di Mario Braconi 

La situazione dei conti pubblici del Regno Unito è disastrosa: al netto del passivo provocato dagli interventi a sostegno degli istituti di credito in bancarotta, il debito è arrivato a sfiorare il 50% del PIL (era 35% circa nel 2007); se invece si considerano gli effetti del salvataggio obbligato di Royal Bank of Scotland e del Lloyd’s Group, il debito della Gran Bretagna si attesta appena sotto il 155% del prodotto interno lordo.

Lo scenario è quello caratterizzato da “lacrime e sangue”, impudicamente reclamati dal Governo ai cittadini del Regno. I quali ora sono costretti a fare esperienza diretta dei “vantaggi” di un’economia intossicata dall’ipertrofismo finanziario: non solamente i soldi delle loro tasse sono stati utilizzati (bruciati?) per rimediare agli errori catastrofici di manager incompetenti e irresponsabili, ma dovranno abituarsi all’idea che lo stato sociale, pure con tutti i suoi difetti e le sue inefficienze, è solo un ricordo del passato, mutilato com’è da tagli per miliardi di sterline l’anno.

In questo difficile contesto, gli spin doctor del partito conservatore hanno pensato bene di rianimare un concetto che nel corso della campagna elettorale aveva avuto ben poca visibilità: quello di “Big Society” (“Società Forte”, inteso come società autosufficiente, concetto opposto al “Big State”, ovvero “Stato Forte”). In effetti, dal punto di vista della comunicazione, è molto meglio parlare alla gente di uno Stato che dà loro gli strumenti di crescita e di sviluppo, anziché invitarla brutalmente ad arrangiarsi da sola: anche se il concetto è solo vagamente diverso, il primo funziona molto meglio. Al di là di tale ovvia considerazione, il concetto stesso della Grande Società di Cameron è molto vago.

In termini generali, l’idea del governo è quella di cancellare, in modo più o meno drastico e veloce, una serie di servizi normalmente forniti dallo Stato (scuola, trasporti, posta, supporto alle categorie svantaggiate) riallocandoli contestualmente ad associazioni di cittadini.

A dare supporto finanziario, una banca pubblica (la Big Society Bank, appunto) che avrebbe la “mission” di prestatore all’ingrosso: fornirebbe risorse ad altri soggetti, che a loro volta investirebbero nelle attività sociali. Secondo le stime contenute nel documento che illustra la “vision” del futuro ente finanziario, esso potrebbe contare su risorse per circa 10 miliardi di sterline (circa 12 miliardi di Euro).

Nicholas Timmins, che dalle colonne del Financial Times si è messo a far le pulci ai numeri del governo, ha tirato fuori numeri assai meno entusiastici: nel primo anno di operatività la banca della Società Forte potrebbe contare, infatti, su circa 300 milioni di sterline, di cui 200 erogati (“a condizioni di mercato”) dalle prime quattro banche del Regno Unito.

Queste però, a quanto pare, si riservano di studiare ed approvare preventivamente il “business plan” della banca di stato (ebbene sì, le stesse banche che sopravvivono grazie al governo fanno le difficili quando si tratta di dare qualche spicciolo in attività socialmente utili).

Circa 60 milioni potrebbero venire dai conti correnti cosiddetti dormienti, ovvero dai saldi di conti correnti bancari mai reclamati per un certo periodo di tempo (un fenomeno che “vale” complessivamente 400 milioni di sterline); i rimanenti 40 milioni sarebbero invece prelevati dai flussi prodotti dalla lotteria pubblica. Insomma un bilancio tenuto insieme con lo sputo, per così dire, per un’istituzione investita di notevoli responsabilità sociali. Il tutto senza considerare, nota ancora Timmins, che i 10 miliardi promessi dalla Big Society Bank si confrontano con l’attuale mercato degli investimenti in attività socialmente utili effettuati da fondazioni e da privati ricchi, attualmente stimato attorno ai 200 milioni.

Anche lasciando da parte le considerazioni di tipo strettamente quantitativo, è il concetto in sé di Società Forte a suscitare non poche perplessità, anche in campo conservatore: alcune delle contraddizioni intrinseche nel progetto di Cameron vengono messe a fuoco da Danny Krueger, un suo ex consigliere, sempre sul Financial Times: come dovremmo interpretare il progetto della Big Society? “Un’agenda morale (basata sul senso di responsabilità) o un’agenda di liberalizzazioni (basata sull’empowerment)?”.

Secondo Krueger, il successo del progetto Big Society è fortemente ipotecato dalle sue contraddizioni intrinseche: si tratta infatti di “una iniziativa del governo centrale che identifica il suo nemico nel… governo centrale; di un’organizzazione di base nata a Whitehall (ovvero, in seno al governo, n.d.r.)”.

Ed Miliband, sull’Indipendent, sottolinea come l’atteggiamento di Cameron, e soprattutto la sua fretta, dimostrino un approccio fortemente ideologico: secondo Miliband, il primo ministro sembra davvero convinto del fatto che una presenza minimale dello Stato produca una società forte. Il dibattito su Stato forte o debole, secondo il leader laburista, è però illusorio: “Qui si tratta di avere un governo che sia semplicemente in grado di operare in modo armonioso con le sue comunità e con la società civile.”

A dispetto dei paludamenti impiegati dal partito conservatore per confondere gli elettori (si è parlato di “conservatori rossi”, di “svolta verde”, di “conservatorismo compassionevole”) ora viene fuori il volto vero del partito di Cameron: profondamente determinato a perseguire i suoi obiettivi anche a costo di lesionare in modo irreversibile il tessuto sociale del paese. Un film già visto, ad inizio degli anni 80, con i governi Thatcher e il drammatico pessimismo sul futuro collettivo che ne è stato uno degli elementi distintivi.

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