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di Mario Lombardo
Da ormai quasi una settimana, la marina militare svedese sta conducendo operazioni di ricognizione nelle acque del Mar Baltico, al largo di Stoccolma, alla ricerca di un misterioso sottomarino che rappresenterebbe una “minaccia subacquea” per il paese scandinavo. Da venerdì scorso le segnalazioni di avvistamenti si sono moltiplicate e, anche se non vi sono prove concrete dell’effettiva presenza di imbarcazioni subacquee né tantomeno che queste ultime costituiscano una reale minaccia per la Svezia, il colpevole della presunta provocazione sembra essere già stato individuato nel governo di Mosca.
Dopo alcuni giorni di ricerche senza successo, il comandante supremo delle forze armate svedesi, generale Sverker Göranson, ha fatto sapere che il suo paese non intende per il momento ridurre il dispiegamento di mezzi militari per l’individuazione del sottomarino. L’obiettivo, infatti, sarebbe quello di costringere il mezzo misterioso a emergere in superficie, “se necessario anche con la forza”.
Lo stesso comandante ha poi ricordato che è “estremamente difficile” rintracciare dei sottomarini e come alla Svezia non sia mai riuscita una simile impresa, mettendo perciò le mani avanti nel caso più che probabile che alla fine nessuna imbarcazione di questo genere venga individuata.
Le allusioni alla Russia si sono comunque sprecate sui media locali e internazionali, soprattutto con l’accostamento della vicenda in corso agli episodi registrati durante gli ultimi anni della Guerra Fredda, quando la marina svedese aveva varie volte dato la caccia a possibili sottomarini sovietici sconfinati nelle proprie acque territoriali.
Al di là dell’effettiva presenza di minacce nelle acque svedesi del Baltico, l’allarme scattato in questi giorni è stato subito sfruttato dal governo e dai militari svedesi per promuovere ulteriormente le politiche militariste perseguite in questi anni da Stoccolma.
Il senso di quanto sta accadendo al largo di questa città è stato riassunto sempre dal generale Göranson, il quale ha affermato che il valore più importante delle ricerche, “indipendentemente dal fatto che troveremo qualcosa, consiste nell’inviare un segnale molto chiaro che le forze armate svedesi agiscono e sono pronte ad agire in presenza di attività che riteniamo violino i nostri confini”.Lo spettro di uno sconfinamento da parte di un sottomarino da guerra inviato dal Cremlino e la risposta della Svezia si inseriscono in particolare nel clima di isteria anti-russo che sta attraversando i governi dell’Europa orientale e dell’area del Baltico fin dall’esplosione della crisi in Ucraina.
Il colpo di stato orchestrato a Kiev da Washington e Berlino, contro il presidente democraticamente eletto Yanukovich, ha fornito la giustificazione per pianificare un vero e proprio accerchiamento della Russia, alla cui messa in atto contribuisce l’irrigidimento delle posizioni verso Mosca degli ex membri del Patto di Varsavia e di paesi come Svezia o Finlandia.
L’innalzamento dei toni di questi governi filo-occidentali serve al preciso scopo di ingigantire una minaccia russa praticamente inesistente, così da favorire la militarizzazione della periferia europea come strumento per esercitare pressioni su Mosca e provocarne l’isolamento.
L’episodio registrato in questi giorni a Stoccolma, ad esempio, è stato subito seguito da dichiarazioni dei governi di Lettonia ed Estonia. Il primo, tramite il ministro degli Esteri Edgars Rinkevics, ha definito gli eventi nelle acque territoriali svedesi come una “svolta” per gli equilibri della sicurezza nella regione del Mar Baltico.
Quello estone, invece, ha fatto sapere di voler aumentare le operazioni di sorveglianza nelle proprie acque territoriali. Martedì, inoltre, lo stesso primo ministro svedese da poco insediato, il socialdemocratico Stefan Löfven, proprio nel corso di una visita in Estonia ha annunciato l’intenzione del suo governo di incrementare le spese militari.
L’area del Baltico, d’altra parte, rappresenta un centro nevralgico della strategia statunitense di contenimento della Russia. Il presidente Obama lo scorso settembre aveva visitato l’Estonia, dove si era lasciato andare alla promessa di difendere i paesi baltici in caso di scontro con la Russia, prima di recarsi in Galles a un vertice NATO con al centro l’Ucraina e la creazione di una forza militare di risposta rapida da dispiegare in Europa orientale.
