Dallo slogan “make America great again” alla frana del dollaro in pochi mesi. A gennaio con un euro si compravano 1,05 biglietti verdi, mentre oggi, con quello stesso euro, se ne comprano 1,21. Significa che la moneta americana è crollata del 14,5% nei primi nove mesi del 2017, tornando a un livello che non vedeva dal gennaio del 2015.


Come si spiega un tonfo del genere? Il dollaro sta vivendo uno dei peggiori anni della sua storia, per diverse ragioni. Nel breve periodo pesano i timori legati alla minaccia nordcoreana e la distruzione portata dagli uragani Harvey e Irma, che, oltre al dramma sociale, provocheranno un rallentamento dell’economia Usa nell’ultima parte dell’anno.

Ma la debolezza della valuta statunitense è legata in primo luogo ad alcuni temi di fondo. Innanzitutto, i mercati sono scettici sulle capacità del presidente Donald Trump di implementare le riforme sbandierate in campagna elettorale: dalla deregolamentazione della finanza ai massicci investimenti infrastrutturali, passando per la riforma fiscale con tanto di “fenomenale” riduzione delle tasse. Tutte misure pro-dollaro che con il passare del tempo hanno perso credibilità a causa dell’incapacità politica del Presidente, che con la sua attitudine da sbruffone isterico è riuscito a mettersi contro tutto il Congresso, repubblicani compresi.

In secondo luogo, gli investitori non credono più nemmeno al fatto che la Federal Reserve manterrà gli annunci di inizio anno in tema di rialzo dei tassi. La Banca centrale americana aveva promesso quattro strette monetarie nel 2017, ma finora ne ha attuate solo due e secondo i mercati c’è appena il 30% di possibilità che a dicembre arrivi la terza. Anche perché negli Stati Uniti (come nell’Eurozona) l’inflazione sta rallentando.

Lo scivolone del dollaro ha naturalmente indotto un oceano di capitali a spostarsi sull’euro. Nel periodo gennaio-settembre, tuttavia, la moneta unica si è rafforzata pure su sterlina (+7%), yen (+5,4%) e franco svizzero (+7%). Una corsa che si spiega anche con ragioni interne all’Eurozona. Sul fronte economico, la crescita del Pil è migliore del previsto e la Bce ha alzato le stime sull’andamento del Pil 2017 dal +1,9 al +2,2 percento. Sul versante politico, invece, nei mesi scorsi le sconfitte di Le Pen in Francia e di Wilders in Olanda hanno scongiurato la prospettiva di uno scivolamento verso il populismo euroscettico, rassicurando i mercati sulla solidità dell’area valutaria.

C’è poi un altro fattore da considerare. L’euro forte spinge la Bce a rallentare il tapering, ossia il percorso di progressiva riduzione degli stimoli monetari. La maggior parte degli analisti concorda nel prevedere che a partire da gennaio 2018 l’Eurotower inizierà a ridurre il suo programma d’acquisto di titoli pubblici e privati (Quantitative easing). Non c’è ancora un’intesa sulle modalità, ma nella conferenza stampa di giovedì scorso Mario Draghi ha lasciato intendere che il percorso sarà più graduale e diluito del previsto. Il direttorio della Bce si è convinto a tirare il freno a mano proprio a causa delle preoccupazioni legate alla moneta. La forza dell’euro, infatti, riduce il costo delle merci importate e quindi frena l’inflazione, ancora lontana dalla quota “inferiore ma vicina al 2%” che è l’obiettivo dell’Eurotower.

Tutto ciò per le finanze pubbliche italiane è una manna. Contro ogni previsione, il governo potrà scrivere la legge di Bilancio con rendimenti sui Btp ancora sotto il 2% e la prossima primavera le elezioni politiche si svolgeranno in un clima di maggiore tranquillità sui mercati. Anche questo è un effetto della forza dell’euro. E “The Donald”, senza volerlo, ha dato il suo contributo.

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