di Carlo Musilli

Autunno, inverno, primavera: è uguale. A Bruxelles non interessa che l’Italia vada alle elezioni prima o dopo, ma solo che faccia quello che deve per mettere in sicurezza banche e conti pubblici. Sul primo fronte, al Tesoro brucia ancora la magra figura rimediata nel confronto con la Spagna, che ha risolto con un salvataggio-lampo la crisi del Banco Popular.

È stato sufficiente l’intervento del Banco Santander, uno dei principali colossi finanziari europei, che ha acquisito l’istituto in crisi per la cifra simbolica di un euro e poi ha annunciato un aumento di capitale da sette miliardi (già interamente sottoscritto) per far fronte ai costi dell’operazione. Azioni e obbligazioni subordinate del Banco Popular sono state azzerate. Il tutto in pochi giorni.

Niente di paragonabile a quello che sta accadendo in Italia con gli psicodrammi su banche venete e Mps. Il dossier più preoccupante è quello che riguarda Veneto Banca e la Popolare di Vicenza. Regole alla mano, Bruxelles ha imposto ai due istituti di racimolare altri 1,2 miliardi da investitori privati prima di poter accedere agli aiuti di Stato che dovrebbero salvarle. Per settimane è sembrato impossibile trovare qualcuno disposto a gettare altri soldi nel calderone veneto e la prospettiva del bail in, almeno per uno dei due istituti, appariva più che concreta.

Poi, dopo giorni di chiusura totale, Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno cambiato registro, dicendosi disponibili a valutare un nuovo intervento, purché di sistema. Traduzione: l’onere non deve pesare solo sulle due big, ma essere ripartito su tutte le principali banche italiane (alla fine è probabile che la soluzione passerà ancora una volta attraverso il fondo Atlante).

Più che l’esempio spagnolo – che pure ha indotto il Tesoro ad aumentare il pressing su Intesa e Unicredit – a sbloccare la situazione è stata la prospettiva di quello che accadrebbe se Veneto Banca e Pop Vicenza fossero lasciate al proprio destino. In caso di liquidazione degli istituti, i costi per il sistema bancario lieviterebbero, perché il Fondo di tutela dei depositi dovrebbe sborsare 11 miliardi.

Nulla però è scontato. Massimo Doris, ad di Banca Mediolanum, si è attestato sulla stessa linea possibilista di Intesa e Unicredit, ma fra le ex Popolari i dubbi crescono. In particolare, Ubi è alle prese con un aumento di capitale da 400 milioni per ricapitalizzare le 3 good bank (Etruria, Marche e Carichieti) appena acquisite e non le sarebbe facile trovare altre risorse per venire in aiuto delle venete. Banco Bpm, invece, deve affrontare la fase d'avvio della fusione da cui ha preso vita, quella tra Banco Popolare e Bpm, un’operazione che la vigilanza della Bce tiene sotto la lente d’ingrandimento.

È difficile anche ipotizzare che Mps, la quarta banca italiana, sia in grado di fare la sua parte senza battere ciglio. L’istituto senese ha da poco tirato il fiato per l’accordo raggiunto con la Commissione europea e la Bce – che hanno dato il via libera preliminare alla ricapitalizzazione da parte dello Stato – ma ora è chiamata al delicato compito di tradurre i realtà quello che per il momento rimane sulla carta. La strada è ancora in salita, soprattutto perché i fondi interessati all’acquisto delle sofferenze premono per uno sconto sul prezzo di cessione (26miliardi).

Per quanto riguarda invece i conti pubblici, il capitolo più bollente riguarda l’Iva. Ad oggi sappiamo che il governo dovrebbe stanziare nella manovra del prossimo autunno 15-16 miliardi per evitare che nel 2018 scatti l’aumento automatico dell’imposta sul valore aggiunto (3,8 miliardi sono stati già disinnescati con la manovra-bis approvata da poco alla Camera). Si tratta di soldi difficili da trovare, anche perché lo scorso aprile il nostro Paese si è impegnato a operare un aggiustamento del deficit strutturale pari allo 0,8% del Pil, in modo da riportare il debito pubblico verso una traiettoria discendente.

È questa una delle principali ossessioni dell’Ue nei confronti dell’Italia. La Commissione europea non perde occasione di rimproverarci per “non aver fatto sufficienti progressi” sugli “obiettivi di riduzione” del debito previsti dal Patto di Stabilità.

