di Michele Paris

La giustizia americana ha nuovamente garantito questa settimana la piena impunità a un altro agente di polizia responsabile dell’assassinio senza motivo di un uomo disarmato. Esattamente come la settimana scorsa a Ferguson, un grand jury predisposto dal procuratore distrettuale della contea di Richmond, a Staten Island, nella città di New York, ha stabilito di non doversi procedere contro il poliziotto Daniel Pantaleo, nonostante le prove a suo carico fossero decisamente più pesanti rispetto al caso del Missouri.

Come in quest’ultima vicenda, anche quella del “borough” meno popoloso di New York è ruotata attorno a un grand jury, nuovamente utilizzato dalla classe dirigente americana come paravento per portare a termine una gigantesca ingiustizia dando l’impressione del rispetto scrupoloso del dettato di legge.

Ancor più di quello del 18enne Michael Brown a Ferguson, l’assassinio lo scorso mese di luglio del 43enne Eric Garner - anch’egli di colore - ha mostrato come le forze di polizia negli Stati Uniti abbiano facoltà di violare i diritti fondamentali della popolazione, fino a provocare la morte, a prescindere da quale sia la ragione delle loro azioni o la gravità delle prove a carico dei responsabili.

Un sistema giudiziario considerato democratico non è infatti stato in grado anche solo di intentare un processo ai danni di un rappresentante delle forze di polizia neppure in presenza di ben tre filmati che avevano mostrato gli istanti finali della vita di Garner e del responso di un medico legale, il quale dopo l’autopsia aveva inequivocabilmente definito la morte come “omicidio”.

Il pomeriggio del 17 luglio scorso, alcuni agenti di polizia si erano avvicinati a Eric Garner nei pressi del terminal del traghetto di Staten Island per eseguire l’arresto su richiesta di alcuni negozianti della zona che si erano lamentati perché l’uomo da qualche tempo vendeva sigarette in maniera illegale.

Dopo che Garner aveva fatto resistenza, era seguito un alterco con i poliziotti, così che Pantaleo aveva deciso di praticare una manovra (“chokehold”) vietata dal Dipartimento di Polizia di New York da oltre vent’anni a causa del rischio di soffocamento per coloro che la subiscono.

L’agente ha cioè stretto un braccio attorno al collo dell’uomo per immobilizzarlo e farlo stendere a terra. Una volta costretto Garner sul terreno, tuttavia, Pantaleo non ha accennato a lasciare la presa, nonostante la sua vittima, ancora più in affanno in quanto asmatico, avesse ripetuto più volte le parole “Non riesco e respirare”, provocandone la morte.

Di fronte ai membri del grand jury, il procuratore distrettuale Daniel Donovan ha consentito la testimonianza dello stesso agente Pantaleo, senza che le dichiarazioni di quest’ultimo fossero sottoposte a un qualche contraddittorio. Questa pratica era stata adottata anche nel grand jury di Ferguson ed è servita, proprio come nel caso di Michael Brown, a fare in modo che l’agente omicida fornisse la propria versione dei fatti senza il rischio di essere smentito o interrogato da una parte terza.

Donovan, come il procuratore Robert McCulloch della contea di St. Louis, nel Missouri, ha legami molto stretti con la polizia di New York e ha dunque puntualmente utilizzato il meccanismo del grand jury - previsto dal Quinto Emendamento alla Costituzione americana - per evitare qualsiasi grana legale al responsabile della morte di Eric Garner. I grand jury negli Stati Uniti sono d’altra parte tradizionalmente manipolabili dai procuratori, tanto più che le udienze avvengono in segreto e senza nessun giudice che le presieda.

Secondo quanto affermato alla stampa americana dal docente di legge della Fordham University di New York, James Cohen, “è fuori discussione che un grand jury faccia precisamente quello che vuole l’accusa virtualmente nel 100% dei casi”. Lo stesso Cohen ha poi aggiunto che “il video [dell’omicidio] ha mostrato il poliziotto mentre stava eseguendo una pratica probita da tempo” - il “chokehold” - “ma sembra che ciò non abbia fatto alcuna differenza per i giurati perché il procuratore aveva deciso che non doveva esserci alcuna incriminazione per nessun crimine”, neanche di minore gravità.