Riguardo la Svezia, poi, sono sempre maggiori le spinte interne ed esterne per portare il paese scandinavo nella NATO. Anche se il neo-premier Löfven ha ribadito proprio in questi giorni l’intenzione di non aderire all’Alleanza atlantica, questo sembra essere l’esito più logico nel medio o lungo periodo, visto il livello di collaborazione stabilitosi negli ultimi anni.Lo status di paese neutrale è stato di fatto abbandonato da tempo dalla Svezia, visto che, tra l’altro, i governi susseguitisi nel nuovo millennio hanno preso parte più volte alle avventure belliche dell’imperialismo USA, come in Afghanistan o in Libia.
La partnership di Stoccolma con Washington è dunque consolidata, tanto che la Svezia, come dimostra il polverone sollevato in questi giorni attorno al fantomatico sottomarino russo, è ormai uno dei paesi sui quali gli Stati Uniti possono contare per mettere in atto provocazioni dirette contro Mosca per i propri obiettivi strategici.
Stoccolma non è infatti nuova a denunce con toni infuocati di incindenti o presunte violazioni dei propri confini territoriali. Nel marzo del 2013, ad esempio, il ministero della Difesa svedese aveva puntato il dito contro Mosca, accusando la Russia di avere condotto una simulazione di attacco nel sud del paese con alcuni aerei da guerra. A metà settembre, invece, l’ingresso nello spazio aereo svedese per una trentina di secondi di due velivoli SU-24 russi aveva convinto il governo di Stoccolma a presentare una protesta ufficiale all’ambasciatore russo.
Tutti questi episodi servono a creare un clima di tensione in Svezia, in modo da far digerire alla popolazione un militarismo spinto e una cooperazione sempre più intensa con la NATO. A queste politiche aveva dato un impulso decisivo il governo conservatore da poco sconfitto nelle elezioni di settembre ma, come appare già chiaro, le posizioni anti-russe e accesamente filo-americane saranno tutt’altro che abbandonate dal gabinetto di minoranza guidato dai Socialdemocratici appena installatosi a Stoccolma.
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di Michele Paris
L’inizio di questa settimana ha fatto segnare un significativo aumento dell’impegno degli Stati Uniti nella guerra contro lo Stato Islamico (IS) in territorio siriano e iracheno, assieme a un’apparente svolta da parte della Turchia nel rispondere alle sollecitazioni occidentali per intervenire nella crisi in atto oltre il proprio confine meridionale.
Già domenica scorsa, Washington ha recapitato ai curdi siriani che si battono contro l’ISIS nella città di Kobane una serie di carichi con armi, munizioni e materiale medico. La decisione era stata comunicata il giorno prima dallo stesso presidente Obama al suo omologo turco Erdogan, nonostante quest’ultimo si fosse mostrato ripetutamente contrario a un’iniziativa simile.
Secondo l’ex premier, infatti, il Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdo in Siria e il suo braccio armato - Unità di Protezione Popolare (YPG) - sarebbero organizzazioni terroristiche né più né meno come il Partito dei Lavoratori del Kurdistan turco (PKK), ritenuto tale anche da USA e UE.
L’accettazione da parte del governo di Ankara dei rifornimenti americani ai curdi siriani potrebbe dunque essere il risultato di un accordo con gli Stati Uniti. I contorni di esso, tuttavia, non sono chiari, anche se la Turchia chiede da tempo che l’intervento militare in corso in Siria venga utilizzato da subito per rimuovere il regime di Assad.
La concentrazione delle ostilità in Siria tra l’ISIS e i suoi oppositori nella città di Kobane a maggioranza curda sta portando in ogni caso alla luce tutte le divisioni esistenti tra la Turchia e gli Stati Uniti su un conflitto per il quale i due governi sono in larga misura responsabili.
Erdogan continua a escludere l’ipotesi sia di fornire aiuti materiali al PYD e all’YPG in Siria sia di consentire ai militanti del PKK in territorio turco di oltrepassare il confine per unirsi alla lotta contro l’ISIS condotta dagli appartenenti alla loro etnia in Siria.
