di Mario Braconi

I Fondi Sovrani, braccio operativo di alcuni governi nella finanza globale, investono enormi quantità di denaro negli USA e in Europa; grazie ai prezzi bassissimi conseguenti al crollo delle Borse essi hanno acquistato attività pregiate a prezzi di realizzo, ridisegnando la mappa degli equilibri strategici globali - secondo BreakingViews, nell’ultimo anno i Fondi Sovrani hanno fatto shopping per oltre 75 miliardi di dollari. Alcuni esempi: a fine 2007, dopo l’annuncio di costi straordinari per oltre 9 miliardi (effetto subprime), la China Investment Corporation (patrimonio stimato attorno ai 200 miliardi di dollari) ha iniettato nella banca americana Morgan Stanley Dean Witter cinque miliardi di dollari di capitali freschi; la stessa China Investment Corporation ha anche investito 3 miliardi di dollari in BlackStone, importante gestore di fondi americano con attività globali (tra le sue molte attività possiede alcuni parchi Legoland e, in Italia, Gardaland). Il fondo sovrano del Qatar (Qatar Investment Authority, patrimonio stimato intorno ai 60 miliardi di dollari) con il 14,5% è il primo azionista del LSE (London Stock Exchange, Borsa di Londra, di cui fa parte anche Borsa Italiana) e detiene il 27% del gruppo britannico Sainsbury (supermercati). L’americana Citicorp, una delle più grandi banche del mondo, per salvarsi dallo tsunami subprime, (10 miliardi di dollari di costi straordinari) è stata costretta a bussare alla porta della ADIA (Abu Dhabi Investment Authority), il più grande fondo sovrano del mondo, una corazzata con patrimonio compreso tra i 650 e gli 850 miliardi di dollari (dati ufficiali è impossibile averne). Grazie alla “spintarella” di Robert E. Rubin, ex Treasury Secretary (Ministro del Tesoro) sotto Bill Clinton e attuale direttore di Citigroup, volato nel Golfo con il cappello in mano, arriva sulla martoriata banca USA una pioggia di 7,5 miliardi di petroldollari (poco meno del 5,0% del capitale). Un salvataggio simile venne messo in atto dal principe saudita Walid bin Talal, che negli anni 80 acquistò a sua volta un 5% della banca. Risultato: oggi il 10% della banca americana è nelle mani di investitori mediorientali.

Ma è utile fare un passo indietro. Le legge americana prevede che le conseguenze per la sicurezza nazionale di acquisizioni di società USA da parte di non americani siano vagliate da un apposito comitato (Comitato per gli Investimenti Esteri negli Stati Uniti o Committee on Foreign Investment in the US, CFIUS). Ebbene, quando nel 2006 il CFIUS si è espresso sulla acquisizione della P&O (una società britannica attiva nella gestione di diversi scali marittimi negli USA) da parte di una compagnia marittima di Dubai (Dubai Ports World, DPW), il suo verdetto favorevole, emesso in tempi record anche grazie alla benedizione del presidente Bush, ha generato una sollevazione bipartisan talmente violenta che alla fine DPW è stata costretta a vendere P&O ad un soggetto americano (il colosso finanziario-assicurativo AIG). I membri del Congresso USA hanno dunque ritenuto un intollerabile vulnus alla sicurezza nazionale il fatto che una società degli Emirati Arabi Uniti gestisse 24 terminal di container dei porti di New York, New Jersey, Philadelphia, Miami e New Orleans (che ne contano un totale di 829), in un Paese in cui comunque il 75% del traffico merci in arrivo via container è già gestito da società non americane.

Sembra di capire che i dollari arabi sono pericolosi se investono nei porti USA, ma sono i benvenuti quando devono rimediare ai danni che le banche si sono autoinflitte grazie a politiche dissennate operate nella più allegra deregulation. Strano modo di garantire la sicurezza dei cittadini: “l’argent fait la guerre”.