La morte di Eric Garner per mano della polizia e la completa impunità per l’agente responsabile non sono in ogni caso eccezioni negli Stati Uniti, visto che ogni anno si registrano centinaia di eventi simili. A New York, solo lo scorso mese di novembre un uomo di colore era stato ucciso “accidentalmente” da un colpo d’arma da fuoco esploso da un agente mentre scendeva le scale nel palazzo del proprio appartamento di Brooklyn.

Se possibile, a suscitare un senso di disgusto ancora più profondo della decisione del grand jury sono state le dichiarazioni sulla vicenda rilasciate dai politici americani, principalmente democratici, a cominciare dal presidente Obama.

Quest’ultimo, con il solito cinismo e malcelato disinteresse ha sostenuto che “quando qualcuno in questo paese non viene trattato in maniera equa di fronte alla legge, sussiste un problema”, ma “il mio compito in quanto presidente è di aiutare a risolverlo”.

Toni simili, assieme a vuote rassicurazioni, erano già stati usati la settimana scorsa per la vicenda di Michael Brown, ma le reali intenzioni di Obama e degli ambienti di potere negli Stati Uniti sono apparse evidenti proprio qualche giorno fa. Questa settimana, infatti, in un discorso pubblico il presidente ha sostanzialmente appoggiato il proseguimento del programma di militarizzazione delle forze di polizia nel paese, proponendo solo qualche trascurabilissimo cambiamento cosmetico, come ad esempio la necessità di un addestramento “adeguato” per gli agenti.

Il ministro della Giustizia uscente, Eric Holder, ha annunciato invece l’avvio di un’indagine federale sulla morte di Garner. Una simile iniziativa è già in corso in relazione ai fatti di Ferguson ma l’intervento del Dipartimento di Giustizia in situazioni di questo genere è limitato a casi in cui vi sia stata una violazione dei diritti civili della vittima, cioè un’eventualità estremamente difficile da dimostrare.

Il sindaco di New York, Bill de Blasio, da parte sua, è apparso mercoledì a Staten Island dicendosi particolarmente colpito dalla vicenda poiché suo figlio è anch’egli di colore. De Blasio ha poi ridicolmente promesso di equipaggiare gli agenti di polizia della città con speciali videocamere per filmare il loro operato, senza spiegare però in che modo questa misura potrà essere utile nei casi come quello di Garner, visto che la sua morte, come già ricordato, era stata ripresa da vari passanti e le immagini lasciavano ben pochi dubbi sulle responsabilità dell’agente Pantaleo.

La morte di Garner e la decisione del grand jury, infine, hanno prodotto due differenti reazioni già riscontrate a Ferguson e in altri casi simili. La prima, interamente giustificata e condivisibile, è un’ondata di proteste contro la polizia e il sistema giudiziario in molte città e soprattutto a New York.

Qui, i manifestanti spontanei hanno marciato per le strade di Manhattan bloccando a lungo il traffico. Come di consueto, la polizia ha risposto duramente, facendo solo a New York e nella sola serata di mercoledì più di 80 arresti.

Decisamente nauseante è invece la seconda conseguenza, vale a dire l’intervento pubblico di personalità come il reverendo Al Sharpton, di fatto al servizio dell’establishment democratico con l’incarico di calmare gli animi nella popolazione e convincere i manifestanti ad avere fiducia nel sistema, mantenendo al contempo il dibattito pubblico all’interno della limitata prospettiva dei rapporti razziali e oscurando in maniera deliberata le più esplosive questioni sociali dietro alla dilagante violenza delle forze di polizia negli Stati Uniti.

di Emanuela Muzzi

Londra. La dimensione populista della finanziaria d’oltremanica traspare dal carattere nazional-mediatico di provvedimenti dei quali non è ancora certa l’effettiva fattibilità. A cominciare dall’annuncio del Cancelliere George Osborne nel suo “Autumn statement”, di una nuova tassa del 25% sul profitto delle multinazionali con sede nel Regno Unito che deviano i profitti all’estero. Una tassa teoricamente giusta e della quale si parla da tempo, ma non attuabile a livello nazionale.

Non è la prima volta nel giro di poche settimane che da Londra arrivano provvedimenti eclatanti a carattere propagandistico in vista delle prossime politiche, dei quali in realtà non è seriamente prevedibile l’attuazione se non attraverso un cambio degli accordi a livello internazionale.

