di Agnese Licata

Quando si parla di concentrazione, in qualsiasi settore economico questa avvenga, la prima conseguenza a cui si pensa è la riduzione della libertà di scelta. Cosa che, in una società basata sulla democrazia e il pluralismo, dovrebbe essere vista come una delle minacce da contrastare con più forza. A maggior ragione, poi, se a concentrarsi nelle mani di pochi non sono aziende qualunque, ma proprio quelle che dovrebbero aiutare i cittadini a svolgere nel miglior modo possibile il proprio ruolo sociale, che è bel altro dall’essere semplici consumatori o appetibili voti da conquistare. Per questo non esiste paese democratico che non abbia introdotto particolari norme anti-trust (dall’inglese trust, concentrazione, appunto) per il settore dell’informazione. Oggi come oggi, però, in un mondo globale e nell’era di Internet, le leggi nazionali hanno sempre meno la forza d’imporsi. Per rendersene conto basta guardare a come nessuno si sia scandalizzato di fronte all’ultimo tentativo di acquisizione portato avanti da Rubert Murdoch, colui che già da anni viene definito “re dei media”, proprietario di una galassia – la News Corporation - con un utile netto valutato in 2,65 miliardi di dollari. Lo scorso primo maggio Murdoch ha offerto 5 miliardi di dollari per la Dow Jones. Questa società, oltre a redigere l’indice della Borsa di New York, è l’editore del Wall Street Journal, quotidiano finanziario tra i più autorevoli degli Stati Uniti, con numeri da capogiro: 600 giornalisti, 31 premi Pulitzer, oltre 2 milioni di copie vendute al giorno. L’offerta fatta dal magnate australiano è più che generosa: 60 dollari per azione, ossia il 65% in più rispetto al valore di chiusura al 30 aprile. Una valutazione che supera di ben 16 volte i profitti (lordi) attesi dalla Dow Jones per il 2007, anche perché da tempo la società è afflitta da difficoltà economiche.

Proprio per cercare un rilancio, la Dow Jones ha recentemente rinnovato i suoi vertici. Per la prima volta, a capo del gruppo è stato chiamato un non-giornalista, Richard Zannino. Inoltre, dopo 16 anni, Paul Steiger è stato estromesso dal ruolo di direttore del Wall Street Journal, per lasciare spazio a Marcus Brauchli, alla sua esperienza da corrispondente e, soprattutto, al suo interesse per le nuove tecnologie.

Se a queste difficoltà si aggiunge il momento non particolarmente felice che la stampa americana sta attraversando, viene da chiedersi perché un gruppo come la News Corp abbia deciso di fare una scommessa del genere. Perché, in un momento in cui grandi editori come Arthur Sulzberger (New York Times) profetizzano la morte della carta stampata a tutto vantaggio del digitale, perché scegliere d’investire una cifra spropositata per l’acquisto di un quotidiano? Le “malelingue” dicono che si tratti di un’operazione essenzialmente politica, in vista delle elezioni presidenziali.

Murdoch non nasconde di essere un conservatore e le sue tv, i suoi giornali sono sempre stati chiamati ad “adattare” servizi, titoli e notizie a questa sua ideologia. Aggiungere un pezzo da novanta come il Wall Street Journal a questa strategia d’influenza deve essere sembrato a Murdoch troppo allettante. Probabilmente è stata anche questa paura d’ingerenza ad aver spinto la famiglia Bancroft (che controlla il gruppo) a rispedire al mittente la generosa offerta.

Non è però ancora detta l’ultima parola. Dal 1986 ad oggi i Bancroft hanno lentamente ridotto le azioni in proprio possesso e potrebbero adesso essere tentati di vendere tutto, accettando un’offerta che difficilmente potrà essere superata. Una tentazione che, secondo quanto riportato dal The Economist, è forte soprattutto per i componenti più giovani della famiglia, meno coinvolti e interessati a portare avanti gli investimenti editoriali. La loro paura è di trovarsi costretti, in futuro, a vendere a un prezzo nettamente più basso, proprio come successo alla Tribune Company (proprietaria del Los Angeles Times e del Chicago Tribune). La famiglia Chandler che ne era proprietaria, dopo aver rifiutato altre offerte nel tentativo di strappare un prezzo migliore, ha dovuto vendere lo scorso mese a un prezzo irrisorio.

Accanto alla volontà di aumentare il peso delle proprie idee nelle prossime elezioni americane, per Rupert Murdoch ci sarebbe anche la necessità di procurarsi contenuti per il nuovo canale economico che la News Corp ha intenzione di lanciare in autunno. Peccato che la Dow Jones abbia, fino al 2012, un contratto che la vincola a fornire contenuti alla Cnbs, canale televisivo titolare dell’informazione finanziaria. Nonostante questo e nonostante le azioni della News Corp siano scese all’indomani della notizia dell’offerta, molti analisti ritengono che il Wall Street Journal, inserito all’interno di un network potente e variegato come quello di Murdoch, possa fruttare molto più di adesso.

Il vero dibattito, però, dovrebbe fermarsi proprio sul pericolo che un gruppo del genere aumenti ancora la sua influenza. Bisognerebbe chiedersi se non sia il caso di rivedere le leggi nazionali e internazionali che consentono una tale concentrazione. Nel 1987 Rupert Murdoch, australiano, decise di acquisire la cittadinanza americana per aggirare la legge che impediva ai non americani di possedere quotidiani. Adesso, ha un impero trasnazionale, ben rappresentato in tutti i settori e un potere tale che nessuno solleva obiezioni. Basta provare a guardaci dentro per rendersi conto della vastità.

Tanto cinema, innanzitutto, con la 20th Century Fox. Molta televisione, sia in chiaro (Fox Network e 35 canali solo in America) sia via cavo (con in testa Fox News, l’inglese BSkyB, Sky Italia, e non solo). L’editoria conta l’8% del gruppo, con 28 quotidiani australiani, due inglesi e uno statunitense (il New York Post). Recentemente Murdoch si era concentrato sul settore multimediale, acquisendo MySpace e lavorando per lanciare la sua versione di YouTube.

È giusto che una sola persona concentri su di sé tutta questa influenza, tutto questo potere? È un vantaggio per i cittadini lasciare che il libero mercato decida per la drastica riduzione del pluralismo nell’informazione? La mano invisibile del mercato teorizzata da Adam Smith fa davvero il bene comune oppure avvantaggia solo pochi individui? In un settore come quello dei media, dove la barriera all’ingresso di nuovi soggetti è già alta (perché per entrarvi sono richiesti investimenti sempre più ingenti), ha senso chiudere gli occhi? A queste domande bisognerebbe trovare una risposta, se non s'intende la democrazia come un semplice sistema elettorale.

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