di pagare 14,5 miliardi di euro come risarcimento per le tasse non versate all’erario irlandese. Guarda caso, la cifra in gioco è quasi la stessa.

Ma quale che sia il movente della sberla arrivata dagli Usa, Deutsche Bank  ha già fatto sapere che “non intende accordarsi su cifre neppure lontanamente vicine a quella citata”. I negoziati “sono agli inizi - hanno aggiunto i vertici della Banca tedesca - e ci aspettiamo un risultato simile a quello ottenuto da banche nostre pari, che hanno concordato un ammontare materialmente inferiore”.

Su questo punto, purtroppo, i tedeschi hanno ragione. A Goldman Sachs, ad esempio, erano stati chiesti inizialmente 15 miliardi, ma alla fine il gruppo ne ha pagati solo 5,1. JP Morgan, invece, è riuscita a far calare l’asticella da 20 a 13 miliardi.

Deutsche, per di più, può usare come argomento difensivo il fatto che i suoi volumi di business erano largamente inferiori a quelli dei colossi americani. Negli anni in cui si sono svolte le attività oggi sotto accusa (2005-2007), la Banca tedesca ha trattato titoli garantiti dai subprime pari a circa un terzo di quelli gestiti da Goldman e addirittura a un 13esimo di quelli in mano a Bank of America, l’istituto che finora ha ricevuto la sanzione più alta (16,6 miliardi).

L’entità finale del risarcimento che Deutsche sarà effettivamente costretta a pagare, perciò, è ancora difficile da prevedere. Le prime schermaglie andate in scena la settimana scorsa sono solo il primo atto di una tragicommedia negoziale che andrà avanti per mesi.

Secondo alcuni, però, questa trattativa potrebbe concludersi più rapidamente delle precedenti, addirittura entro l’anno, perché il Dipartimento di Giustizia americano - giunto ormai alla fine dell’amministrazione Obama - avrebbe interesse ad archiviare il più rapidamente possibile gli strascichi dello scandalo subprime, che fin qui ha prodotto molti risarcimenti e pochissime condanne.

Ma qual è stata la truffa a monte di tutto? Ricapitoliamo in sintesi i passaggi fondamentali. Tutto parte dall’economia reale, per poi spostarsi nella nube della finanza. In sostanza, le banche spingevano i loro clienti a usare le case come bancomat, accendendo mutui immobiliari in serie: i nuovi prestiti servivano a estinguere i precedenti ed essendo d'importo superiore (perché nel frattempo il prezzo delle case era salito) permettevano alle famiglie d'intascare la differenza.

Quando il prezzo delle case ha smesso di salire e gli americani non hanno più potuto rinegoziare i mutui (cioè quando la bolla speculativa è scoppiata), milioni di famiglie si sono ritrovate con debiti impossibili da ripagare. A quel punto le banche si sono prese le case.

Il problema per il resto del mondo è nato dal fatto che, mentre rifilavano i mutui subprime, gli istituti emettevano titoli derivati garantiti proprio da quei prestiti, prodotti finanziari che poi vendevano con l'inganno: sapevano di smerciare carta straccia ad altissimo rischio, ma facevano credere agli investitori che si trattasse di un affare più che sicuro.

Il tutto con la fondamentale complicità delle agenzie di rating, che assegnavano a quei titoli la tripla A, ovvero il giudizio d'affidabilità più alto. Del resto, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch venivano pagate dalle banche stesse, non dagli investitori (cioè da chi emetteva i titoli, non da chi li comprava), perciò operavano in palese conflitto d'interessi.

Da allora, la giustizia Usa non ha riformato il mercato, né ha messo in galera i principali responsabili della crisi. È riuscita soltanto a contrattare multe, ma sempre seguendo la strada del patteggiamento: i colossi di Wall Street hanno accettato di pagare pur di chiudere la vicenda e ciò induce a pensare che le reali dimensioni delle loro colpe rimarranno per sempre un mistero. Purtroppo, accadrà lo stesso anche con Deutsche Bank. E nessuno può garantire che quanto avvenuto prima del 2008 non si ripeterà in futuro.

di Carlo Musilli

È come se Biancaneve si trovasse a scegliere fra due opzioni: continuare a mangiare ogni anno la mela della strega cattiva e vivere per sempre felice e contenta; oppure farsi salvare dal principe, incassare subito un tesoro ma abbandonare ogni certezza sul futuro. Di fronte a un paradosso simile, l’Irlanda ha scelto di stare dalla parte della strega.

