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di Michele Paris
Per decenni dopo la fine di una Seconda Guerra Mondiale combattuta ufficialmente per fermare la minaccia del nazi-fascismo e in difesa della democrazia, gli Stati Uniti hanno assoldato migliaia di ex membri del regime nazista da impiegare come spie, informatori o ricercatori, nonostante il passato da criminali di molti di loro fosse ben noto alle agenzie di intelligence americane.
La notizia è tutt’altro che nuova ma un libro pubblicato questa settimana negli Stati Uniti (The Nazis next door: how America became a safe haven for Hitler’s men) e scritto dal reporter del New York Times, Eric Lichtblau, racconta alcuni particolari nel dettaglio e rivela una collaborazione tra la CIA, così come altre agenzie governative, e gli ex nazisti decisamente più profonda rispetto a quanto era noto finora.
I piani più “aggressivi” per reclutare ex nazisti vengono attribuiti soprattutto agli sforzi messi in atto negli anni Cinquanta dall’FBI sotto la guida di J. Edgar Hoover e dalla CIA di Allen Dulles. Il desiderio di avere a disposizione indivdui ben addestrati in vari ambiti - da quello militare a quello scentifico o dell’intelligence - per essere utilizzati in funzione anti-sovietica aveva prevalso su qualsiasi altro scrupolo, tanto che Hoover, ad esempio, era solito respingere le accuse nei loro confronti come propaganda di Mosca.
Molti degli ex nazisti a cui fu garantito l’accesso negli Stati Uniti erano noti criminali di guerra e, ciononostante, i vertici della sicurezza nazionale americana non solo li avrebbero ingaggiati ma sarebbero giunti ad adoperarsi per ostacolare varie indagini nei loro confronti.
Il libro di Lichtblau si basa sul lavoro di un gruppo di ricerca negli Stati Uniti che si occupa di identificare e classificare documenti relativi ai crimini nazisti e del Giappone imperiale. Alcuni documenti analizzati dall’autore contribuiscono a fare maggiore luce anche sull’impegno del governo USA nel creare una nuova agenzia di intelligence nella Germania dell’Ovest (BND) dopo la fine del conflitto.
Già una ricerca di alcuni storici del 2004 aveva mostrato come il numero uno dei servizi segreti nazisti sul Fronte Orientale, generale Reinhard Gehlen, fosse stato scelto dai militari americani per mettere in piedi il primo nucleo dell’intelligence tedesco-occidentale. Gehlen scelse personalmente un centinaio di ex nazisti che avevano avuto incarichi di spicco nell’esercito o nei servizi segreti del Reich.Il gruppo di spie finite successivamente sul libro paga della CIA includeva allo stesso modo ex nazisti che avevano operato ai vertici del regime di Adolf Hitler, come l’ex ufficiale delle SS, Otto von Bolschwing. Quest’ultimo era molto vicino ad Adolf Eichmann, del quale condivideva la teoria della “Soluzione Finale”, essendo stato autore di scritti programmatici sullo sterminio degli ebrei.
Dopo la guerra, scrive Lichtblau, Bolschwing era stato assoldato dalla CIA come spia in Europa e nel 1954 venne trasferito a New York assieme alla famiglia. L’agenzia di intelligence americana scriveva a proposito dell’ex SS che la residenza negli USA gli era stata offerta come “premio per i suoi fedeli servizi nel dopoguerra e alla luce dell’irrilevanza delle sue attività nel partito [Nazista]”.
La protezione della CIA non doveva tuttavia lasciare troppo tranquillo un uomo con il passato di Bolschwing, visto che l’ex nazista, dopo la cattura di Eichmann da parte degli israeliani in Argentina nel 1960, manifestò ai suoi nuovi padroni americani la preoccupazione di venire catturato allo stesso modo.