Una delle tante contraddizioni in cui rischia di affogare il governo turco riguarda d’altra parte i rapporti con le forze curde. Mentre ha stabilito ottimi rapporti con i curdi della regione autonoma dell’Iraq, Ankara continua a considerare una grave minaccia alla propria stabilità un eventuale successo contro l’ISIS dei curdi siriani. Questi ultimi hanno infatti legami molto stretti con il PKK, protagonista da tre decenni di una lotta spesso sanguinosa con le autorità centrali turche.
Per questa ragione, malgrado le richieste degli USA di agire per arginare l’avanzata dell’ISIS su Kobane nel Kurdistan siriano, il governo Erdogan ha visto finora con una certa soddisfazione le imprese dello Stato Islamico oltre i propri confini. La settimana scorsa, forze aeree turche avevano addirittura bombardato postazioni del PKK nei pressi del confine con l’Iraq, mettendo a serio rischio la tregua siglata dalle due parti nel marzo del 2013.
Settimane di pressioni e varie visite ad Ankara di delegazioni americane hanno però alla fine convinto la Turchia a consentire almeno il transito dei peshmerga curdi dell’Iraq sul territorio turco per raggiungere Kobane e partecipare alla guerra contro l’ISIS.La concessione, tuttavia, appare come un tentativo da parte turca di togliersi di dosso le critiche per non avere fatto nulla di fronte all’assedio dei curdi siriani da parte dei jihadisti pur mantenendo sostanzialmente invariata la propria posizione sulla crisi in atto.
Anche i media ufficiali in Occidente hanno sottolineato come la decisione di Erdogan sia poco più di una mossa propagandistica, visto che il possibile afflusso dei peshmerga in Siria servirebbe anche a controbilanciare l’influenza delle formazioni legate al PKK. Inoltre, non sembra essere stata presa ancora nessuna iniziativa da parte del governo autonomo curdo in Iraq sull’invio dei peshmerga in Siria, tanto più che questi ultimi sono a loro volta duramente impegnati contro l’ISIS sul proprio territorio.
Se il governo turco è costretto quindi a una serie di acrobazie diplomatiche nei confronti delle varie fazioni curde per mantenere una facciata di coerenza nella gestione schizofrenica della propria politica estera, gli Stati Uniti sembrano puntare sempre più apertamente sulle milizie curde per fermare l’ISIS e avanzare i propri interessi in Medio Oriente, senza troppi imbarazzi se alcune di esse sono da loro stessi bollate come organizzazioni “terroristiche”.
Dal momento che il reale obiettivo di Washington nel lancio della guerra all’ISIS è rappresentato dalla deposizione del regime di Damasco, le forze curde in Siria potrebbero essere dirottate in un secondo momento verso uno scontro frontale con le forze regolari. Ciò appare tanto più probabile quanto l’opposizione “moderata” al regime di Assad, che avrebbe dovuto teoricamente costituire la forza terrestre da affiancare alle incursioni aeree degli USA, risulta del tutto inefficiente.
Gli USA potrebbero cercare così di spingere i curdi siriani a stabilire una qualche collaborazione con alcune forze “ribelli” selezionate, a cominciare dal Libero Esercito della Siria. Un simile piano comporterebbe però la rottura non solo dei legami con l’Iran ma anche di quella sorta di patto di non aggressione tra il regime siriano e i curdi del PYD che ha permesso a questi ultimi di ritagliarsi uno spazio di fatto autonomo nel nord della Siria.
Gli Stati Uniti e i paesi della “coalizione” anti-ISIS potrebbero comunque prospettare maggiori spazi per la minoranza curda in una Siria privata di Assad, così forse da convincere i leader di questa etnia a schierarsi senza riserve a fianco dell’opposizione al regime e trasformarsi a tutti gli effetti in una forza al servizio dell’Occidente.
Come appare evidente, dunque, l’agenda siriana di Washington e Ankara coincide in maniera sostanziale, poiché entrambi i governi operano per mettere da parte Assad e instaurare un governo-fantoccio che ribalti a loro favore il gioco di alleanze in Medio Oriente. Le differenze che stanno emergendo in queste settimane sono invece di natura puramente tattica, sulle modalità cioè con cui combattere o servirsi dell’ISIS per raggiungere uno scopo condiviso.Che l’evoluzione del conflitto possa avere assunto una dinamica che riflette le aspettative immediate della Turchia sembra essere suggerito, tra l’altro, da una notizia diffusa qualche giorno fa dal cosiddetto Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, di stanza in Gran Bretagna. Quest’ultimo ha sostenuto che l’ISIS sarebbe entrato in possesso di tre aerei da guerra e, con l’aiuto di ex ufficiali dell’esercito iracheno, starebbe addestrando alcuni suoi membri per poterli pilotare.
