di Carlo Musilli

Mark Zuckerberg si è sposato sabato scorso e nella lista di nozze aveva espresso un solo desiderio: il boom di Facebook a Wall Street. Purtroppo per lui gli operatori di Borsa non sono gente dal cuore tenero e, invece del regalo, hanno deciso di fargli un bello scherzetto. Così la quotazione del mastodontico social network si è trasformata in uno dei flop più clamorosi della storia. Nelle prime tre sedute, il titolo è crollato del 19%, bruciando quasi un quinto del suo oceanico valore di partenza, superiore ai 100 miliardi di dollari.

Il costo di ogni singola azione è sceso sotto i 31 dollari, dai 38 iniziali. Fra le maxi-Ipo americane che hanno raccolto più di un miliardo (e quella di Facebook è stata la terza più grande della storia dopo Visa e General Motors), si tratta del peggior esordio negli ultimi cinque anni. Com'è possibile? La creatura di Zuckerberg non era una macchina da soldi?

Il tonfo di martedì (-8,9%) è quello che si spiega più facilmente e getta una luce sinistra sull'intera vicenda. Mary Schapiro, presidente della Securities and Exchange Commission (la Consob americana), ha annunciato che "saranno esaminati" i problemi legati all'Ipo del social network.

Venerdì, giorno del debutto sui listini, il Nasdaq ha fatto davvero una brutta (e insolita) figura: per una serie di guai tecnici, gli scambi sono iniziati con mezz'ora di ritardo e - quando finalmente sono partiti - l'indice ha avuto difficoltà nel comunicare l'esecuzione degli ordini ai trader. Uno degli investitori ha deciso di fare causa al Nasdaq, sostenendo di aver subito gravi perdite a causa del malfunzionamento.

Ma le stranezze non sono finite. Secondo il Financial Times, le autorità di sorveglianza dei mercati finanziari del Massachusetts hanno emesso un'ingiunzione nei confronti di Morgan Stanley, accusata di aver giocato sporco con gli investitori di Facebook. Alla vigilia dell'Ipo, gli analisti dell'istituto (per bocca dell' "esperto di internet" Scott Devitt) hanno tagliato le previsioni sugli utili 2012 dell'azienda.

A pesare sul giudizio è stato soprattutto il fatturato della pubblicità legata agli accessi tramite smartphone, un traffico in costante crescita rispetto a quello via computer, ma innegabilmente meno redditizio. Fin qui non ci sarebbe nulla di sospetto: si tratta di valutazioni sensate. Le autorità però intendono verificare se la Banca abbia comunicato la revisione dei target a tutti i clienti - come avrebbe dovuto fare - o solo ad alcuni.

“Dopo che Facebook ha presentato il 9 maggio un aggiornamento alla Sec, in cui forniva un'ulteriore guidance rispetto ai suoi trend di business - si difende la Banca in un comunicato - una copia del documento emendato è stata inviata a tutti gli investitori istituzionali e privati di Morgan Stanley e la modifica è stata ampiamente pubblicizzata dalla stampa in quei giorni”. Gli azionisti però non sono d'accordo e hanno avviato un'azione legale non solo contro la Banca, ma anche contro l'azienda stessa e l'amministratore delegato Zuckerberg.

Per fare chiarezza occorre però tener presente un dettaglio decisivo. Chi è stato il maggior sottoscrittore dell'Ipo e il responsabile del collocamento in Borsa di Facebook? Ma guarda un po', sempre Morgan Stanley. Bisogna capire allora perché mai una delle banche più prestigiose al mondo abbia tagliato le gambe alla stessa azienda in cui sta investendo un mucchio di soldi. Sembra addirittura che non sia stata l'unica: rumors di mercato dicono che anche Goldman Sachs e JP Morgan abbiano sottoscritto l'Ipo comportandosi allo stesso modo. Certo, gli analisti (in linea teorica) dovrebbero fare il loro dovere senza tener conto degli interessi della banca per cui lavorano. Ma nell'aria rimane odore di speculazione. Anche perché la lista dei misteri non è finita.

In tutta questa storia, la prima bizzarria in assoluto è il prezzo a cui sono state vendute in origine le azioni: quei famosi 38 dollari, che implicano una valutazione complessiva della società oltre il muro dei cento miliardi. La cifra è stata gonfiata in extremis, ancora una volta con l'aiuto di Morgan Stanley. A quel punto la Banca già sapeva che avrebbe dovuto rivedere i target della società, ma - a pochi giorni dalla quotazione - si è comunque battuta per aumentare i titoli in vendita da 337,4 a 421 milioni, ritoccando anche generosamente il loro valore rispetto al range di 28-35 dollari calcolato a inizio maggio. Un'esagerazione, e gli investitori se ne sono accorti subito. Facebook non vale tutti quei soldi. 

 

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