Anche la CIA stessa era in apprensione, poiché l’eventuale arresto di Bolschwing avrebbe potuto esporre il suo passato da “collaboratore” di Eichmann, risultando “imbarazzante” per il governo USA. Due agenti della CIA incontrarono però Bolschwing nel 1961 e gli assicurarono che l’agenzia non avrebbe rivelato i suoi legami con Eichmann. Bolschwing sarebbe così vissuto indisturbato per altri vent’anni prima di essere scovato e messo sotto accusa. Nel 1981 rinunciò alla cittadinanza americana e morì alcuni mesi più tardi.
Un altro caso raccontato dal libro appena pubblicato è quello del collaboratore dei nazisti in Lituania, Aleksandras Lileikis, collegato dagli stessi documenti della CIA al massacro di 60 mila ebrei a Vilnius. Nonostante i sospetti sulle sue responsabilità e il fatto che fosse “sotto il controllo della Gestapo durante la guerra”, Lileikis venne assunto dalla CIA nel 1952 per condurre attività di spionaggio in Germania dell’Est.
Quattro anni più tardi sarebbe stato anch’egli accolto negli USA, dove ha vissuto in pace per quasi quarant’anni prima di venire scoperto nel 1994. Il Dipartimento di Giustizia USA si sarebbe dovuto però scontrare con l’ostruzionismo della CIA, da dove si invitava a insabbiare il caso per evitare la diffusione di informazioni imbarazzanti per l’agenzia di intelligence.Lileikis fu alla fine deportato in Lituania ma la CIA si sarebbe distina nuovamente per i suoi sforzi nel nascondere il passato criminale del proprio uomo. In una comunicazione classificata trasmessa alla commissione della Camera dei Rappresentanti per i Servizi Segreti, la CIA aveva infatti ammesso l’utilizzo di Lileikis come spia, negando però di essere a conoscenza delle sue “attività in tempo di guerra”.
Nel 1980 fu invece l’FBI a respingere le richieste del Dipartimento di Giustizia di consegnare documenti e informazioni relativi a 16 sospetti ex nazisti residenti negli Stati Uniti. L’atteggiamento dell’FBI era dovuto al fatto che i 16 individui erano stati tutti suoi informatori, resisi utili, tra l’altro, nel fornire notizie relative a “simpatizzanti comunisti”.
Tra le personalità legate al nazismo che collaborarono con la CIA ci sono stati anche svariati scienziati che il governo USA sapeva essere coinvolti in esperimenti pseudo-medici su esseri umani. Gli scienziati nazisti furono reclutati a partire dal 1945, quando il precursore della CIA - l’Office of Strategic Services (OSS) - fu autorizzato dall’amministrazione Truman a mettere in atto il cosiddetto progetto “Paperclip”.
In base a questo piano giunsero negli USA almeno 1.500 scienziati tedeschi legati al regime hitleriano. A costoro sarebbe stata garantita la possibilità di continuare a svolgere l’attività scientifica nella loro nuova patria dopo avere firmato una dichiarazione nella quale erano tenuti a spiegare le ragioni dell’adesione al Partito Nazista.
Tra gli scienziati ingaggiati dalla CIA figurava il dottor Hubertus Strughold, fortemente sospettato di avere condotto raccapriccianti esperimenti anche su bambini. Strughold era stato messo sotto indagine nell’ambito del processo di Norimberga ma le accuse furono lasciate cadere nel 1947. Di lì a poco, il medico nazista sarebbe stato trasferito in Texas, dove gli fu garantito un impiego per l’aeronautica militare americana, mentre alcune successive inchieste avviate nei suoi confronti dal sistema giudiziario degli Stati Uniti non avrebbero avuto alcun successo.