La notizia, sia pure non confermata dal governo americano, potrebbe fornire la giustificazione per imporre una no-fly zone sulla Siria, come chiede da tempo proprio la Turchia, così da colpire principalmente le forze aeree e contraeree del regime.
La più recente escalation del conflitto in Medio Oriente è stata registrata infine martedì, con il governo britannico che ha reso nota la decisione di operare “a breve” missioni di ricognizione con i droni sui cieli della Siria. L’obiettivo ufficiale sarebbe quello di raccogliere informazioni di intelligence sull’ISIS e, come ha sostenuto il ministro della Difesa di Londra, Michael Fallon, di “proteggere la nostra sicurezza nazionale dalla minaccia del terrorismo proveniente” dal teatro di guerra siriano.
Nel mese di settembre, il parlamento della Gran Bretagna aveva approvato a larga maggioranza le incursioni aeree contro l’ISIS in Iraq ma non in Siria. La decisione di martedì, se anche non autorizza ancora il lancio di bombe sulla Siria, coinvolge sempre più il governo di Londra nel nuovo conflitto orchestrato dagli Stati Uniti per rimuovere con la forza il regime di Bashar al-Assad.
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di Fabrizio Casari
I 193 paesi che compongono l’assemblea generale delle Nazioni Unite hanno votato l’ingresso del Venezuela nel Consiglio di Sicurezza. L’ingresso di Caracas è in qualità di membro a rotazione (mandato valido due anni) in osservanza al regolamento che vede affiancare dieci Paesi ai cinque membri permanenti, cioè Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna.
Pur senza poter disporre del diritto di veto, i dieci membri a rotazione partecipano comunque alle decisioni dell’organismo. Il Venezuela è stato eletto con 181 voti, benché fossero sufficienti 122 per la sua elezione e le astensioni sono state dieci.
L’ingresso del Venezuela è significativo sia sotto l’aspetto globale che continentale. Nell’aspetto globale, evidenziato dal numero particolarmente alto dei Paesi che hanno votato a favore, che sembra voler indicare il bisogno da parte di molte nazioni di riequilibrare politicamente un organismo dove spesso l’Occidente maramaldeggia.
Sul piano continentale il valore è innegabile, dal momento che il Venezuela è stato il candidato unico dell’America Latina, così come deciso in una riunione tra tutti i paesi latinoamericani e caraibici proprio all’ONU nel Luglio scorso. Il Venezuela è stato scelto proprio per voler rappresentare l’unità politica latinoamericana e questo assegna a Caracas, oltre ad un riconoscimento continentale di assoluta grandezza, un ruolo molto più importante di qualunque altro Paese eletto nella stessa occasione come membro del Consiglio di Sicurezza.
L’elezione al Palazzo di Vetro si da in un momento nel quale il governo di Maduro è eletto alla Presidenza dei Paesi Non Allineati, il che certifica un generale riconoscimento di valore ad un paese che con la sua intensa attività nella politica internazionale suscita ammirazione e riconoscimenti - per la coerenza come per i risultati - dei Paesi che non si sentono coinvolti nella destabilizzazione politica e militare permanente provocata dall’impero unipolare.Nelle stesse ore in cui l’Assemblea Generale dell’ONU eleggeva il Venezuela al Consiglio di Sicurezza, la FAO, l’organizzazione dell’ONU per l’alimentazione, assegnava un importante riconoscimento al governo di Nicolas Maduro per aver raggiunto anticipatamente gli "Obiettivi del Millennio". Il riconoscimento segue altri già assegnati negli ultimi anni e dimostra la validità del cammino venezuelano sul terreno dell’alimentazione.
A New York non sarà semplice. Il nuovo Consiglio di Sicurezza dell’Onu s’insedia in un quadro internazionale particolarmente problematico. C’è il conflitto in Iraq e Siria, dove la coalizione guidata dagli Stati Uniti risulta come minimo eterogenea, comprendendo paesi (Turchia, Arabia Saudita e Qatar) che sono veri e propri alleati dell’ISIS contro il quale sarebbero in guerra e che invece si muovono a limitare l’azione della coalizione stessa.
