di Emanuele Vandac 

“Unicredit è spacciata: anzi no, sta benissimo”. Con questa battuta si potrebbero riassumere le cronache recenti sull’aumento di capitale della seconda banca italiana per capitalizzazione di borsa. Una via di mezzo tra una spy story, con gli inevitabili anglo-furbetti, e il melodramma dei piccoli risparmiatori che escono per non bruciarsi le mani. La nostra storia comincia con il verdetto della EBA (European Banking Authority), che ad ottobre 2011 sentenzia: 71 banche europee devono aumentare il loro capitale, per un totale di circa 106 miliardi di euro (strano a dirsi, molte banche americane ed inglesi vanno ripetendo da mesi un mantra secondo cui le banche europee sono sottocapitalizzate al punto da non essere in grado di affrontare la crisi).

La somma sarà rivista l’8 dicembre 2011, arrivando a sfiorare i 115 miliardi. Unicredit è tra le banche europee obbligate all’aumento di capitale: così dapprima ne delibera uno da 7,379 miliardi, portandolo successivamente a 7,974 (a causa delle perdite del terzo trimestre del 2011).

Dopo un accorpamento tecnico dei titoli (dieci vecchie azioni contro una nuova azione), dal 9 gennaio il valore delle azioni della banca (ordinarie e di risparmio) è stato decurtato di quello del diritto di opzione. In altre parole, dallo scorso lunedì, al posto delle azioni che detenevano in portafoglio, gli azionisti Unicredit possiedono due titoli: l’azione vera e propria, ed il diritto ad acquistarne altre due di nuova emissione, aventi le stesse caratteristiche di quelle in circolazione, al prezzo di Euro 1,943 (valore stabilito dal CdA il 4 gennaio 2012).

Ogni azionista della banca, dunque, si è trovato con le sue vecchie azioni più il diritto a comprarne il doppio tra il 20 e il 27 gennaio 2012. Il diritto di opzione è negoziabile in Borsa ed il suo valore iniziale è stato fissato in euro 1,359. La struttura dell’aumento di capitale è tale che le nuove azioni vengono offerte ad uno sconto del 43% sul valore “prezzo teorico del azioni dopo lo “stacco” del diritto” (TERP, con acronimo inglese). Non proprio un valore incoraggiante per i potenziali sottoscrittori, specialmente se si considera che, come specifica Monica D’Ascenzo su Il Sole 24 Ore, lo sconto medio applicato in Europa a simili operazioni è del 35% circa. Non a caso, il titolo, subito dopo l’annuncio delle determinazioni del CdA sull’aumento di capitale, crolla. Un naturale allineamento degli operatori di mercato al mood espresso con i numeri dalle figure apicali del management della banca.

I corsi dei titoli Unicredit (azione dopo lo stacco e diritto d’opzione) hanno continuato ad andare in picchiata per tutta la giornata del 9 gennaio; i diritti di opzione, che hanno iniziato la seduta attorno ad euro 1,30, hanno chiuso a circa 40 centesimi, con rimbalzi anche dell’80%. Non che mancassero ragioni per essere pessimisti: l’ancora irrisolto spettro del rischio paese si somma alla freddezza di alcuni importanti azionisti come le Fondazioni, combattuti tra l’enorme impegno dell’operazione di sottoscrizione dell’aumento di capitale ed il rischio concreto di essere “diluite” nel capitale e quindi di non contare più nulla in consiglio…

Ma la vicenda più incredibile è quella che ha per protagonista Blackrock. Il 2 Gennaio il fondo americano comunica a CONSOB la diminuzione della sua partecipazione nella banca italiana da oltre il 4% all’1%: un segnale di sfiducia nel progetto aziendale che ha contribuito non poco al peggioramento dell’umore dei possibili sottoscrittori. Ma non finisce qui, perché ieri CONSOB ha comunicato una notizia ancor più sconcertante: la segnalazione di Blackrock è, per ammissione dello stesso notificante, frutto di un errore tecnico commesso dal suo servizio legale (pare che gli avvocati del fondo non abbiano ben chiara la differenza tra una diminuzione nella quota di partecipazione causata da una diluizione e quella che invece è conseguenza della vendita dei titoli sul mercato…).

Non solo: a quanto sembra la rettifica del fondo americano è arrivata alla CONSOB il 6 Gennaio, giorno festivo in Italia, anche se la Borsa e la CONSOB erano comunque operative. La CONSOB non ha divulgato l’informazione in quanto attendeva il comunicato stampa dell’azionista, il quale peraltro non ha ritenuto di emetterlo prima dell’11 Gennaio. In pratica, come scrive su Il Giornale Marcello Zacché, “per un’intera settimana, la più grande operazione bancaria di aumento di capitale mai fatta in Italia, effettuata in piena bufera finanziaria, si è svolta mentre sul mercato circolavano notizie errate.” Anche se certamente qualcuno conosceva la verità.

Se si riuscisse a provare che le comunicazioni di Blackrock sono frutto di malizia anziché di malafede (cosa quasi impossibile), si tratterebbe di vero e proprio aggiotaggio: e per questo è sacrosanto l’intervento della CONSOB, che infatti sta indagando sulla vicenda. Un certo fastidio per l’accaduto traspare anche da Unicredit se è vero, come sostiene Antonio Vanuzzo sul sito di informazione Linkiesta, che un commento velenoso sia stato sibilato nei corridoi dell’alta direzione della banca: “I soliti furbetti anglosassoni”.

Certo è curioso che, mentre il 9 Gennaio tutti, ma proprio tutti, erano molto pessimisti sull’esito dell’aumento di capitale, il 10, l’11 e il 12 un caldo sole abbia ricominciato a splendere sull’operazione, facendo lievitare i corsi di azione e diritto d’opzione. Curioso che in un editoriale del 9 Gennaio il Financial Times attribuisse la débacle alla lentezza dell’AD Ghizzoni a procedere all’aumento di capitale tanto atteso. Anche se va detto che un altro articolo, pubblicato lo stesso giorno sul quotidiano economico, prendeva spunto da un documento della banca d’affari Nomura a firma di Chintan Joshi e Jon Peace (anch’esso citato da Vanuzzo), secondo cui i possibili movimenti al ribasso sui titoli coinvolti dall’operazione sarebbero stati assai più probabilmente frutto di speculazione che di aggiustamenti effettuati dai piccoli azionisti.

Un dato non del tutto sorprendente, dato che i disallineamenti nei prezzi sono stati velocemente recuperati attraverso un trading frenetico, pare per niente intimidito dal divieto (operativo in Italia dal 12 agosto 2011), di effettuare vendite allo scoperto. Non a caso, come spiega Morya Longo su Il Sole 24 Ore, sembra che ben “il 50% degli scambi sulle azioni UniCredit sia avvenuto in questi giorni fuori dalle mura di Piazza Affari, quindi fuori da mercati regolamentati, al telefono o nei cosiddetti “dark pool”[transazioni di notevole entità effettuate tra operatori istituzionali senza pubblicazione di dettagli ndr]”. Niente di nuovo sotto il sole.

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