Complessivamente, i documenti citati dal giornalista del New York Times indicano almeno un migliaio di ex nazisti al servizio della CIA, dell’FBI e di altre agenzie USA dopo la Seconda Guerra Mondiale. Secondo gli stessi ricercatori, tuttavia, il numero reale deve essere molto superiore, dal momento che parecchi documenti restano tuttora classificati.Il recentissimo studio, assieme a molti altri pubblicati in passato, contribuisce dunque a rivelare l’atteggiamento indiscutibilmente benevolo nei confronti del nazismo da parte delle sezioni più potenti e influenti della clase dirigente americana dopo la Seconda Guerra Mondiale.
A motivare la collaborazione con individui macchiatisi di crimini atroci, e che incarnavano un’ideologia e un sistema di potere dittatoriale che gli Stati Uniti e i loro alleati sostenevano dovessero essere annientati con la forza, era in sostanza il timore dell’Unione Sovietica e dei fermenti rivoluzionari seguiti al conflitto.
L’impiego senza scrupoli di criminali nazisti per il raggiungimento degli obiettivi dell’imperialismo americano rende infine evidente come i valori della “democrazia” e della lotta al nazi-fascismo - con una eco inquietante che ricorda l’attuale “guerra al terrore” - fossero per il governo di Washington poco più di espedienti retorici per mobilitare l’opinione pubblica e intervenire in una guerra da combattere in difesa di interessi decisamente meno nobili.
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di Michele Paris
Le formazioni politiche ucraine filo-occidentali si sono aggiudicate come previsto il maggior numero di voti nelle elezioni per il rinnovo del parlamento (Verkhovna Rada) andate in scena nella giornata di domenica. La consultazione è servita in larghissima misura a dare un’apparenza di legittimità al regime golpista di Kiev in vista dell’adozione delle “riforme” resesi necessarie dalla rottura con Mosca e dal conseguente abbraccio con Washington e Berlino.
Con il conteggio delle schede valide non ancora ultimato, i partiti che hanno ottenuto più seggi sono il Fronte Popolare del primo ministro, Arseny Yatsenyuk, e il Blocco che porta il nome del presidente, l’oligarca Petro Poroshenko.
Entrambi i partiti navigano attorno al 21 o al 22%, con il Blocco Poroshenko che sembrava essere in testa dopo la diffusione degli exit poll e quello del premier che, secondo le proiezioni, ha invece sopravanzato quest’ultimo, sia pure con un margine esilissimo.
Complessivamente, le formazioni che hanno superato la soglia di sbarramento del 5% sarebbero 6 sulle 29 totali apparse sulle schede elettorali. Al terzo posto si è posizionato il partito Samopomich del sindaco di Lvov, Andrey Sadovy, con circa l’11%. I negoziati per la formazione del nuovo governo sono già iniziati lunedì tra il Fronte Popolare e il Blocco Poroshenko, anche se altri partiti potrebbero entrare a far parte della coalizione, a cominciare dallo stesso Samopomosh visto l’orientamento decisamente filo-occidentale dei suoi leader.
In parlamento entreranno anche il partito Patria (Batkivshchina) della ex premier e oligarca Yulia Tymoshenko, che ha raccolto poco meno del 6%, e con il 7,4% il Partito Radicale guidato da Oleh Lyashko, ex alleato della Tymoshenko e acceso oppositore di qualsiasi riconciliazione con Mosca.
Contrariamente alle aspettative, poi, il Blocco dell’Opposizione, formato da ex membri del Partito delle Regioni del presidente deposto Yanukovich e da altri politici filo-russi, ha fatto segnare un buon risultato sfiorando il 10%.
Il Blocco, il cui leader è l’ex vice-primo ministro e già numero uno della compagnia energetica pubblica Naftogaz, Yuri Boiko, è risultato anzi il primo partito in varie regioni dell’Ucraina sud-orientale, grazie sia all’appoggio dell’oligarca Sergiy Liovochkin sia alla persistente avversione nei confronti di Kiev diffusa tra la popolazione tradizionalmente legata alla Russia.Altri partiti che chiedono il ristabilimento dei legami privilegiati con Mosca non hanno infine superato lo sbarramento, come il Partito Comunista Ucraino, minacciato di scioglimento dai politici europeisti e sottoposto a intimidazioni e persecuzioni di vario genere nei mesi seguiti al colpo di stato di Febbraio.
