di Mario Braconi

L’esito del vertice dell’8 e del 9 dicembre si può riassumere con la battuta di un diplomatico europeo citato da Reuters: “La Gran Bretagna si arrabbia, la Germania fa il broncio, la Francia esulta”. Sarkozy è apparso soddisfatto di aver aggregato attorno al progetto di riforma dei trattati europei i diciassette Paesi dell’area euro, e di aver conquistato l’appoggio di altri 6 stati dell’Unione Europea. Solamente sei, perché, oltre alla Gran Bretagna, che ha rotto apertamente, Svezia, Ungheria e Croazia hanno messo le mani avanti, sostenendo che il loro eventuale supporto potrà avvenire solo dopo un confronto parlamentare.

La Svezia non intende vincolarsi per il momento a regole disegnate per l’area euro, la Croazia sembra arenata su posizioni di euroscetticismo, mentre l’Ungheria, le cui finanze dipendono in modo sostanziale dal sostegno dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, non intende accettare condizioni che pongano limiti alla sua sovranità nazionale.

Non è escluso che la frattura consumatasi tra Unione Europea e Gran Bretagna sia stata propiziata da quella che un diplomatico di lungo corso definisce la “goffa tecnica negoziale” di Cameron. Obiettivo dichiarato di Cameron è quello di difendere l’industria finanziaria britannica, che con le sue commissioni e interessi, realizza circa il 10% del PIL del Regno Unito. Analizzando i dettagli, si comprende come la rigidità britannica non costituisca solo l’ennesimo esempio del tradizionale isolazionismo.

Cameron non intendeva fare compromessi sul mantenimento a Londra della European Banking Authority (EBA) e sulla libertà di stabilire autonomamente i requisiti patrimoniali delle banche, oggi più stringenti nel Regno Unito rispetto all’obiettivo del 9% previsto per le banche dell’area euro. Ma soprattutto vuole impedire a tutti i costi misure di dubbia utilità ma che comporterebbero un danno certo all’industria finanziaria: il divieto di effettuare transazioni denominate in euro in mercati diversi dall’eurozona (su Londra ne transitano circa la metà) e la cosiddetta Robin Hood tax sulle transazioni finanziarie (il cui gettito, secondo una stima riportata sul Guardian potrebbe aggirarsi attorno ai 60 miliardi di euro l’anno).

Non è scontato però che la mossa di Cameron abbia mietuto unanimi consensi in patria: secondo un operatore della City sentito dal Guardian, ad esempio, il veto di Cameron “non ci ha aiutati, anzi ci ha esposto”. Secondo Sony Kapoor del think-tank Re-define, “il Regno Unito si è isolato e ha perso la possibilità di influenzare il dibattito in modo produttivo, senza alcun tornaconto”; secondo Kapoor, è addirittura surreale sostenere di aver difeso gli interessi della City, quando, in materia di capitalizzazione, liquidità e struttura delle istituzioni finanziarie, il Regno Unito è oggi più avanti dei piani (futuri) dell’Unione Europea.

La sintesi migliore è quella di Vicky Redwood, economista alla Capital Economics, casa indipendente di ricerca macroeconomica: “Non è detto che la vita delle banche in Gran Bretagna sia così facile [in effetti si parla di riforme per separare le banche commerciali dalle banche d’affari, mentre i requisiti patrimoniali, come detto, sono pesanti], ma non essendo soggetti alle ‘loro’ regole possiamo rimanere competitivi: e questo è un bene.” Resta aperto il problema del fatto che oggi l’Unione Europa potrà imporre le sue regole a maggioranza, e farle implementare mediante la Commissione Europea e la Corte Europea di Giustizia, anche senza la Gran Bretagna.

Non sono emerse novità di rilievo sui contenuti del nuovo trattato, che dovrebbe essere siglato al massimo entro marzo del 2012: viene confermata infatti la struttura imposta dal direttorio franco-tedesco, che ribadisce l’obbligo che il deficit dei singoli stati non superi lo 3%, rendendolo ancora più tassativo. In caso di sforamento, scatteranno sanzioni automatiche, anche se è prevista una  scappatoia secondo cui la maggioranza qualificata può deliberare la mancata applicazione delle “punizioni”.

Più interessante la parte che riguarda i meccanismi difensivi: la BCE metterà la sua esperienze e conoscenze al servizio dello European Financial Stability Facility (EFSF), non solamente fungendo da agente nell’emissione della prima tranche di bond che verrà collocata il prossimo 13 dicembre. Viene anticipato a luglio 2012 il varo del ESM (European Stability Mechanism), che però, a causa del “nein” della Cancelliera non sarà una vera e propria banca, a differenza di quanto proposto da Van Rompuy. Si dà inoltre il via al leveraging del EFSF. Con il passaggio allo ESM, i fondi a disposizione del EFSF (attualmente 440 miliardi di euro, nella forma di garanzie prestate dagli stati membri) potranno essere aumentati (questa volta in forma di versamenti di cash) fino al limite massimo formalizzato nel documento di ieri (500 miliardi).

Mettendo insieme i due dati, limite massimo del contributo degli Stati più possibilità di indebitarsi (leveraging), ed ipotizzando un indebitamento pari al capitale, si raggiungerebbe una potenza di fuoco di circa 1.000 miliardi di euro. A questa somma si aggiungono gli ulteriori 200 miliardi (di cui 150 provenienti da Paesi dell’Area Euro) che, secondo il documento di ieri, potrebbero essere forniti nei prossimi dieci giorni dai paesi membri al Fondo Monetario Internazionale mediante accordi bilaterali. Il sistema di votazione del ESM prevede che, “quando è necessaria una decisione urgente relativa al soccorso finanziario in un contesto di pericolo per la continuità dell’area euro, l’unanimità viene rimpiazzata da una supermaggioranza dell’85%. Disposizione, questa, studiata per evitare il potere di ricatto dei paesi più piccoli, e pertanto fieramente osteggiata ad esempio da Finlandia e Slovacchia.

La cosa più importante è capire se quanto pattuito al vertice possa configurarsi come il fiscal compact (patto fiscale) che Draghi ha stabilito come pre-condizione al rafforzamento dell’azione diretta della BCE sui mercati dei titoli di stato. Il Presidente della BCE si è dimostrato cautamente soddisfatto: “L’accordo è la base per un buon patto fiscale e garantirà maggior disciplina da parte degli stati membri: riteniamo che verrà rimpolpato nei prossimi giorni”.

Per il momento, però, gli acquisti di titoli da parte della Banca Centrale saranno limitati a 20 miliardi a settimana: secondo un banchiere centrale che si è confidato con Reuters a condizione di non essere citato: “Vedrete altri acquisti, ma non il grande bazooka che i mercati e i media si attendono”.

E’ vero che la BCE si dimostra restia ad interagire pesantemente sui mercati: tuttavia, come nota Carlo Bastasin su Il Sole 24 Ore, con l’ulteriore taglio ai tassi della BCE può davvero convenire alle banche europee prendere in prestito all’1% per investire in titoli di stato che rendono oltre il 6%, portando casa un bel 5%. E’ questa anche la “dritta” di Sarkozy, che ai giornalisti ha detto che “ogni stato potrà contare sulle sue banche, che avranno liquidità a loro disposizione”.

Sarebbe una buona cosa, se non fosse che va in conflitto con le indicazioni alle banche che vengono fuori dagli stress test: smobilizzare titoli italiani e ricapitalizzarsi. Secondo l’economista Holger Schieding della banca privata tedesca Berenberg, infatti, “comprare titoli italiani è forse l’ultima cosa che le banche faranno con la liquidità in eccesso”.

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