La conferma arriva anche dalla Confindustra inglese (CBI), che per voce della vice Presidente ha spiegato che “non è il caso che la Gran Bretagna prenda provvedimenti del genere in modo autonomo”. La nuova ‘Google tax’ nomignolo di questa già controversa tassa protezionista, deriva dal fatto che sono moltissime le multinazionali tech con sede in Gran Bretagna che dovrebbero sborsare milioni di sterline.

Se il Chancellor of Exchequer ha fatto un regalo di Natale ai bambini inglesi con l’abolizione della tassa aerea fino a 12 anni d’età che entrerebbe in vigore il prossimo Maggio 2015, i meno giovani potranno volare solo con la fantasia: nessun nuovo investimento a sostegno del mercato del lavoro a parte la brutta notizia dell’abolizione definitiva del sostegno dello stato ai giovani disoccupati e il minimo sindacale che resta a terra.

Nonostante il ministro del tesoro ombra, Ed Balls, dai banchi Labour in Parlamento abbia ricordato che l’export della Gran Bretagna ha avuto la performance peggiore rispetto a 18 paesi dell’Unione Europea, i Tories vedono la crisi economica alle spalle: crescita interna dal 2 al 3% nel 2015. Forse è per questo che hanno deciso finalmente di tassare le banche. Chissà, forse anche loro, oltre ai normali cittadini, cominceranno a pagare I danni che hanno fatto con il ‘credit crunch’.

In compenso il favore agli istituti di credito arriverà trasversalmente con la nuova detassazione sull’acquisto della casa attraverso la riduzione della cosiddetta ‘stamp duty’, in vigore da subito, che genererà una nuova richiesta di mutui da chi non ha i soldi nella valigetta come i magnati russi e degli Emirati Arabi che stanno comprando mezza Londra.

Adesso la verità di questo Discorso Autunnale Conservative è che nasconde i dati sulla scarsa competitività delle aziende britanniche, soprattutto le SME (ovvero le PMI), il tasso di disoccupazione ancora alto, sicuramente molto di più dei tassi ufficiali forniti dall’Office of National Statistics inglese, dato che i volontari e le ‘apprenticeships' e le migliaia e migliaia di persone che non chiedono il sussidio di disoccupazione non sono incluse nei numeri.

Resta il fatto che in vista delle elezioni politiche del prossimo Maggio la generosità dei nuovi fondi alle infrastrutture, i 2miliardi di sterline alla Sanità pubblica, il via alla costruzione di migliaia di nuove case che porterà inoltre l’abbassamento dei prezzi degli affitti sono investimenti nei voti: se non Labour almeno quelli degli indecisi.

Poi se i numeri sono sbagliati e se serviranno nuovi tagli, nell’ottica di Osborne e Cameron, sono correzioni che si potranno fare nella fase post elettorale. Urne chiuse, scenari aperti.

di Mario Lombardo

Con i rapporti tra Occidente e Russia in caduta libera a causa della crisi in Ucraina, anche le vicende politiche dell’apparentemente insignificante Moldavia sono balzate negli ultimi mesi al centro dell’attenzione di governi e media europei e americani, impegnati a sostenere in tutti i modi il percorso di sganciamento da Mosca della piccola ex repubblica sovietica.

In questo quadro, le elezioni parlamentari dello scorso fine settimana avrebbero gettato le basi per un ulteriore rafforzamento dei legami tra Chisinau e Bruxelles, già consolidati dalla firma del cosiddetto Accordo di Associazione con l’Unione Europea avvenuta nel mese di giugno in contemporanea con Georgia e Ucraina.

I principali partiti filo-occidentali hanno infatti conquistato la maggioranza dei 101 seggi che compongono l’assemblea legislativa moldava. Il Partito Liberal Democratico (PLDM) del premier Iurie Leanca ha sfiorato il 20%, mentre i suoi due probabili partner di governo - Partito Democratico (PDM) e Partito Liberale (PL) - hanno ottenuto rispettivamente il 16% e il 9,5% dei consensi espressi.

Il maggior numero di voti se lo è però aggiudicato il Partito Socialista (PSRM) filo-russo, premiato da una campagna elettorale basata sulla proposta di revoca dell’accordo con l’UE e sull’adesione a un’unione doganale eurasiatica promossa dal Cremlino. Il PSRM ha ricevuto quasi il 21% e 25 seggi, dopo che, secondo vari sondaggi riportati alla vigilia del voto dai media occidentali, il partito fondato da ex membri di quello Comunista era accreditato al massimo dell’8 / 10%.

