di Michele Paris

Gli Stati Uniti e la Turchia avrebbero fatto significativi passi avanti nel raggiungimento di un’intesa sulla collaborazione militare ritenuta necessaria per intensificare il conflitto in corso in Iraq e in Siria, lanciato ufficialmente per sconfiggere i militanti dello Stato Islamico (ISIS). Secondo quanto riportato lunedì dal Wall Street Journal, i due paesi alleati avrebbero appianato quasi tutte le divergenze in merito alla nuova guerra in Medio Oriente, essendo ormai vicini a un accordo che, in cambio dell’accesso a basi militari in territorio turco da parte americana, prevede un’iniziativa fin qui sempre respinta dall’amministrazione Obama e che rappresenterebbe poco meno di un’aperta dichiarazione di guerra al regime di Damasco.

La misura, richiesta dal governo del presidente Erdogan, consiste nella creazione di una sorta di area-cuscinetto in Siria nei pressi del confine settentrionale con la Turchia. Questa zona verrebbe controllata dai militari di Ankara e protetta dalla forza bellica statunitense, così da costituire un rifugio sicuro per l’impalpabile opposizione filo-occidentale anti-Assad, esposta agli attacchi del regime e dell’ISIS. Per la versione ufficiale, la zona-cuscinetto dovrebbe servire anche a garantire il flusso indistrurbato di aiuti “umanitari” dalla Turchia agli stessi “ribelli” siriani considerati affidabili.

In realtà, è la creazione di una “no-fly zone” nel nord della Siria per cui il governo di Erdogan e del premier Davutoglu spinge da tempo, nel tentativo di condurre un assalto diretto contro il regime di Assad per risolvere la crisi interna causata dalla propria stessa condotta. Washington, però, ritiene una simile iniziativa troppo rischiosa, almeno per il momento, visto che, oltre a smascherare definitivamente le vere intenzioni americane nel conflitto contro l’ISIS, accelererebbe lo scontro diretto con Damasco.

Inoltre, una dichiarazione di guerra contro la Siria metterebbe a repentaglio la collaborazione con l’Iran attorno al programma nucleare di Teheran e, soprattutto, nell’ambito della battaglia contro l’ISIS sul fronte iracheno.

L’istituzione di una zona-cuscinetto, secondo le fonti citate dal Journal, a differenza di una “no-fly zone” non richiederebbe il bombardamento e la distruzione dei sistemi anti-aerei siriani, ma si limiterebbe a rappresentare “un tacito segnale al regime di evitare di inoltrarsi nell’area in questione se non a rischio di ritorsioni”.

Nel concreto, in ogni caso, anche la misura allo studio a Washington dopo una lunga serie di vertici bilaterali in Turchia, tra cui la recente visita del vice-presidente Biden, ammonterebbe a una dichiarazione di guerra nei confronti della Siria. Questa realtà appare del tutto evidente nonostante l’iniziativa sia stata battezzata col nome apparentemente inoffensivo di “zona di esclusione al volo”.

Una decisione finale sulla zona-cuscinetto oltre il confine turco dovrebbe comunque farsi attendere ancora qualche settimana, poiché essa sembra essere tutt’altro che condivisa oltreoceano e i possibili punti d’intesa tra Washington e Ankara sono iniziati a essere discussi all’interno del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca solo qualche giorno fa.

Sia per Washington sia per Ankara appare evidente come l’accordo allo studio, rivelato dal Wall Street Journal, comporti il rischio concreto di aggravare la guerra in atto. Che le conseguenze della creazione di una “zona di esclusione al volo” possano essere difficili da contenere si può dedurre anche da una delle condizioni previste, secondo la quale la Turchia potrebbe dispiegare un proprio contingente militare direttamente in territorio siriano.

Le truppe turche, come scrive assurdamente il Journal, avrebbero il compito principale di “aiutare a identificare i bersagli legati allo Stato Islamico” da colpire con i bombardamenti della “coalizione”. In realtà, la zona-cuscinetto in territorio siriano non sarebbe altro che un modo per stabilire una presenza militare in questo paese come trampolino di lancio per un’offensiva contro Damasco con il contributo delle formazioni “ribelli”.

L’eventuale e legittimo tentativo da parte di Assad di liberare il proprio paese da una presenza straniera illegittima e illegale verrebbe inoltre utilizzato come pretesto per colpire direttamente le forze del regime, in primo luogo proprio con l’istituzione di una “no-fly zone”.

Queste ultime rivelazioni si sono accompagnate alla descrizione delle divisioni che persistono all’interno dell’amministrazione Obama circa l’indirizzo da dare alla guerra in Siria. Il licenziamento del segretario alla Difesa, Chuck Hagel, con ogni probabilità anche per avere manifestato perplessità in merito alle decisioni della Casa Bianca sulla Siria, non ha insomma prodotto finora una visione univoca degli eventi a Washington.

Come ha affermato un anonimo ex funzionario del Pentagono in un’intervista all’agenzia di stampa Bloomberg, d’altra parte, “non è possibile creare una zona di esclusione al volo senza entrare in conflitto con il regime” di Assad. In molti nel governo USA temono infatti che l’accettazione, sia pure parziale, delle richieste turche possa far precipitare gli eventi in Siria, aggiungendo in maniera definitiva questo paese ai cosiddetti “failed states” - come Afghanistan, Iraq e Libia - oggetto degli interventi “umanitari” americani nel recente passato.

Il crollo del regime a Damasco, poi, anche se è di fatto il vero obiettivo americano della guerra all’ISIS, si tradurrebbe in un salto nel vuoto per la Siria, creando una realtà nella quale l’asse della resistenza anti-USA e anti-sunnita (con Iran e Hezbollah in Libano) verrebbe sì fortemente indebolito ma producendo una fortissima incognita riguardo al nuovo regime che finirebbe per installarsi, con tutte le conseguenze del caso sul fronte degli equilibri strategici in Medio Oriente.

Se gli USA desiderano insomma non meno della Turchia la fine di Assad, le differenze sono di natura strategica e riguardano la scelta delle modalità che permettano di conciliare i rispettivi interessi con il raggiungimento dell’obiettivo finale.

Gli americani ritengono principalmente che il lavoro sporco in Siria debba essere delegato a terzi, con le proprie forze armate a svolgere tutt’al più compiti di assistenza, ma allo stesso tempo si rendono conto dell’impossibilità di contare su un’opposizione “moderata” che sia in grado di abbattere il regime e garantirne uno nuovo che assicuri stabilità e obbedienza all’Occidente.

In questa situazione, Washington si trova a non disporre di un’adeguata strategia che consenta la realizzazione coerente delle proprie politiche imperialistiche, finendo così per soccombere alle lacerazioni interne alla sua classe dirigente e lasciandosi trascinare pericolosamente in un maggiore coinvolgimento nel conflitto sulla spinta di alleati come Turchia, Arabia Saudita, Qatar o Emirati Arabi, per nulla interessati alle aspirazioni della popolazione siriana ma ben intenzionati a rovesciare con ogni mezzo il nemico che governa a Damasco.

Lo scivolamento verso una guerra sempre più complessa e sanguinosa, così come le contraddizioni in cui continua a dibattersi Washington, è in definitiva il risultato delle decisioni prese negli ultimi anni dall’amministrazione Obama per forzare il cambio di regime in Siria.

Un obiettivo, quest’ultimo, impossibile da confessare ma perseguito senza sosta, a costo di far salire vertiginosamente il bilancio delle vittime innocenti, di destabilizzare ancor più la regione mediorientale e di favorire l’ascesa di forze fondamentaliste ormai fuori controllo.

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