C’è il conflitto in Ucraina, dove resta alto il rischio di un confronto militare regionale tra NATO ed Europa da un lato e Russia dall’altra. Ci sono le proteste teleguidate ad Hong Kong promosse con un chiaro intento destabilizzatore per la Cina, e che avranno un ulteriore imput alla vigilia della visita di Stato di Obama a Pechino.
C’è poi la questione della lotta alla diffusione del virus Ebola, significativamente affrontata dagli Stati Uniti con i militari, mentre dai Paesi dell’ALBA (che ieri si sono riuniti a La Habana per determinare uno sforzo comune) arrivano aiuti e medici. Da Cuba in particolare, elogiata per il suo attivismo umanitario anche dal Segretario di Stato USA, John Kerry.
Questi ed altri numerosi conflitti configurano una congiuntura complessa nella quale le Nazioni Unite potranno e dovranno rappresentare un elemento di regolazione e moderazione nei confronti dell’ansia di conquista bellicista da parte di una NATO, che prova ad accendere fuochi in ogni parte del mondo per permettere all’impero in crisi di prestigio internazionale di mantenere e rafforzare la supremazia militare e politica a fil di spada.
Pur nella consapevolezza diffusa di come la prepotenza imperiale, quando non riesce a piegarlo ai suoi interessi tenda a superare il luogo per eccellenza deputato alla risoluzione delle controversie internazionali, le Nazioni Unite dovranno avere la capacità di affrontare gli spazi politici e giuridici nei quali la comunità internazionale si muove. Qui il Venezuela potrebbe giocare un ruolo determinante,i mantenendosi ferma nei suoi princìpi e rappresentando le ragioni e le aspirazioni delle vittime della destabilizzazione mondiale. Nello specifico regionale, il ruolo del Venezuela sarà importantissimo, visto che dovrà rappresentare l’intera America Latina. Dovrà riuscire a promuovere la sua cultura dell’integrazione economica e commerciale, la sua aspirazione all’unità politica continentale e, più in generale, la sua capacità di proporsi a breve e medio termine come nuovo asse strategico negli equilibri internazionali.
Dovrà per questo valorizzare il peso politico, economico e commerciale della nuova America Latina, proponendo un disegno della governance internazionale su schema multipolare. Si tratta di un compito difficile che metterà a prova la maturità politica del governo venezuelano, che però non resterà solo in questa sfida.
Non sarà comunque semplice questa nuova trincea per la rivoluzione bolivariana. Mentre dovrà cercare un respiro internazionale, dovrà anche porre mano decisa nell’ottimizzazione del suo processo politico, cercando gli aggiustamenti necessari alla sua politica economica.
Nel contempo dovrà continuare a difendersi dall’aggressione di una destra golpista ad alto tasso criminogeno che intende solo il linguaggio della violenza, unica vera risorsa di cui dispone.
Su questo terreno Caracas dovrà anche dimostrare capacità negoziale, ponendo sul tavolo nuove e maggiori capacità di mediazione che permettano di elevare ulteriormente il suo prestigio, arma importantissima per resistere con successo alle provocazioni che la destra internazionale, capeggiata da Uribe e diretta da Miami, continua a proporre. La sua vittoria sarà quella di tutta l’America Latina.
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di Michele Paris
Il voto di questa settimana alla Camera dei Comuni di Londra per riconoscere lo Stato palestinese ha rappresentato un’ulteriore conferma del crescente isolamento internazionale di Israele dopo la recente aggressione criminale contro la striscia di Gaza. Nonostante l’importante significato simbolico della mozione del Parlamento britannico, quest’ultima non avrà particolari effetti concreti, per lo meno a breve, sui rapporti tra il Regno Unito e Israele o sui negoziati di pace, fermi ormai da parecchi mesi.
La mozione sul riconoscimento della Palestina come Stato indipendente è stata presentata dal deputato laburista Grahame Morris e ha ottenuto 274 voti a favore e 12 contrari. La maggior parte dei consensi sono giunti proprio dai membri del Partito Laburista, mentre molti conservatori non erano presenti in aula.
