di Michele Paris

L’ennesimo vertice dei paesi dell’eurozona si è concluso nella mattinata di giovedì senza alcun accordo di rilievo su possibili misure concrete per fronteggiare il rapido deteriorarsi della crisi del debito nel continente. A prevalere sono state le profonde divisioni sulla politica economica europea che vedono, da un lato, i governi che chiedono provvedimenti di stimolo alla crescita e dall’altro, a cominciare dal cancelliere tedesco Angela Merkel, quelli che non intendono fare alcuna marcia indietro dall’implementazione di rigide misure di austerity.

La proposta che sembra raccogliere sempre più sostenitori all’interno dell’Unione è l’emissione di eurobond, cioè titoli di debito europei garantiti congiuntamente da tutti e 17 i paesi che utilizzano la moneta unica. Come promesso in campagna elettorale, il neo presidente francese François Hollande si è fatto portavoce di questa iniziativa che mercoledì è stata però nuovamente respinta fermamente dalla Merkel.

Quest’ultima teme che con questo strumento la Germania finirebbe per garantire il debito dei paesi meno affidabili, causando un’impennata dei redimenti dei propri titoli e spingendo i loro governi ad abbandonare l’impegno di mettere in atto le “riforme” economiche richieste da Berlino e da Bruxelles. La Germania non è peraltro l’unico governo a respingere l’ipotesi degli eurobond. Nettamente contrari sono anche gli altri paesi UE considerati fiscalmente più solidi, come Olanda, Finlandia e Austria.

Berlino ha al contrario mostrato qualche apertura su altre misure più modeste per cercare di contrastare la crisi e rimettere in moto la crescita economica. Tra di esse ci sono lo stanziamento di maggiori fondi per la Banca Europea degli Investimenti, il dirottamento dei fondi strutturali europei già esistenti su programmi di crescita e l’emissione di “bond a progetto”, destinati cioè a finanziare solo specifiche iniziative.

Un’azione più aggressiva della Banca Centrale Europea, invece, è stata chiesta soprattutto dal primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy, il quale nell’esprimere preoccupazione per lo stato delle banche del suo paese, ha auspicato una nuova infusione di denaro agli istituti in difficoltà. Proposte più concrete, secondo i vertici dell’Unione, dovrebbero comunque essere presentate in un prossimo summit a fine giugno.

Un accordo tra i partecipanti al vertice di Bruxelles è stato raggiunto sulla permanenza della Grecia nella moneta unica, a patto tuttavia che il prossimo governo che nascerà ad Atene continui a mettere in atto le devastanti misure di austerity concordate con la troika (UE, BCE, FMI) in cambio del piano di salvataggio, cioè esattamente l’opposto di quanto espresso dagli elettori di questo paese lo scorso 6 maggio.

Questa posizione è stata espressa in modo chiaro da Angela Merkel nel corso di un breve faccia a faccia nella capitale belga con il premier greco ad interim, Panagiotis Pikrammenos, al quale la cancelliera ha detto che la Germania farà il possibile per aiutare il suo paese ma Atene dovrà rispettare gli accordi con i suoi creditori. Anche lo stesso Hollande, nonostante la retorica anti-austerity, ha ribadito che la Grecia “deve rispettare gli impegni presi”.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, in ogni caso, di fronte al moltiplicarsi delle voci sulla possibile uscita della Grecia dall’euro, i governi europei si stanno preparando per questa eventualità e per le conseguenze imprevedibili che essa avrebbe non solo su paesi come Spagna e Italia, ma anche sulla tenuta dell’intera unione monetaria.

A dimostrazione dell’aria che si respira nelle capitali europee, la Reuters ha rivelato che lunedì i ministri delle Finanze dell’eurozona, nel corso di una “conference call”, si sono accordati per predisporre piani di emergenza in caso di un abbandono della moneta unica da parte della Grecia. I timori sono legati alle nuove elezioni in programma il prossimo 17 giugno, il cui esito potrebbe segnare il destino di Atene.

I più recenti sondaggi indicano un testa a testa tra Nuova Democrazia (ND), partito di centro-destra favorevole all’accordo con la troika, e la Coalizione della Sinistra Radicale (SYRIZA) di Alexis Tsipras che intende invece rinegoziare i termini del prestito da oltre 100 miliardi di euro concordato quest’anno. In caso di un successo elettorale di quest’ultimo partito o con un nuovo stallo nelle trattative per la formazione dell’Esecutivo, le probabilità di vedere la Grecia tornare alla dracma aumenterebbero vertiginosamente.

A rendere ancora più allarmante il futuro dell’Unione è stata poi l’altro giorno la pubblicazione di un rapporto OCSE che ha prospettato un ulteriore aggravamento della crisi economica in Europa. Senza provvedimenti incisivi per invertire la tendenza, ha avvertito l’OCSE, la crisi europea rischia di gettare in recessione l’economia dell’intero pianeta.

Le cupe prospettive della Grecia e la sostanziale paralisi dei governi europei di fronte alla crisi ha affossato i mercati di tutto il mondo nella giornata di mercoledì. L’euro, inoltre, è sceso ai livelli più bassi dal luglio 2010 nei confronti del dollaro. Gli investitori si sono precipitati sui titoli dei paesi europei che ancora godono della tripla A. I bond tedeschi trentennali sono così scesi al rendimento più basso mai registrato, mentre il record è stato sfiorato per quelli decennali. In netto ribasso sono stati anche i titoli olandesi e finlandesi.

Nonostante le differenze emerse ancora una volta a Bruxelles, tutti i governi dell’eurozona, e non solo, condividono la volontà di far pagare gli effetti della crisi in atto alla maggioranza della popolazione europea. Le cosiddette misure di “stimolo” alla crescita avanzate da alcuni paesi consistono infatti principalmente nell’erogazione alle banche di ancora più denaro virtualmente a costo zero e nell’adozione di “riforme” del mercato del lavoro che renderebbero ancora più precaria la situazione di decine di milioni di persone. Il tutto, ovviamente, senza scostarsi se non in maniera superficiale dalle politiche di rigore che già hanno aggravato la crisi economica e sociale un po’ ovunque in questi ultimi anni.

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