I voti espressi per le varie liste presentate da partiti e blocchi elettorali sono serviti a scegliere solo gli occupanti della metà dei 450 seggi complessivi del Parlamento. L’altra metà viene assegnata con il voto diretto per i singoli candidati, appoggiati da un determinato partito o indipendenti.
Grazie a questo secondo aspetto della legge elettorale ucraina si sono già garantiti seggi in Parlamento una manciata di candidati dei partiti di estrema destra, se non apertamente neo-fascisti, Svoboda e Settore Destro, tra cui il leader di quest’ultimo, Dmitry Yarosh, eletto nella regione di Dnepropetrovsk con circa il 30% dei voti.
Oltre che dalla discutibile legittimità del regime installatosi a Kiev con l’aiuto dei governi occidentali, la validità del voto di domenica è messa in dubbio anche dal sostanziale boicottaggio attuato dai “ribelli” filo-russi nell’est del paese, i quali organizzerranno domenica prossima un’elezione a parte nelle aree sotto il loro controllo.
Secondo alcune stime, tra i 3 e i 5 milioni di ucraini nelle regioni vicine alla Russia non si sono recati alle urne, vale a dire tra il 10 e il 20% dell’intero elettorato. Inoltre, in altre regioni sud-orientali l’affluenza è stata decisamente più bassa rispetto a quella generale, fissata dalla Commissione Elettorale al 52,4%. Nella regione di Odessa, ad esempio, secondo i dati ufficiali i votanti non sono arrivati al 40%, mentre in quella di Donetsk hanno superato di poco il 32%.
Come già ancitipato, le consultazione per la formazione del nuovo gabinetto sono iniziate lunedì ancor prima dei dati ufficiali definitivi e i leader del Blocco Poroshenko hanno lasciato intendere che all’interno della coalizione di governo potrebbero entrare tutte le forze che hanno partecipato al golpe contro Yanukovich, incluso il partito Svoboda.
Lo status di primo partito per il Fronte Popolare dovrebbe poi assicurare la conferma dell’attuale premier Yatseniuk alla guida del governo, come auspicato dall’Occidente. Scelto direttamente da Washington per il dopo Yanukovich, il primo ministro dovrebbe continuare a presiedere all’implementazione del programma di “ristrutturazione” dell’economia ucraina dettato dal Fondo Monetario Internazionale.Le misure previste minacciano in un futuro non troppo distante di far riesplodere le tensioni nel paese dell’Europa orientale, questa volta contro il nuovo regime, così che il voto è stato deciso e viene ora utilizzato dagli oligarchi ucraini che dominano la scena politica anche per cercare di mettere assieme la coalizione più ampia possibile che dia una parvenza democratica al regime.
Parlando al paese poco dopo la chiusura delle urne, il presidente Poroshenko ha ringraziato infatti gli elettori per avere scelto una “maggioranza democratica, riformista e filo-occidentale”. Allo stesso modo, i governi occidentali hanno salutato il voto come una conferma del percorso democratico che avrebbe intrapreso l’Ucraina.
Tra le celebrazioni, si è ovviamente tralasciato di ricordare come questi ultimi mesi siano stati in realtà caratterizzati da una violenta repressione ai danni dei separatisti filo-russi e della popolazione russofona, condotta dalle forze regolari di Kiev e da milizie paramilitari neo-fasciste, così come dalla persecuzione degli oppositori del colpo di stato e dall’avvio di rovinose politiche ultra-liberiste.