Parole che si scontrano immancabilmente con le richieste di flessibilità da parte del nostro Paese. L’ultima è arrivata una decina di giorni fa, quando il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – credendo che le elezioni anticipate fossero ormai inevitabili – si è affrettato a domandare all’Europa di ridurre l’aggiustamento allo 0,3% del Pil. In altri termini, ha chiesto uno sconto di circa 8,5 miliardi sulla correzione del 2018, così da far scendere a circa 6-7 miliardi le risorse necessarie per la sterilizzazione della clausola di salvaguardia Iva.

La risposta di Bruxelles deve ancora arrivare ed è chiaro che, se sarà negativa, imporrà un prezzo salato da pagare con la prossima legge di bilancio. Anche per questo, al Nazareno come al Quirinale, hanno preferito che a occuparsene fosse un governo sul viale del tramonto, che non ha nulla da chiedere agli elettori.

di Carlo Musilli

“Ah, poi ci sarebbe l’8x1000… Ma non si preoccupi, non è obbligatorio indicare il destinatario”. Se nello studio del commercialista o al Caf vi sentite dire una frase del genere, drizzate le antenne. A livello tecnico è vero: la legge non impone alcun obbligo ai contribuenti sulla destinazione di questo contributo. In realtà, però, si tratta di un trucco burocratico che permette ogni anno alla Chiesa Cattolica d’incassare circa un miliardo di euro.

Il meccanismo di base è noto: gli italiani possono mettere una firma sulla dichiarazione dei redditi per destinare una quota della propria Irpef (l’8x1000, appunto) a una confessione religiosa oppure allo Stato. Fin qui è semplice.

Ma cosa succede agli 8x1000 di chi non indica alcun destinatario? La maggior parte delle persone crede che vadano automaticamente allo Stato, ma non è così. Vengono ripartiti in proporzione alle scelte fatte da chi un destinatario l'ha indicato. Traduzione: se non metti alcuna firma, l'80% del tuo 8x1000 va alla Chiesa Cattolica.

Guardiamo un po’ di numeri. Secondo un dossier della Corte dei Conti datato ottobre 2015, nella dichiarazione dei redditi 2012 il 53% degli oltre 41 milioni di italiani soggetti Irpef non ha indicato alcun destinatario dell’8x1000. Sempre sul totale dei contribuenti, il 37% ha firmato in favore della Chiesa Cattolica, che però alla fine – grazie al metodo di ripartizione di cui abbiamo detto – ha incassato circa l’80% del tesoretto complessivo degli 8x1000, pari a 995 milioni di euro. Più del doppio di quanto gli italiani avessero scelto esplicitamente di destinarle.

Questo giochetto è in vigore dal 1984, anno in cui il governo Craxi firmò con la Santa Sede un nuovo concordato per modificare i Patti Lateranensi d’epoca fascista. Il sistema fa discutere da sempre e la magistratura contabile ritiene che non sia "del tutto rispettoso dei principi di proporzionalità, di volontarietà e di uguaglianza", perché "neutralizza la non scelta" e porta un "evidente vantaggio" alla confessione religiosa più forte, quella cattolica, dal momento che "i soli optanti decidono per tutti". Le conseguenze sono due: primo, la minoranza impone la propria volontà alla maggioranza; secondo, meno persone esprimono una scelta, più aumenta il peso economico delle scelte espresse.

Un altro aspetto da sottolineare è la leggerezza con cui lo Stato ogni anno rinuncia a una buona fetta di potenziali introiti, evitando sistematicamente di organizzare campagne informative sull’8x1000. Alle casse pubbliche vanno sempre le briciole: l’anno scorso meno di 190 milioni di euro.

Del resto, scrive ancora la Corte dei Conti in una relazione pubblicata quest’anno, lo Stato è “l’unico competitore che non sensibilizza l’opinione pubblica sulle proprie attività e che non promuove i propri progetti”. E lo scarso interesse per la quota di sua competenza “perdura nonostante sia stata aggiunta tra le finalità finanziabili la ristrutturazione degli edifici scolastici – continuano i magistrati contabili – Contrariamente all’impegno manifestato lo scorso anno, la stessa Presidenza del Consiglio ha confermato che, ancora una volta, non si sono promosse specifiche campagne pubblicitarie sui media”.