Il governo di Dublino farà ricorso contro l’ingiunzione della Commissione europea che obbliga il Paese a riscuotere da Apple 13 miliardi di euro di tasse non versate, più 4,8 miliardi d’interessi. È stata una decisione tribolata, poiché quello di Enda Kenny è un governo di minoranza e inizialmente i ministri indipendenti non erano d’accordo con l’appello.

Alla fine però si sono lasciati convincere dalla promessa del Premier di avviare una revisione indipendente per stabilire “quanto le multinazionali paghino oggi di tasse e quanto dovrebbero pagare”. Mercoledì il Parlamento darà il via libera all’azione legale.

La preoccupazione principale del governo è fare in modo che l’Irlanda rimanga la sede fiscale più gettonata in Europa fra i colossi industriali americani, uno status che negli ultimi anni ha consentito al Paese di uscire in fretta dalla crisi e di prosperare. Il ministro delle Finanze irlandese, Michael Noonan, ha ammesso candidamente che l’esecutivo è spinto dal timore di perdere questo privilegio.

Ma quali sono, di preciso, le accuse mosse da Bruxelles? Nel mirino della Commissione ci sono due accordi fiscali sugli utili imponibili di due società di diritto irlandese controllate dal gruppo di Cupertino (Apple Sales International e Apple Operations Europe), cui facevano capo tutti i profitti generati dalla multinazionale in Europa.

In sostanza, grazie a queste intese, solo una minima parte degli utili europei di Apple veniva tassata (peraltro con un’aliquota del 12,5%, la più bassa dell’Ue), mentre la stragrande maggioranza dei profitti era di fatto esentasse, poiché veniva attribuita a una “sede centrale” che esisteva solo sulla carta. Con questo stratagemma, possibile grazie a norme del diritto tributario irlandese oggi non più in vigore, Apple ha pagato le imposte con un’aliquota che dall'1% del 2003 è scesa progressivamente fino allo 0,005% del 2014.

Com’è ovvio, tanta generosità fiscale prevede una contropartita. In tutto il Paese, solo Apple ha ben 5.500 dipendenti e, secondo i calcoli dell’Agenzia irlandese per gli investimenti, il 20% dei lavoratori è impiegato in una multinazionale. Senza queste risorse l’Irlanda non si sarebbe mai ripresa dalla crisi, con buona pace delle anime belle che ancora credono alla favola dell’economia ripartita grazie all’austerity.

Il sistema fiscale selvaggio made in Ireland è da sempre un’assurdità all’interno dell’Ue, perché aiuta i colossi industriali a danno degli altri Paesi dell’Unione. Eppure i vantaggi sono tali per Dublino che il governo ha deciso di combattere contro Bruxelles pur di non incassare da Apple quasi 18 miliardi. Per avere un termine di paragone basti pensare che, senza considerare gli interessi, soltanto i 13 miliardi di tasse non pagate da Apple equivalgono al budget sanitario irlandese dell’anno scorso.

Certo, non sarebbero comunque risorse che il governo di Dublino potrebbe spendere a beneficio dell’elettorato, perché le regole europee impongono d’impiegarle per abbattere il debito pubblico. D’altra parte, se alla fine il ricorso fallisse (lo sapremo fra qualche anno) e l’Irlanda rifiutasse comunque d’incassare gli arretrati, rischierebbe una procedura d’infrazione per aiuti di Stato che potrebbe culminare in una sanzione.

La questione però va ben oltre i rapporti Dublino-Bruxelles. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha già lanciato vari avvertimenti all’indirizzo della Commissione europea, affermando che le sue azioni “potrebbero minacciare gli investimenti stranieri, il clima degli affari in Europa e l'importante spirito della partnership economica tra Usa e Ue”.

Dalla Casa Bianca hanno fatto sapere che il presidente Barack Obama porterà il tema generale dell’elusione fiscale al G20 di Hangzhou. Il tutto in un clima già infuocato dalle trattative per il TTIP, l’accordo di libero scambio fra Stati Uniti ed Europa tanto caro all’amministrazione Obama, su cui di recente Francia e Germania sembrano aver posto una pietra tombale.


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