Il Partito Socialista ha approfittato del vero e proprio crollo del PLDM, il quale ha perso quasi 10 punti percentuali rispetto alle elezioni del 2010 dopo avere messo in atto politiche fatte di austerity, deregulation e privatizzazioni per inseguire il processo di integrazione con l’UE. Il successo della formazione filo-russa è stato inoltre la conseguenza del tentativo da parte del governo di limitare i diritti della popolazione russofona della Moldavia, promuovendo al contrario l’identità romena del paese.

Meno penalizzato è stato invece il Partito Liberale, che ha praticamente mantenuto la stessa percentuale di voti di quattro anni fa, mentre il Partito Democratico ha aumentato di una manciata di seggi la propria rappresentanza in Parlamento, probabilmente anche per avere proposto un approccio più cauto nei confronti della Russia.

Il vero sconfitto del voto è stato comunque il Partito Comunista (PCRM) dell’ex presidente Vladimir Voronin, passato dal 39,3% (42 seggi) del 2010 al 17,7% (21 seggi). Il PCRM aveva tenuto un atteggiamento più ambiguo nei confronti dell’accordo con Bruxelles, dichiarandosi pronto tuttavia a sostenere la coalizione filo-occidentale se fosse stato necessario.

Le elezioni in Moldavia hanno ottenuto la sostanziale approvazione degli osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), facendo apparire quasi trascurabili le critiche da essi stessi indirizzate alle autorità di Chisinau per avere estromesso dalla partecipazione al voto un’altra formazione filo-russa, il partito Patria dell’uomo d’affari populista Renato Usatii.

Il governo moldavo e la Commissione Elettorale Centrale, in realtà, hanno fatto di tutto per impedire che il diffuso sentimento anti-europeo si manifestasse pienamente nei risultati delle urne, cercando di limitare la possibilità di scelta se non addirittura il diritto di voto dei moldavi meglio disposti verso Mosca.

I candidati del partito Patria, ad esempio, erano stati definitivamente rimossi dalle schede elettorali pochi giorni prima del voto, dopo che la giustizia moldava aveva ritenuto i suoi vertici colpevoli di aver ricevuto finanziamenti illegali dall’estero, ovvero dalla Russia. Lo stesso Usatii venerdì scorso era fuggito in Russia, dove ha i propri interessi economici, per sottrarsi a un probabile arresto.

Il partito Patria veniva dato dai sondaggi attorno al 10 / 14% e, a giudicare dalla scarsa accuratezza delle valutazioni relative al potenziale del Partito Socialista, è probabile che la quota di voti effettivamente conquistata avrebbe potuto essere superiore, rafforzando perciò sensibilmente il campo filo-russo in parlamento.

Inoltre, le forze pro-UE avevano contribuito ad alimentare un clima al limite dell’isteria, agitando la minaccia di un’aggressione imminente da parte della Russia. A questo scopo era servita anche un’operazione delle forze di sicurezza che avevano fatto irruzione nelle abitazioni di alcuni appartenenti a un’organizzazione anti-fascista vicina al partito Patria. Le autorità avevano mostrato le armi che sostenevano di avere rinvenuto durante le perquisizioni, lasciando intendere che fosse in preparazione una qualche azione violenta nel paese.

La questione della Transnistria è stata poi utilizzata anche in Occidente per mettere ancor più in luce le tendenze aggressive russe. Questa regione a maggioranza russofona si era separata dalla Moldavia due decenni fa nel timore di una possibile unificazione del paese con la Romania, di cui aveva fatto parte (a esclusione della Transnistria stessa) fino al 1939. L’indipendenza della Transnistria non è però mai stata riconosciuta da nessun paese e i suoi abitanti vivono tuttora in una situazione di stallo e sotto la protezione di un continengente militare russo.

La propaganda occidentale e del governo di Chisinau vorrebbe Mosca pronta ad annettersi la Transnistria, come ha fatto quest’anno con la Crimea. Tuttavia, la Russia non ha mai manifestato alcuna intenzione in questo senso, ma ha anzi sempre sostenuto una soluzione che garantisse l’unità territoriale della Moldavia e un’ampia autonomia per la regione russofona.