Intanto, siamo reduci da una manovra correttiva da 3,4 miliardi e l’anno prossimo dovremo trovarne altri 19 per evitare che scatti l’aumento dell’Iva, cifra che salirà a 23 miliardi nel 2019. C’è da scommettere che nei prossimi mesi governo e Parlamento – qualunque essi siano – torneranno a parlare di tagli ai ministeri, revisione delle agevolazioni fiscali, aumenti delle imposte e ritocchi nottetempo delle accise. A nessuno, però, verrà in mente di recuperare qualche centinaio di milioni dall’8x1000.

di Carlo Musilli

Dallo scorso 4 maggio migliaia di donne italiane possono richiedere all’Inps il “bonus mamma domani”, la misura per la famiglia più attesa fra quelle varate con l’ultima legge di Bilancio. Il suo nome tecnico è “premio alla nascita” e nei mesi scorsi è stato presentato come un’arma per combattere il calo demografico. In realtà, si tratta di un’aberrazione sociale che dimostra quanto un malinteso principio di uguaglianza possa rivelarsi fonte d’ingiustizia.

Il bonus consiste in 800 euro che le future madri ricevono una volta concluso il settimo mese di gravidanza oppure al momento dell’adozione. Il denaro si riceve dall’Inps in un’unica soluzione e non viene conteggiato ai fini Irpef. Tutto qui. Manca qualcosa, vero? Già, manca il tetto di reddito: non è prevista alcuna soglia di ricchezza oltre la quale non si abbia diritto al bonus.

In altri termini, la “mamma domani” può essere chiunque: una notaia, una gioielliera, un’amministratrice delegata o un’agente di Borsa. Non fa alcuna differenza se lo stipendio è alto o la parcella salata: anche le donne benestanti, ricche o ricchissime hanno diritto a questi 800 euro se sono incinte o adottano un bambino.

In questo modo una misura di welfare in teoria lodevole si trasforma in uno strumento di ingiustizia sociale. Che senso ha spendere soldi pubblici per aiutare chi non ha alcun bisogno di essere aiutato?

Secondo un rapporto Istat di metà aprile, sono più di 8 milioni gli italiani poveri e di questi circa 4 milioni e mezzo si trovano  in condizioni di povertà assoluta, cioè non riescono ad acquistare il minimo indispensabile per vivere. Non sarebbe il caso di concentrare su di loro le risorse che lo Stato può destinare al welfare?

Può sembrare demagogia, ma la questione è più che mai pratica. Per il bonus mamma domani il governo Renzi ha stanziato nel bilancio di quest’anno 392 milioni di euro, parte dei quali andranno su conti corrente già gonfi. È chiaro che la cifra in gioco – quand’anche fosse dirottata su progetti più utili – non risolverebbe il problema della povertà in Italia. Ed è ovvio anche che molte donne in condizioni di necessità otterranno un aiuto concreto dalla nuova agevolazione. Ma il punto è un altro e riguarda il metodo con cui il nostro paese spende le risorse che ha a disposizione.

Con Bruxelles che vigila su ogni decimale dei conti pubblici, l’Italia prima combatte per ottenere flessibilità, poi la spreca. Usa i soldi in più per finanziare (in deficit) misure ispirate dalla speranza di un tornaconto elettorale piuttosto che dalla preoccupazione per le condizioni socioeconomiche del paese.

In tre anni di governo Renzi più cinque mesi di governo Gentiloni l’Italia ha speso/stanziato 50 miliardi di euro in bonus. Una cifra che fa impressione alla luce degli scarsi risultati prodotti, visto che l’anno scorso il Pil è cresciuto dello 0,9% e quest’anno non dovrebbe andare oltre l’1%, quasi la metà della media Ue.

Certo, non abbiamo la controprova di come sarebbe andata senza questo oceano di bonus, né ha senso cercare di immaginare cosa avremmo potuto fare di meglio con quei 50 miliardi se li avessimo destinati a investimenti produttivi. Tuttavia, è il caso perlomeno di mettere in discussione la logica che sta a monte della maggior parte di questi bonus, ossia la loro distribuzione a pioggia, senza criteri economici né priorità sociali. E con una visione prospettica che non va mai oltre le scadenze elettorali.

di Carlo Musilli

Emmanuel Macron piace moltissimo ai mercati. Dopo il primo turno delle presidenziali francesi, che hanno visto il leader di En Marche andare al ballottaggio da superfavorito contro Marine Le Pen, su tutte le piazze finanziarie sono volati i tappi di champagne. Lunedì la Borsa di Parigi ha chiuso in rialzo del 4,1%, mentre quella di Milano ha fatto ancora meglio (+4,8%).