Lo stesso primo ministro, David Cameron, è stato uno degli astenuti, confermando la nuova situazione di imbarazzo in cui si trova il suo governo dopo il voto sulla Palestina. Il gabinetto conservatore di Londra è infatti uno dei più fermi sostenitori di Israele ma si trova nella difficile posizione di difendere un governo criminale di fronte a un’opinione pubblica schierata in larga misura a sostegno del popolo palestinese.
L’equilibrismo del governo Cameron si è intravisto nelle reazioni dell’esecutivo al voto di lunedì sera, con il ministro per il Medio Oriente, Tobias Ellwood, che, pur definendosi un “fedele sostenitore” del diritto all’autodifesa di Israele, ha sottolineato la difficoltà per “gli amici di Israele” di affermare che questo paese desidera la pace.
Ellwood ha fatto riferimento alla recente decisione del governo Netanyahu di impossessarsi di altre terre palestinesi, in particolare di circa 384 ettari in Cisgiordania. Quest’ultima notizia, assieme alla guerra di Gaza della scorsa estate che ha provocato la morte di oltre duemila palestinesi - quasi tutti civili - e la distruzione indiscriminata di abitazioni, edifici pubblici e infrastrutture, ha fatto aumentare sensibilmente l’avversione dell’opinione pubblica europea nei confronti del governo di Tel Aviv, costringendo i governi come quello di Londra ad assumere posizioni timidamente critiche dell’alleato israeliano.
La Gran Bretagna, in ogni caso, ha ribadito che il pieno riconoscimento della Palestina come Stato indipendente avverrà quando ciò sarà una realtà di fatto, vale a dire al termine dei negoziati con Israele.In sostanza, malgrado il voto alla Camera dei Comuni la posizione ufficiale di Londra continua a essere in linea con quella di Tel Aviv, da dove il governo Netanyahu, nel condannare l’iniziativa, ha affermato che “il prematuro riconoscimento internazionale manda un segnale preoccupante ai leader palestinesi, cioè che essi possono evitare le scelte difficili che entrambe le parti devono fare, riducendo di fatto le possibilità di raggiungere un accordo di pace”.
L’imbarazzo per Netanyahu e l’intera classe politica israeliana è comunque più che evidente, anche perché il voto di Londra è giunto pochi giorni dopo l’annuncio del nuovo governo socialdemocratico in Svezia di riconoscere lo Stato palestinese. Secondo i resoconti dei media, Israele aveva cercato in tutti i modi di bloccare la mozione laburista in Gran Bretagna o, quanto meno, di ottenere un voto favorevole e impedire un possibile effetto a catena in altri paesi europei.
Lo stesso Partito Laburista israeliano all’opposizione aveva fatto pressioni sulla propria controparte britannica per cancellare il voto, ma senza successo. I vertici del “Labour” a Londra devono avere valutato il riconoscimento della Palestina come una manovra elettorale di un certo effetto, alla luce sia del favore popolare per una simile iniziativa - non solo tra gli elettori di fede musulmana - sia degli affanni del partito in vista delle elezioni del prossimo anno, nonostante il vantaggio sui conservatori evidenziato dai sondaggi.
A rivelare l’importanza assegnata dai laburisti a un voto in larga misura simbolico come quello di lunedì c’è la decisione dei leader del partito di imporre la cosiddetta “three-line whip”, una direttiva cioè che obbliga di fatto i propri membri in Parlamento a partecipare al voto e a esprimersi secondo le indicazioni, pena sanzioni che possono includere anche l’espulsione dal gruppo parlamentare se non dal partito stesso.
Le iniziative anti-israeliane in Europa stanno in ogni caso aumentando negli ultimi mesi, anche se prese di posizioni in maniera diretta da parte di governi o parlamenti continuano a essere rare. In Gran Bretagna, ad esempio, oltre alle manifestazioni di protesta della scorsa estate contro l’aggressione di Gaza è stata lanciata una campagna di boicottaggio e disinvestimento nei confronti di Israele da parte di alcune organizzazioni sindacali.Sempre questa settimana, poi, il governo francese per bocca del ministro degli Esteri, Laurent Fabius, non ha escluso il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese. Il diplomatico transalpino ha avvertito che una simile mossa arriverebbe da Parigi solo se dovesse contribuire al raggiungimento della pace e non come puro gesto simbolico. Tuttavia, ha aggiunto Fabius, “se i negoziati dovessero fallire, la Francia non sfuggirà alle sue responsabilità” e potrebbe offrire il proprio riconoscimento incondizionato alla Palestina.