Questa proposta, finora respinta dal governo centrale, è peraltro simile a quella avanzata dal Cremlino per le regioni “ribelli” del Donbass in Ucraina, nonostante il regime di Kiev e l’Occidente continuino a sostenere che i propositi di Mosca siano quelli di voler portare a termine un’altra annessione.

Dal momento che l’agitazione dello spettro russo non sarebbe stata probabilmente sufficiente ai partiti filo-occidentali per vincere le elezioni, infine, a moltissimi moldavi residenti all’estero è stato di fatto impedito di esprimere il proprio voto.

Soprattutto in Russia, secondo alcune stime, almeno mezzo milione di moldavi non avrebbe avuto la possibilità di recarsi alle urne dopo che il governo di Chisinau ha finito per istituire appena 5 seggi nel territorio della federazione sui 15 inizialmente annunciati.

Complessivamente, dunque, l’entusiasmo per l’integrazione con l’Unione Europea appare tutt’altro che prevalente in Moldavia, come conferma anche la bassa affluenza alle urne. Secondo la Commissione Elettorale Centrale, il 30 novembre scorso avrebbe votato solo il 55% degli aventi diritto, cioè l’8% in meno rispetto a quattro anni fa.

Vari sondaggi condotti nei mesi scorsi da istituti di ricerca moldavi avevano d’altra parte indicato come il numero di intervistati che avevano espresso un’opinione favorevole all’adesione del loro paese all’Unione doganale con Russia, Bielorussia e Kazakistan fosse superiore a quello di coloro che auspicano l’ingresso nell’UE.

Gli equilibri delle opinioni in questo ambito si sono rovesciati rispetto al 2013, forse anche per un certo realismo dettato dalla consapevolezza dell’importanza economica della Russia, la quale ha tra l’altro risposto qualche mese fa alla sottoscrizione dell’accordo con l’UE da parte del governo di Chisinau con un embargo nei confronti dell’export alimentare moldavo.

La probabile coalizione di governo che dovrebbe uscire dai colloqui in corso tra i partiti filo-occidentali cercherà così ora di implementare il programma di “riforme” necessarie per l’integrazione con l’Unione Europea.

Le più che giustificate resistenze nel poverissimo paese dell’Europa orientale rischiano tuttavia di complicare questo processo, mentre anche la vita della maggioranza in parlamento potrebbe risultare tutt’altro che agevole. Nel 2015, infatti, il presidente Nicolae Timofti vedrà scadere il proprio mandato e il suo successore dovrà essere eletto da una supermaggioranza parlamentare che richiederà un certo numero di voti dell’opposizione filo-russa.

di Michele Paris

La visita di questa settimana in Turchia del presidente russo, Vladimir Putin, ha segnato un altro capitolo nel processo di allontanamento di Mosca dall’Europa in seguito alla crisi ucraina, provocando inoltre uno scossone nel mercato energetico del vecchio continente. In primo luogo, il vertice tra Putin e il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, ha confermato l’estremo pragmatismo dei leader di due governi che si trovano su posizioni diametralmente opposte attorno alla vicenda siriana.

I due presidenti, ad esempio, si sono impegnati a portare gli scambi commerciali bilaterali annui tra le rispettive economie dai poco più di 30 miliardi di dollari attuali a 100 miliardi entro il 2020.

L’intensificazione delle relazioni tra i due paesi risulta però evidente soprattutto in ambito energetico e si sovrappone proprio allo scontro tra Occidente e Russia, mostrando ancora una volta l’inettitudine e le tendenze autolesioniste dei vertici politici europei.

L’arrivo di Putin ad Ankara lunedì era stato accompagnato da un patetico appello alla Turchia del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, a unirsi a Stati Uniti e UE nell’applicazione delle sanzioni economiche imposte ai danni della Russia a causa della presunta invasione del territorio ucraino.

Senza dubbio su richiesta di Washington, l’ex premier laburista norvegese aveva cioè provato disperatamente a sventare quanto è invece accaduto in maniera puntuale nella capitale turca, vale a dire la creazione dell’ennesima partnership energetica con al centro la Russia, sempre più assurdamente definita dall’Occidente come “isolata” sulla scena internazionale per via dell’atteggiamento del suo governo in Ucraina.