Sul mercato delle valute, l’euro ha toccato il massimo da sei mesi contro il dollaro (a 1,0871), mentre sul fronte obbligazionario lo spread fra i titoli di Stato francesi e tedeschi è crollato del 21 per cento, intorno ai 50 punti base, e il rendimento sui bond decennali della Francia è sceso in poche ore dallo 0,88 allo 0,84%.

Nelle sedute successive non si è più visto tanto entusiasmo, ma solo perché buona parte dell’effetto-Macron era già stato assorbito dai mercati ancor prima del voto di domenica scorsa.

Le ragioni di questa luna di miele fra l’ex ministro socialista e gli investitori sono due. Innanzitutto, la vittoria di Macron – che secondo i sondaggi sarà ampia – allontana lo spettro neofascista di Marine Le Pen, leader di un partito apertamente anti-euro, anti-Ue e anti-Nato. La prevedibile sconfitta del Front National consente agli analisti delle case d’investimento di accantonare lo scenario di rischio più spaventoso che abbia minacciato l’Europa negli ultimi anni. Un’eventuale uscita della Francia dall’Unione europea e dall’Eurozona produrrebbe conseguenze catastrofiche, neanche lontanamente paragonabili a quelle che hanno fatto seguito al voto sulla Brexit.

In secondo luogo, Macron piace ai mercati per quello che rappresenta in sé. Non è solo l’unica alternativa alla sciagura antisistema e anti-establishment: lui stesso è un paladino del sistema e dell’establishment. Ex banchiere d'affari alla Rothschild, è essenzialmente un neoliberista. Malgrado i suoi trascorsi fra i socialisti francesi – prima come consigliere del presidente Hollande, poi come ministro del governo Valls – è espressione della destra economica che governa a Bruxelles. Non a caso, la sua adesione al verbo europeista è assoluta e si fonda sulla convinzione che i singoli governi debbano cedere ulteriori quote della propria sovranità alle istituzioni comunitarie. Se l’obiettivo dell’Italia è alleggerire il Fiscal Compact nel segno di una maggiore flessibilità, Macron non è sicuramente il migliore degli alleati.

Per farsi un’idea della collocazione politica di questo presunto apolide è sufficiente dare un’occhiata al suo programma economico. Fra le varie misure si parla di tagli alla spesa pubblica per 60 miliardi entro il 2022; riduzione di 120mila posti di lavoro nel settore statale; rispetto della regola di Maastricht sul deficit, che deve essere inferiore al 3% del Pil; taglio delle tasse sulle imprese dal 33% al 25%; esenzione dall’imposta locale sulla prima casa per l’80% delle famiglie ed esclusione degli investimenti finanziari dalla tassa patrimoniale.

Intendiamoci, tutto ciò non ha nulla a che vedere con la follia lepenista – e di questo ci rallegriamo tutti – ma è pur sempre un programma di destra. Moderata, ma destra. Preferire Macron al Front National è un conto, essere d’accordo con lui un altro. Per questo è difficile comprendere la posizione di chi, partendo da una prospettiva di sinistra o di centrosinistra, trascende il comprensibile sollievo per lo scampato pericolo neofascista e si abbandona all’entusiastica esaltazione di En Marche e del suo leader. Al contrario, capire per quale ragione Macron piaccia tanto ai mercati è piuttosto semplice.

di Antonio Rei

C’è un’idea fissa di cui Pier Carlo Padoan non si riesce a liberare. Da anni una vocina sussurra nell’orecchio del ministro dell’Economia lo stesso ritornello: “Devi alzare l’Iva”. Il numero uno del Tesoro cerca di resistere, ma poi, ciclicamente, le sue difese crollano e quell’idea torna a circolare. Nei suoi conti di tecnico, chissà per quale modello o proiezione, questa prospettiva un senso ce l’ha. Il problema è che, da ministro, Padoan dovrebbe anche preoccuparsi delle ragioni della politica.

E la politica non va tanto per il sottile: al di là di tutti i calcoli fiscali o economici possibili, alzare la tassa più odiata e più evasa d’Italia a pochi mesi dalle elezioni sarebbe come impugnare la katana del samurai e prodursi nel più clamoroso degli harakiri. È una considerazione elementare, ma il buon Pier Carlo non riesce a farsene una ragione.

