di Carlo Musilli

Oltre al rigore c'è di più. Dopo anni passati in ginocchio davanti all'altare dell'austerity, alla fine questa illuminazione è arrivata anche nei cieli di Strasburgo. E non in un circolo di vecchi compagni con la bandiera rossa attaccata alla parete, ma nella venerabile sede del Parlamento europeo. "Bisogna ritrovare la dimensione sociale dell'unione economica e monetaria con misure come il salario minimo in tutti i Paesi della zona euro, altrimenti perderemo credibilità e approvazione della classe operaia, per dirla con Marx". Parole sorprendenti, arrivate non da un "pericoloso estremista" (come ha ironizzato Nichi Vendola), ma nientedimeno che da Jean Claude Juncker, presidente dell'Eurogruppo, premier del Lussemburgo e membro di spicco del Partito popolare europeo. Non proprio un manipolo di trozkisti.

"Stiamo sottovalutando l'enorme tragedia della disoccupazione, che ci sta schiacciando - ha proseguito Juncker -. Attualmente supera l'11% e dobbiamo ricordarci che quando è stato creato l'euro avevamo promesso agli europei che tra i vantaggi della moneta unica ci sarebbe stato un miglioramento degli squilibri sociali".

Secondo Juncker, il vero problema è la mancanza di un accordo europeo "sulla strada da imboccare nei prossimi anni: gli Usa e gli altri ci interpellano a proposito e noi abbiamo solo risposte di cortissimo respiro". E quale sarebbe un primo passo convincente? Innanzitutto un modello di fiscalità realmente progressivo: "Vorrei che in Europa si facesse sopportare le conseguenze della crisi ai più forti, è questa la solidarietà - ha detto ancora Juncker -. Non mi piace sentir dire che è necessario colpire i più svantaggiati perché sono più numerosi. Ne va del modello europeo. Non accetto che i ricchi non paghino semplicemente perché sono di meno".

Insomma, ieri finalmente abbiamo ascoltato da un'autorevole fonte europea un discorso incredibilmente diverso dal solito, un punto di vista a cui nessuno dei tecnocrati era più abituato. Il numero uno dell'Eurogruppo ha attaccato il modello d'austerity che attualmente domina la politica economica europea, ma a sostenere il suo intervento non c'erano in primo luogo le ragioni dell'economia. Dalle sue parole è emersa un'istanza che sembrava ormai smarrita: la preoccupazione sociale, la solidarietà che si richiede ai cittadini della medesima comunità in virtù di un principio di giustizia.

Naturalmente Juncker non è arrivato a mettere in discussione il rigore: anche per lui il pareggio di bilancio rimane la stella polare verso cui fare rotta. Tuttavia, per la prima volta è sembrato che anche nei cuori degli eurocrati possa germogliare un dubbio, se non sulla destinazione finale, quantomeno sulla via migliore per raggiungerla. Comincia a insinuarsi il sospetto che l'austerità di oggi possa rivelarsi ben più cara di quanto riescano a comprendere i maestri della finanza: i conti pubblici magari torneranno in ordine, ma prima di allora avremo ridotto in miseria milioni di persone.

Ci sono delle elementari ragioni economiche che sconsigliano di proseguire su questa strada (come torneremo a crescere quando nessuno sarà più in grado di consumare?), ma evidentemente chi ha responsabilità di governo non può semplicemente scrollare le spalle davanti alla questione sociale. Nemmeno il giorno prima del default.

Purtroppo fino a oggi questo scrupolo non è sembrato essere esattamente in cima alle priorità dell'Eurogruppo. Ecco perché ieri la vera sorpresa è arrivata quando Juncker ha evocato la necessità di "politiche attive", come il salario minimo garantito per l'intera Eurozona. A noi italiani sembra un miraggio da vetero-comunisti, ma si tratta di una misura diffusa in molti Paesi d'Europa tutt'altro che sinistrorsi (in Francia, ad esempio, nel 2010 valeva circa 1.343 euro lordi al mese). In totale, è previsto dalla legislazione di 20 membri dell'Ue su 27. Fra gli esclusi, a parte Cipro e Italia, figurano stati ricchissimi e con un sistema di welfare già molto ampio (Austria, Germania, Danimarca, Svezia e Finlandia).

Quello di Juncker non è stato quindi un appello del tutto velleitario. E' bene però ricordare che fra pochi giorni il lussemburghese lascerà la presidenza dell'Eurogruppo. La scadenza imminente del mandato, a cui non seguirà alcuna ricandidatura, può far pensare che il discorso di ieri a Strasburgo sia stato poco più di un exploit finale, la zampata conclusiva del vecchio politico che libera le scarpe dai sassolini prima di salutare tutti. Forse le cose stanno davvero così. Ma è stato comunque un piacere.

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