D’altra parte, non solo la Turchia non poteva mettere a rischio la propria sicurezza energetica - a differenza di quanto ha fatto Bruxelles - di fronte a una realtà nella quale il 60% delle sue importazioni di gas vengono dalla Russia, ma ha anche approfittato dell’irrazionale politica estera europea, ottenendo da Mosca vantaggi significativi in un settore cruciale per la propria stabilità economica.

Quella che il New York Times ha in maniera ridicola definito come una “rara vittoria diplomatica” per l’UE, è stata quindi annunciata direttamente da Putin in una conferenza stampa con Erdogan. La Russia, cioè, ha decretato la morte dell’ambizioso progetto di costruzione del gasdotto South Stream, il quale avrebbe dovuto attraversare vari paesi europei - tra cui i membri UE Bulgaria, Ungheria, Slovenia e Austria - che raccoglieranno ora probabilmente ben pochi frutti dalla “vittoria” messa a segno da Bruxelles e Washington.

I benefici economici di cui questi governi avrebbero potuto godere saranno raccolti invece da Ankara, poiché il Cremlino dirotterà il proprio gas verso un impianto che il gigante Gazprom costruirà al di sotto del Mar Nero e in territorio turco fino al confine con la Grecia. Da qui, se sarà “economicamente giustificato dalle condizioni di mercato in Europa”, il gas sarà venduto ai paesi meridionali dell’Unione, i quali finirebbero così per dipendere per buona parte dei loro approvvigionamenti dalla Turchia, un paese che attende l’ammissione nel blocco continentale da quasi tre decenni e con cui i rapporti si sono sensibilmente raffreddati negli ultimi tempi.

Riflettendo la necessità di convincere Erdogan a non adottare le sanzioni occidentali, Putin ha inoltre concesso uno sconto del 6% a partire dal prossimo anno sulle forniture di gas alla Turchia, la quale otterrà da subito anche 3 miliardi di metri cubi in più rispetto ai livelli attuali attraverso il già attivo gasdotto Blue Stream.

Il motivo dell’abbandono del progetto South Stream da parte della Russia è legato alla decisione del governo bulgaro di congelarne la costruzione. L’iniziativa di Sofia era arrivata tuttavia lo scorso giugno in seguito alle enormi pressioni esercitate da Bruxelles, con la scusa che l’impianto avrebbe violato le norme europee sulla competizione che stabiliscono come il proprietario di un gasdotto, in questo caso Gazprom, non possa allo stesso tempo essere anche il fornitore del gas che vi transita.

La mossa era stata però interamente politica e legata alla vicenda ucraina, tanto più che, come sostiene Mosca, il cosiddetto “Terzo pacchetto energia” UE era entrato in vigore solo dopo che la Russia aveva siglato accordi bilaterali con i vari governi coinvolti nel progetto South Stream.

A spingere Putin ad abbandonare la costruzione del gasdotto ha forse contribuito anche il lievitare dei costi - stimati in oltre 23 miliardi di dollari per il solo tratto sottomarino in Europa orientale - a fronte delle difficoltà delle banche russe a ottenere accesso ai finanziamenti in Occidente dopo l’adozione delle sanzioni da parte di Washington e Bruxelles.

In ogni caso, questi ultimi sviluppi segnano un’occasione mancata dall’Europa per assicurarsi con un certo vantaggio economico la fornitura stabile di un gas russo che, nonostante i proclami circa la necessità di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, dovrà essere necessariamente acquistato ancora per molti anni. Il South Stream, infatti, era nato con l’intenzione di aggirare le attuali rotte che passano attraverso l’Ucraina, dove la crisi politica ed economica in atto appare lontana dall’essere risolta.

L’accordo appena siglato dalla Russia con la Turchia segue inoltre quelli ben più consistenti sottoscritti quest’anno in due occasioni con la Cina, la quale potrebbe diventare nel prossimo futuro il primo mercato del gas russo nel quadro di una crescente partnership strategica ed economica tra Mosca e Pechino. Quest’ultima evoluzione è considerata come una minaccia da Washington ai propri interessi strategici ma risulta di fatto accelerata proprio dallo scontro attorno alla vicenda ucraina provocato dagli Stati Uniti stessi e dalla Germania.

La decisione di Putin di questa settimana avrà qualche effetto infine anche sull’Italia, nonostante il nostro paese fosse stato tagliato fuori dal South Stream qualche mese fa. ENI, innanzitutto, è socia al 20% del consorzio incaricato della costruzione del gasdotto - assieme alla francese EDF, alla tedesca Wintershall e, ovviamente, a Gazprom - nonostante i suoi vertici avessero recentemente ipotizzato un ritiro dal progetto a causa dei costi eccessivi.