Se il nuovo governo ucraino guarderà così ancor più a Occidente, secondo molti sembra esserci all’orizzonte anche un accordo con la Russia per la risoluzione della crisi nelle regioni orientali. Da Mosca, infatti, è già arrivato il riconoscimento del voto di domenica, a conferma della continua disponibilità di Putin, ferme restando alcune condizioni imprescindibili, a superare uno scontro che sta avendo effetti indesiderati su tutte le parti in causa.
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di Fabrizio Casari
Smentendo cassandre ed improvvisati analisti, Dilma Roussef è ancora Presidente del Brasile. La sua vittoria è di grande significato, decisamente più ampio del margine numerico con la quale è stata ottenuta al ballottaggio. E va comunque detto che anche sotto l’aspetto numerico la vittoria della Roussef non è stata affatto trascurabile, dal momento che il convergere dei voti della ex di tutto Marina Silva su Neves aveva ovviamente portato il candidato del latifondo e dell’imprenditoria brasiliana in una posizione di vantaggio teorico più che evidente. E invece la Presidente uscente ha vinto con più di tre milioni di voti di scarto.
E’ vero che il margine con il quale Dilma s’è imposta è minore rispetto agli ultimi anni, ma se si considera una naturale flessione del PT dopo 12 anni di governo e che Lula non può comunque essere un paragone per nessuno, data la sua strabordante popolarità, si capisce come la partita fosse più complicata del passato.
Del resto, le proteste che avevano scosso il paese prima e durante i Mondiali di calcio, il malessere ormai diffuso contro la corruzione e una riduzione dell’impatto riformatrice, insieme ad una campagna mediatica sapientemente orchestrata da Washington, avevano messo fortemente in discussione il governo della Presidente. Molti commenatori, da mesi, si esercitavano nel vaticinare la sicura sconfitta di Dilma, dapprima ad opera della voltagabbana di professione Silva, poi dall’ex governatore di Minais Gerais noto per i livelli di corruzione ed incapacità tra i più alti del Paese.
E invece la Presidenta ce l’ha fatta e il PT è riuscito ad imporre di nuovo un progetto Brasile che prevede sovranità nazionale, indipendenza e relazione privilegiata con il Sud del continente. Il proseguimento del cammino di Dilma significa infatti lo stop ai programmi della destra, che prevedevano per l'estero l'abbandono del blocco democratico latinoamericano e il ritorno sotto l'ala protettrice di Washington; per l'interno, di conseguenza, l’applicazione delle ricette del Fondo Monetario Internazionale. Le chiamano operazioni di “aggiustamento strutturale”, ma si legge devastazione sociale e progressivo trasferimento di sovranità dallo Stato al sistema bancario internazionale. Pericolo scampato.
Il Brasile può riprendere la corsa che aveva dimostrato come fosse capace di aggredire la povertà più di chiunque altro. La riduzione enorme della miseria, i milioni di posti di lavoro, l’ampliamento degli investimenti in istruzione e salute, l'inclusione di decine di milioni di brasiliani, hanno ridotto sensibilmente - pur se tanta è ancora la strada da fare - la forbice sociale che faceva del Brasile il paese simbolo delle diseguaglianze.E, seppure in una fase di compressione della spinta espansiva del ciclo economico, dovrà comunque mettere mano alle riforme che gli consentiranno di approfondire il percorso di redistribuzione della ricchezza del Paese, trasformando così in riforme strutturali quelle che, fino ad ora, sono state politiche coraggiose ed includenti ma che, pur necessarie, non sono ancora sufficienti a colmare il gap socioeconomico interno.
E oltre ad estendere ed incrementare le riforme economiche e il rafforzamento del welfare attuato nei tre mandati precedenti del PT, Dilma proverà a cercare il dialogo con i ceti medi che chiedono significativi passi avanti in termini di maggiore benessere.
Tenere insieme le istanze del Movimento Senza Terra e della piccola e media borghesia brasiliana può sembrare un obiettivo impossibile sulla carta, ma la coesione sociale determinata dalle politiche espansive e di sostegno al welfare sono benzina nel motore della trasformazione del Brasile; trasformazione della quale, a cascata, tutti i segmenti non parassitari della società trarranno beneficio.