E così, poco prima del Def, ecco che quell’idea rispunta. In un’improvvida intervista al Messaggero, il ministro torna a parlare dell’ipotesi di alzare l’imposta sul valore aggiunto per ridurre il peso delle tasse sulle buste paga. "Lo scambio tra Iva e cuneo fiscale suggerito dall'Ocse – spiega Padoan – è una forma di svalutazione interna che va a beneficio delle imprese esportatrici, che sono anche le più competitive". Peccato che in Italia ci sia anche qualche milione di consumatori: persone che ogni giorno fanno la spesa e che, prima o poi, torneranno a votare.

Di questo si rende conto benissimo Matteo Renzi, che da anni, in modo speculare rispetto a Padoan, ha una crisi di nervi ogni volta che a qualcuno viene in mente di parlare di Iva. Infatti anche stavolta il premier-ombra/segretario-Pd-in-pectore (locuzioni roboanti per non rilevare che, al momento, si tratta di un privato cittadino senza incarichi ufficiali) dopo aver letto le parole del ministro scatena subito la contraerea.

Prima lascia che a sparare il colpo d’apertura sia il capogruppo dem alla Camera, Ettore Rosato, con un tweet: “L’aumento Iva non è nel programma del Pd né può essere nelle intenzioni del governo”. Poi l’ex capo del governo scende in prima persona sul campo di battaglia per impallinare l’uomo che lui stesso, controvoglia, ha portato alla guida del Tesoro: “L’Iva non si tocca e non si toccherà – dice Renzi dal salottino di Matrix – Secondo Padoan e altri professori porterebbe benefici. Non sono d’accordo. C’è una crescita più alta del previsto e spazio per ulteriori iniziative. Dobbiamo fare come in questi anni: andare in Europa a gomiti larghi”.

A quel punto il duello da far west sembra inevitabile. Invece no. Padoan abbassa lo sguardo e batte in ritirata. In audizione davanti alle Commissioni bilancio di Camera e Senato per parlare di Def, il ministro rassicura i parlamentari Pd: “Il governo non intende aumentare l’Iva nel 2018: il rialzo sarà sostituito con altre misure”.

Qui serve una precisazione. L’aumento delle aliquote Iva non è un’idea estemporanea, ma una spada di Damocle che pende su ogni manovra finanziaria. Si tratta di una clausola di salvaguardia, ovvero di una misura che scatta automaticamente a meno che il governo non trovi le risorse per disinnescarla. E costa molto: nella manovra varata lo scorso dicembre sono stati stanziati 15,1 miliardi a questo scopo, cioè più della metà dell’intera legge di bilancio, che in tutto valeva 26,5 miliardi. Nel 2018 il conto sarà ancora più salato: serviranno 19 miliardi e mezzo, altrimenti le aliquote Iva saliranno dal 10% al 13% e dal 22% al 25%.

Da dove tireremo fuori, stavolta, questa montagna di soldi? “Non sono in grado di dirlo… Non se ne è ancora parlato”, ammette Padoan. Forse sogna di lasciare che l’Iva salga proprio perché le alternative sono difficili da trovare nelle pieghe del bilancio pubblico e c’è il rischio che la medicina si riveli peggiore della malattia. Ma tant’è: ci sono le elezioni e l’Iva non può salire. Questa è una certezza.

Il vero mistero è per quale ragione Padoan continui a tirare fuori la questione, visto che poi gli manca sempre il coraggio di sostenere lo scontro con Renzi. Del resto, parlare di aumento dell’Iva rovina la reputazione un po’ a tutti, perché smentisce il dogma governativo secondo cui le grandi riforme renziane sono state un successone. Non lo sono state: abbiamo speso una fortuna in mance e mancette che non hanno riattivato la crescita, né riacceso i consumi, né abbattuto la disoccupazione, né rilanciato gli investimenti. Siamo sempre allo stesso punto, sempre qui a cercare disperatamente di far quadrare i conti, ad avvelenarci sui decimali con Bruxelles per poi alzare le accise su sigarette e benzina, senza nemmeno la speranza di mettere in campo una manovra economica che segni un punto di svolta per il Paese. E nella testa quella vocina che ripete: “Prima o poi l’Iva salirà”.


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