Nel solito delirio egocentrico pre-elettorale, Matteo Renzi ricomincia a magnificare il Jobs Act. E stavolta riesce perfino a vantarsi della sua riforma proprio mentre commenta i dati che ne testimoniano il fallimento. Il colmo del surrealismo.



"Dati ISTAT: +918MILA posti lavoro da feb 2014 (inizio #millegiorni) a oggi. Il milione di posti di lavoro lo fa il #JobAct, adesso #avanti", scrive l’ex presidente del Consiglio su Twitter.

I numeri a cui fa riferimento sono le stime preliminari sul mercato del lavoro nel mese di luglio. Secondo l’Istat, due mesi fa il tasso di disoccupazione è salito all’11,3% dall’11,1% di giugno e il dato relativo ai giovani fra i 18 e i 24 anni è aumentato al 35,5% (+0,3%). Allo stesso tempo, però, il numero degli occupati è cresciuto di 59mila unità su mese e di 294mila su anno, tornando per la prima volta dal 2008 sopra quota 23 milioni.

Il fatto che aumentino sia il tasso di disoccupazione sia il numero di occupati può sembrare una contraddizione, ma non è così. La chiave è nel forte calo degli inattivi, che non sono calcolati fra i disoccupati perché non hanno un lavoro ma nemmeno non lo cercano (-115 mila, pari a -0,9%). Ora, poiché molte persone si sono messe a caccia di un impiego senza trovarlo, è naturale che il tasso di disoccupazione salga. Ma ciò non toglie che, allo stesso tempo, possa aumentare il numero assoluto delle persone che lavorano.

Sgombrato il campo da questo malinteso piuttosto diffuso, è bene chiarire che non è questo il punto. Il punto è che Renzi, quando varò il Jobs Act, si pose due obiettivi: rendere i contratti di lavoro stabili più convenienti di quelli precari e ridurre la disoccupazione giovanile. Un fallimento totale, su tutti i fronti.

Come quasi sempre quando si parla di numeri Istat, il diavolo è nei dettagli. Andando a spulciare il rapporto dell’Istituto di statistica, infatti, si scopre che l’80% dei nuovi contratti nei primi 6 mesi del 2017 è a tempo determinato e che la quota di occupati a termine sul totale dei dipendenti è in crescita continua dal 2013. Sempre nella prima metà di quest’anno, i contratti a termine sono aumentati del 27% rispetto allo stesso periodo del 2016, arrivando oltre quota 2,3 milioni, mentre nel 2014, anno del Jobs act, erano 1,7 milioni. Ancora nel primo semestre del 2017, i nuovi contratti stabili sono crollati del 73% sul 2014.

Tra l’altro, il tasso di occupazione cresce in tutte le fasce di età tranne che in quella fra i 35 e i 49 anni. Il 51% dei nuovi occupati registrati dall’Istat tra 2013 e 2017 sono over 50. In questa fascia stanno crescendo anche i disoccupati. Effetti della legge Fornero, che continua ad alzare l’età pensionabile.

Fin qui la situazione presente. Purtroppo il futuro riserverà altre brutte sorprese: nel 2018 quasi un milione e mezzo di contratti diventeranno più costosi di un terzo, perché finiscono gli sgravi totali voluti dal governo Renzi nel 2015. Ciò potrebbe indurre gli imprenditori a evitare nuove assunzioni. Oppure addirittura a tagliare posti di lavoro, visto che grazie alla cancellazione dell’articolo 18 potrebbero licenziare questi dipendenti senza giusta causa pagando loro un indennizzo di sei mesi (due per anno). Loro, gli imprenditori, rimarrebbero in attivo.

Per disinnescare questo rischio, Palazzo Chigi studia il dossier dei nuovi incentivi da inserire nella prossima legge di Bilancio. Una sorta di riedizione di quelli del 2015, ma in salsa light, perché le risorse a disposizione sono inferiori. La filosofia di fondo, però, rimane la stessa: è in arrivo un altro pannicello caldo pre-elettorale che non avrà alcun effetto strutturale sulle dinamiche del mercato del lavoro e che tra qualche  anno tornerà a presentarci il conto. Insomma, un placebo il cui unico scopo è rastrellare i voti e disinnescare (solo per il momento) la miccia accesa tre anni fa dal Jobs Act. Ma non abbiamo dubbi che anche questi bonus saranno autocelebrati dal segretario del Pd come fossero il New Deal di Roosevelt.

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