Un grande peso avranno però le riforme politiche, cioè l’altra grande sfida da vincere per Dilma che ha affermato di voler riformare l’immunità parlamentare, da lei definita “la protettrice della corruzione”.
Dilma governerà con una opposizione più forte che in passato. Una opposizione che tiene insieme il latifondo, la finanza e buona parte (non tutta) dell’imprenditoria, spalleggiate dalle associazioni degli ex militari spaventati da quanto la Presidente ha promesso in ordine alla riscoperta della memoria storica del paese.
Così come già realizzato in Argentina e, in parte minore in Uruguay, anche il Brasile potrà riscrivere gli anni della dittatura militare e degli abusi continui perpetrati in nome della “lotta al comunismo” e la riapertura dei casi di omicidi, violenze e torture sui prigionieri politici agitano i sogni degli ex gorilla della dittatura.
Sul piano internazionale la vittoria non è meno importante e i riflessi sull’intero continente sono decisivi, soprattutto perché la vittoria di Dijlma impedirà la virata a 360 gradi che Naves aveva annunciato, consistente nel ritorno del Brasile nella sfera d’influenza degli Stati Uniti con il conseguente abbandono delle politiche d’integrazione regionale e alleanza politica con il blocco democratico latinoamericano.
La vittoria del PT fa esultare Caracas e Buenos Aires, tranquillizza La Habana e Managua, conforta La Paz e Quito e rasserena Montevideo, in attesa del ballottaggio tra Tabarè Vasquez e Luis Lacalle Pou (che dovrebbe comunque vedere vincente Tabarè e il Frente Amplio); cioè tutti quei paesi che sulla nuova dimensione democratica ed integrazionista latinoamericana hanno scommesso per la loro politica interna ed internazionale.
Per le dimensioni economiche e militari e per il peso politico e diplomatico che gli appartengono, un eventuale marcia indietro del Brasile avrebbe comportato un problema enorme alle democrazie latinoamericane. Sul piano internazionale più ampio, il ruolo di Brasilia nei BRICS, come nei NOAL è strategico; insieme al Sudafrica rappresenta l’interlocutore politico più considerato sia a Washington che a Bruxelles, a Tokio come a Pechino.
Le aperture a Mosca e Teheran sul piano dei rapporti commerciali bilaterali che hanno compreso persino la sfera delle dotazioni militari e degli investimenti per lo sviluppo, esprimono sufficientemente l’autorevolezza di un paese che, grande come un continente, è destinato ad avere un ruolo ogni giorno maggiore. E con lui, l’intera America Latina.
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di Michele Paris
A sette anni di distanza da una delle stragi più famose avvenute nell’Iraq occupato dagli americani, quattro ex mercenari della compagnia privata di sicurezza Blackwater sono stati condannati in primo grado da una giuria federale negli Stati Uniti. L’ex contractor Nicholas Slatten è stato riconosciuto colpevole di omicidio di primo grado, mentre i suoi colleghi Evan Liberty, Paul Slough e Dustin Heard di omicidio volontario (“manslaughter”) e di avere utilizzato mitragliatori per commettere un crimine violento.
Le pene per le quattro ex guardie private verranno stabilite in un secondo momento dal giudice che ha presieduto il procedimento durato 11 settimane. Per Slatten si prospetta un possibile ergastolo, mentre per gli altri tre mercenari la pena minima prevista è di trent’anni.
Un quinto contractor, Jeremy Ridgeway, si era dichiarato colpevole di omicidio volontario prima dell’inizio del processo e si era messo a disposizione dell’accusa, risultando fondamentale per la condanna dei colleghi.