A essere colpita è poi anche Saipem, la società d’ingegneria controllata da ENI, che, come ha scritto martedì IlSole24Ore, “per la tratta sottomarina [nel Mar Nero] ha già cominciato a lavorare, grazie a tre contratti di appalto, l'ultimo dei quali - il più ricco, da 2 miliardi di dollari - era stato assegnato soltanto in marzo”.

Saipem, secondo Repubblica, “ha delle clausole di protezione nel contratto che tuttavia coprono solo una parte limitata del progetto”. L’azienda ha comunque diffuso una dichiarazione nella quale ha precisato di “non avere ricevuto alcuna comunicazione di formale interruzione del contratto dal cliente South Stream Transport”, senza riuscire però a evitare un pesante tonfo in Borsa nella giornata di martedì.

di Michele Paris

Gli Stati Uniti e la Turchia avrebbero fatto significativi passi avanti nel raggiungimento di un’intesa sulla collaborazione militare ritenuta necessaria per intensificare il conflitto in corso in Iraq e in Siria, lanciato ufficialmente per sconfiggere i militanti dello Stato Islamico (ISIS). Secondo quanto riportato lunedì dal Wall Street Journal, i due paesi alleati avrebbero appianato quasi tutte le divergenze in merito alla nuova guerra in Medio Oriente, essendo ormai vicini a un accordo che, in cambio dell’accesso a basi militari in territorio turco da parte americana, prevede un’iniziativa fin qui sempre respinta dall’amministrazione Obama e che rappresenterebbe poco meno di un’aperta dichiarazione di guerra al regime di Damasco.

La misura, richiesta dal governo del presidente Erdogan, consiste nella creazione di una sorta di area-cuscinetto in Siria nei pressi del confine settentrionale con la Turchia. Questa zona verrebbe controllata dai militari di Ankara e protetta dalla forza bellica statunitense, così da costituire un rifugio sicuro per l’impalpabile opposizione filo-occidentale anti-Assad, esposta agli attacchi del regime e dell’ISIS. Per la versione ufficiale, la zona-cuscinetto dovrebbe servire anche a garantire il flusso indistrurbato di aiuti “umanitari” dalla Turchia agli stessi “ribelli” siriani considerati affidabili.

In realtà, è la creazione di una “no-fly zone” nel nord della Siria per cui il governo di Erdogan e del premier Davutoglu spinge da tempo, nel tentativo di condurre un assalto diretto contro il regime di Assad per risolvere la crisi interna causata dalla propria stessa condotta. Washington, però, ritiene una simile iniziativa troppo rischiosa, almeno per il momento, visto che, oltre a smascherare definitivamente le vere intenzioni americane nel conflitto contro l’ISIS, accelererebbe lo scontro diretto con Damasco.

Inoltre, una dichiarazione di guerra contro la Siria metterebbe a repentaglio la collaborazione con l’Iran attorno al programma nucleare di Teheran e, soprattutto, nell’ambito della battaglia contro l’ISIS sul fronte iracheno.

L’istituzione di una zona-cuscinetto, secondo le fonti citate dal Journal, a differenza di una “no-fly zone” non richiederebbe il bombardamento e la distruzione dei sistemi anti-aerei siriani, ma si limiterebbe a rappresentare “un tacito segnale al regime di evitare di inoltrarsi nell’area in questione se non a rischio di ritorsioni”.

Nel concreto, in ogni caso, anche la misura allo studio a Washington dopo una lunga serie di vertici bilaterali in Turchia, tra cui la recente visita del vice-presidente Biden, ammonterebbe a una dichiarazione di guerra nei confronti della Siria. Questa realtà appare del tutto evidente nonostante l’iniziativa sia stata battezzata col nome apparentemente inoffensivo di “zona di esclusione al volo”.

Una decisione finale sulla zona-cuscinetto oltre il confine turco dovrebbe comunque farsi attendere ancora qualche settimana, poiché essa sembra essere tutt’altro che condivisa oltreoceano e i possibili punti d’intesa tra Washington e Ankara sono iniziati a essere discussi all’interno del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca solo qualche giorno fa.