Queste iniziative, anche se accentuano l’isolamento di Israele, per il momento non avranno conseguenze significative sulla situazione in Medio Oriente o sulla sorte dei palestinesi, dal momento che Tel Aviv continua a godere dell’appoggio pressoché incondizionato degli Stati Uniti.
Inoltre, i riconoscimenti dei giorni scorsi finiscono per beneficiare un’Autorità Palestinese che ha ben poco da offrire al suo popolo, il quale vede correttamente i propri leader in maniera non troppo differente dagli oppressori israeliani e dai loro alleati americani.
Infatti, dietro al voto di Londra e Stoccolma, così come ai segnali che provengono da Parigi, oltre alla risposta alla crescente ostilità verso Israele c’è anche il desiderio dei governi occidentali di soccorrere in qualche modo proprio l’Autorità Palestinese e il suo presidente, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ulteriormente screditati dopo l’aggressione contro Gaza che ha determinato un evidente aumento della popolarità dei rivali di Hamas.
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di Fabrizio Casari
Il messaggio delle urne boliviane è chiarissimo: il primo presidente indio della Bolivia sarà anche il prossimo. Con oltre il 60% dei voti, infatti, affermandosi in otto dei nove dipartimenti in cui è suddiviso il Paese, Evo Morales ha stravinto le elezioni di domenica scorsa in Bolivia e sarà ancora Presidente per altri 4 anni. L’ex leader del MAS (Movimiento al Socialismo), figura nobilissima della sinistra latinoamericana, ha conquistato per la terza volta la presidenza del suo paese, surclassando l’opposizione di destra sponsorizzata da Washington.
Il risultato era atteso. Non tanto per la debolezza della destra, quanto per i risultati di otto anni di presidenza della sinistra. Evo ha raccolto i frutti di quanto seminato in un paese che, nonostante la contrazione economica dell’area, risulta in pieno ciclo espansivo da diversi anni.
Ciò grazie agli otto anni della sua presidenza, caratterizzatasi per le politiche socialiste nella riorganizzazione dell’economia, fatte anche di nazionalizzazione degli impianti e di restituzione agli interessi nazionali degli accordi con le compagnie straniere. Con una economia in crescita del 6%, la Bolivia non poteva che assegnare con il voto il riconoscimento alla qualità dell’impianto socio-economico del modello.
I risultati della sua politica economica si sono visti: il ricavato dei suoi giacimenti di gas, delle sue piantagioni di soia e della raccolta della pasta di coca destinata al mercato legale, hanno prodotto un pareggio di bilancio mai registrato nella storia del paese andino. Un tempo destinate a prendere il volo verso gli USA, le risorse ottenute dall’industria dello sfruttamento degli idrocarburi sono state la fonte di finanziamento delle opere sociali che hanno enormemente ridotto la distanza tra i diversi settori sociali della società boliviana.
Aiuti diretti e indiretti agli anziani, alle donne in gravidanza e a tutti i bambini, ampliamento dei servizi e riconoscimento del dovere d'intervento dello Stato nelle problematiche più acute sono state il modus operandi del governare di Evo Morales.
Il successo economico del socialismo boliviano è stato possibile anche grazie ad un generale smantellamento del sistema costituzionale precedente, cucito su misura per gli interessi del latifondo locale e delle multinazionali estrattive statunitensi che aveva regalato alla Bolivia 190 anni di storia coloniale.
In questo senso tra i successi maggiori e migliori ottenuti da Evo nei precedenti mandati c’è certamente quello della nuova Carta costituzionale, da lui fortemente voluta ed approvata nel Gennaio del 2009, che - come dichiarò alla sua approvazione -“rappresenta la fine del latifondismo e dell’epoca coloniale, interna ed esterna”.
E non è certo indifferente, per la riorganizzazione del tessuto produttivo del Paese, ciò che la Carta impone con l’articolo 398: il limite invalicabile di cinquemila ettari per l’estensione massima delle proprietà terriere e stabilisce altresì che sarà necessario, in futuro, ottenere l’approvazione delle comunità indigene prima di poter sfruttare le risorse naturali nel loro territorio.
La nuova Costituzione disegna la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”. Il testo costituzionale riconosce tre tipi di democrazia: rappresentativa, diretta e comunitaria e allo stesso tempo stabilisce una conseguente articolazione tra la giustizia ordinaria e la quella comunitaria.