Angela Merkel ha sempre nutrito poca simpatia per i Fondi Sovrani di paesi non totalmente democratici (in particolare quelli dei Paesi Arabi, dell’Estremo Oriente e della Federazione Russa). A farla passare dalle parole ai fatti, la possibile acquisizione di Hapag-Lloyd (anche in questo caso una compagnia di trasporti marittima) da parte della NOL (Neptune Orient Lines), controllata da un fondo sovrano di Singapore (Temasek Holdings, proprietario del 17% di Standard Chartered Bank e del 10% di Merrill Lynch, 110 miliardi di dollari stimati di patrimonio, diretto dalla moglie del primo ministro di Singapore). Sulla scorta della protesta dei portuali di Amburgo, fieramente contrari al potenziale acquirente asiatico, il 20 agosto il governo federale ha approvato un progetto di legge che dal primo gennaio 2009 gli consentirà di bloccare l’acquisizione di partecipazioni di società tedesche superiori al 25% del capitale da parte di fondi sovrani non europei.

E’ sempre possibile che i paventati rischi per la sicurezza nazionale nascondano tentazioni protezionistiche, tanto più forti in un momento di grave crisi economica e finanziaria. Ma sarebbe ingenuo non riconoscere il rischio che fondi sovrani gestiti da Paesi non democratici possono rappresentare per le democrazie occidentali. Consideriamo, in primis, la trasparenza: molti di essi non pubblicano che qualche scarno depliant, il più delle volte non esistono dati ufficiali neanche sulle somme gestite. Il secondo problema è quello dell’importanza strategica delle attività nel portafoglio dei fondi: è intelligente che gli stati si privino del controllo di asset così strategici (trasporti, difesa, energia)? E infine, ancora più importante:: poiché i fondi sovrani sono un’emanazione dei governi, e spesso di governi che non sono particolarmente amici delle democrazie di tipo occidentale, possiamo dirci del tutto tranquilli quando, ad esempio, membri di un clan wahabita siedono nel consiglio della prima banca del mondo? O quando una banca pubblica russa (la Veb) entra nel capitale della società EADS, colosso europeo della difesa? Senza contare che si stima che, nei prossimi cinque anni, le già ragguardevoli risorse di questi investitori potenti e discreti sembrano destinate a quintuplicarsi, raggiungendo una potenza di fuoco di 13.000 miliardi di dollari.

Ma non tutti i fondi sovrani possono essere considerati pericolosi. Il Fondo Pensioni del Governo norvegese, ad esempio, non solo rappresenta un modello di lungimiranza politica (a dispetto del suo nome, il suo oggetto sociale è utilizzare i dividendi del petrolio per assicurare benessere alle generazioni future anche quando l’oro nero sarà finito), ma ha standard elevatissimi di trasparenza e responsabilità sociale. Ad esempio, non investe in società coinvolte nella produzione di armi, di energia nucleare o che siano sotto scrutinio per violazioni dei diritti umani o delle leggi sul lavoro (non a caso ha bandito dal suo portafogli molte società “blasonate”, tra cui Wal Mart, Boeing, Honeywell, Northrop Grumman e United Technologies, Safran, Bae Systems e perfino l’italiana Finmeccanica per la joint-venture Mbda, attiva nella produzione di missili nucleari in Francia). La massa critica del Fondo norvegese (il secondo al mondo, con i suoi 322 miliardi di dollari) gli consente evidentemente il lusso di dire molti “no” sonori a gente che è invece adusa all’obbedienza degli altri. Come dire, qualche volta il petrolio fa bene al mondo…

Insomma se è vero, come sostiene Michael Walsh di Ethical Investor (ONG Australiana) che “qualora due o tre di questi superfondi decidessero di promuovere best practice aziendali, potrebbero davvero cambiare volto al pianeta”, non resta che fare il tifo per il fondo norvegese e sperare che i nostri governanti apprezzino pienamente il pericolo rappresentato da molti dei fondi di paesi a non compiuta democrazia per il nostro futuro economico e politico.

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