Sia per Washington sia per Ankara appare evidente come l’accordo allo studio, rivelato dal Wall Street Journal, comporti il rischio concreto di aggravare la guerra in atto. Che le conseguenze della creazione di una “zona di esclusione al volo” possano essere difficili da contenere si può dedurre anche da una delle condizioni previste, secondo la quale la Turchia potrebbe dispiegare un proprio contingente militare direttamente in territorio siriano.

Le truppe turche, come scrive assurdamente il Journal, avrebbero il compito principale di “aiutare a identificare i bersagli legati allo Stato Islamico” da colpire con i bombardamenti della “coalizione”. In realtà, la zona-cuscinetto in territorio siriano non sarebbe altro che un modo per stabilire una presenza militare in questo paese come trampolino di lancio per un’offensiva contro Damasco con il contributo delle formazioni “ribelli”.

L’eventuale e legittimo tentativo da parte di Assad di liberare il proprio paese da una presenza straniera illegittima e illegale verrebbe inoltre utilizzato come pretesto per colpire direttamente le forze del regime, in primo luogo proprio con l’istituzione di una “no-fly zone”.

Queste ultime rivelazioni si sono accompagnate alla descrizione delle divisioni che persistono all’interno dell’amministrazione Obama circa l’indirizzo da dare alla guerra in Siria. Il licenziamento del segretario alla Difesa, Chuck Hagel, con ogni probabilità anche per avere manifestato perplessità in merito alle decisioni della Casa Bianca sulla Siria, non ha insomma prodotto finora una visione univoca degli eventi a Washington.

Come ha affermato un anonimo ex funzionario del Pentagono in un’intervista all’agenzia di stampa Bloomberg, d’altra parte, “non è possibile creare una zona di esclusione al volo senza entrare in conflitto con il regime” di Assad. In molti nel governo USA temono infatti che l’accettazione, sia pure parziale, delle richieste turche possa far precipitare gli eventi in Siria, aggiungendo in maniera definitiva questo paese ai cosiddetti “failed states” - come Afghanistan, Iraq e Libia - oggetto degli interventi “umanitari” americani nel recente passato.

Il crollo del regime a Damasco, poi, anche se è di fatto il vero obiettivo americano della guerra all’ISIS, si tradurrebbe in un salto nel vuoto per la Siria, creando una realtà nella quale l’asse della resistenza anti-USA e anti-sunnita (con Iran e Hezbollah in Libano) verrebbe sì fortemente indebolito ma producendo una fortissima incognita riguardo al nuovo regime che finirebbe per installarsi, con tutte le conseguenze del caso sul fronte degli equilibri strategici in Medio Oriente.

Se gli USA desiderano insomma non meno della Turchia la fine di Assad, le differenze sono di natura strategica e riguardano la scelta delle modalità che permettano di conciliare i rispettivi interessi con il raggiungimento dell’obiettivo finale.

Gli americani ritengono principalmente che il lavoro sporco in Siria debba essere delegato a terzi, con le proprie forze armate a svolgere tutt’al più compiti di assistenza, ma allo stesso tempo si rendono conto dell’impossibilità di contare su un’opposizione “moderata” che sia in grado di abbattere il regime e garantirne uno nuovo che assicuri stabilità e obbedienza all’Occidente.

In questa situazione, Washington si trova a non disporre di un’adeguata strategia che consenta la realizzazione coerente delle proprie politiche imperialistiche, finendo così per soccombere alle lacerazioni interne alla sua classe dirigente e lasciandosi trascinare pericolosamente in un maggiore coinvolgimento nel conflitto sulla spinta di alleati come Turchia, Arabia Saudita, Qatar o Emirati Arabi, per nulla interessati alle aspirazioni della popolazione siriana ma ben intenzionati a rovesciare con ogni mezzo il nemico che governa a Damasco.

Lo scivolamento verso una guerra sempre più complessa e sanguinosa, così come le contraddizioni in cui continua a dibattersi Washington, è in definitiva il risultato delle decisioni prese negli ultimi anni dall’amministrazione Obama per forzare il cambio di regime in Siria.

Un obiettivo, quest’ultimo, impossibile da confessare ma perseguito senza sosta, a costo di far salire vertiginosamente il bilancio delle vittime innocenti, di destabilizzare ancor più la regione mediorientale e di favorire l’ascesa di forze fondamentaliste ormai fuori controllo.


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