E proprio sotto il profilo dell’articolazione dello Stato (elemento non certo secondario nella riforma di un Paese) l’innovazione è stata straordinaria e di assoluto valore storico: la nuova Carta, infatti, prende atto della struttura plurinazionale del paese che viene rappresentata direttamente ed indirettamente in tutti i suoi 411 articoli, che riconoscono sullo stesso piano le autonomie regionali, provinciali, territoriali indigene e municipali che già esistono.
Insomma, la Carta elaborata dall’Assemblea Costituente è stata un’opera di alta ingegneria politica e una vera e propria rivoluzione culturale, che ha aumentato notevolmente il controllo statale sull’economia e l’influenza delle 36 nazioni indigene nella rappresentanza politica. In questi ed altri passaggi si evidenzia il senso politico che ha caratterizzato i suoi mandati presidenziali di Evo Morales: la costruzione del retroterra politico ed istituzionale di un paese plurale sancito costituzionalmente.Parlando dal balcone del Palacio Quemado, la sede del governo a La Paz, Evo ha dedicato la sua vittoria a “tutti i popoli del mondo in lotta contro l’imperialismo” e, in particolare, a Fidel Castro e Hugo Chavez, suoi punti di riferimento umani, oltre che politici.
Fidel Castro, che 54 anni orsono ruppe la catena di comando statunitense sul continente, trasformando Cuba nel primo territorio libero delle Americhe ed edificando un sistema che per equità e sovranità nazionale, é esempio vivente per tutta la sinistra del continente e non solo, di Evo è stato in qualche modo “padre putativo”, consigliere e riferimento costante nel suo agire politico.
Hugo Chavez, che seguendo il cammino tracciato da Simon Bolivar restituì il Venezuela ai venezuelani e che diede vita al “Socialismo del terzo millennio”, è stato l’alleato più immediato e leale per il giovane presidente boliviano, che pure nel suo incedere vittorioso ha dovuto affrontare (come Chavez) un tentativo di colpo di stato e serrate da parte dei suoi avversari che cercavano d’isolare la Bolivia e riportarla nelle solite mani a stelle e strisce.
D’altra parte la lunghissima marcia dall’opposizione al governo non faceva presagire un mandato tenue, incerto sul da farsi o a tinte fosche. L’integrità morale e la fede politica di Evo non erano adatte a un governo qualunque. E così non è stato.
Evo non ha adeguato i suoi ideali al mercato ma ha ricondotto il mercato alle esigenze del suo paese; non ha mai smesso i panni di leader della sinistra latinoamericana né ha avuto esitazioni nello scontrarsi con gli interessi e l’arroganza degli Stati Uniti. Dalla Cuba di Castro al Venezuela di Maduro, dal Nicaragua di Ortega all’Ecuador di Correa, dall’Argentina di Cristina Kirchner al Brasile di Djilma, Morales ha continuato a tessere la tela ormai robusta dell’unità latinoamericana.
Una consapevolezza continentale che ha nella sua unità la leva principale delle sue politiche commerciali e che ha seppellito da un decennio ormai, il Washington consensus, cioè quel sistema di dipendenza dagli Stati Uniti che, con rare e circoscritte eccezioni, caratterizzava le scelte e i destini dell’America Latina fino alla fine degli anni ’90.La vittoria di Evo Morales è la vittoria di chi non svende per una poltrona i suoi ideali. Di chi non s’inginocchia, abbagliato dalla fama e dalle ricchezze e obnubilato dall’ambizione personale, di fronte al volere delle multinazionali ed al pensiero unico che ne costituisce l’humus ideologico.
Dimostra che si può pensare e realizzare una diversa politica economica e trarre i frutti per una diversa politica sociale. Che il mercato è un animale onnivoro che va controllato e regolamentato e che la ricchezza è solo arrogante privilegio se non viene distribuita equamente.
E dimostra anche che la sovranità nazionale, motore indiscutibile delle politiche economiche e sociali, si nutre dell’identità nazionale e del senso dell’indipendenza. La ricetta della vittoria della sinistra latinoamericana è soprattutto questa. Indipendenza, sovranità, integrazione, solidarietà: una manna indigesta per lo stomaco dello Zio Sam.