Anche se i quattro sono stati subito tradotti in carcere, il caso è tutt’altro che concluso. Il praticamente certo appello potrebbe prolungarsi per più di un anno e una questione di competenze minaccia addirittura l’annullamento dell’intero processo.
Secondo la legge americana, cioè, il dipartimento di Giustizia ha giurisdizione sui crimini commessi all’estero solo da parte di appaltatori della Difesa, ovvero del Pentagono, mentre Blackwater all’epoca dei fatti nel 2007 era alle dipendenze del Dipartimento di Stato. In primo grado, i giurati hanno ritenuto trascurabile la questione tecnica ma essa potrebbe riemergere nei prossimi mesi.
In ogni caso, le sentenze di condanna appena emesse sono il riflesso del sentimento di disgusto nutrito tra la popolazione irachena e americana per il massacro di piazza Nisour, per la libertà di commettere crimini e l’impunità di cui hanno goduto agenzie private come Blackwater nel paese occupato, grazie ai legami con il governo di Washington.
La decisione dei giurati è però anche la conseguenza di un caso che ha sempre mostrato la fragilità delle tesi della difesa. Che i mercenari avessero sparato contro una folla di civili a piedi e in auto nel traffico di piazza Nisour, a Baghdad, per rispondere a una presunta minaccia non ha infatti mai trovato alcun riscontro.Indagini condotte dal governo e da importanti giornali americani, così come le testimonianze di decine di cittadini iracheni che si erano recati a Washington nei mesi scorsi, hanno in sostanza delineato uno scenario nel quale gli uomini di Blackwater avevano preso di mira i veicoli fermi nel traffico nella capitale senza ragione dopo avere individuato una singola auto come possibile minaccia. Alla fine della giornata del 16 settembre 2007, sul campo rimasero 17 civili iracheni morti e una ventina di feriti.
Il nome stesso Blackwater, soprattutto dopo i fatti di piazza Nisour, era così diventato sinonimo di violenza, soprusi e oppressione di un intero popolo e di una società letteralmente devastata dall’invasione illegale del 2003.
La compagnia privata di sicurezza era stata fondata da un ex agente della CIA, Erik Prince, e aveva incassato centinaia di milioni di dollari di denaro pubblico grazie a lucrosi contratti per la difesa dei diplomatici USA nell’Iraq occupato e per altri incarichi segreti.
La potenza di Blackwater era apparsa evidente anche dal trattamento che i suoi uomini avevano ricevuto dal governo americano proprio dopo i fatti del settembre 2007. Il Dipartimento di Stato, ad esempio, aveva “ripulito” la scena del crimine per ostacolare la raccolta di prove, mentre in seguito avrebbe offerto una parziale immunità ai contractor coinvolti, rendendo più difficile la loro incriminazione da parte del Dipartimento di Giustizia.
Nel 2009 un giudice americano prosciolse poi di fatto i mercenari di Blackwater a causa del comportamento “irresponsabile” del governo, anche se il caso è stato infine riportato in aula con l’esito registrato qualche giorno fa.
Il governo americano ha cercato di trasformare il verdetto in una vittoria per l’amministrazione Obama e nella dimostrazione del presunto impegno di Washington per la giustizia e i valori democratici. In realtà, la condanna degli uomini di Blackwater non è che il riconoscimento delle colpe enormi della classe dirigente americana, responsabile del crimine più grave del nuovo secolo, cioè la sostanziale distruzione dell’Iraq.Il comportamento dei contractor privati al servizio del governo deriva infatti dal crimine stesso dell’invasione e dell’occupazione, avvenute unicamente per ragioni strategiche, per le quali nessun membro della precedente amministrazione è stato messo sotto processo né tantomeno condannato.
Oltre a piazza Nisour, i crimini americani di contractor privati e dell’esercito regolare restano legati a numerose altre località, da Falluja a Hadihta ad Abu Ghraib, per non parlare delle “imprese” statunitensi in Afghanistan o in Pakistan, per limitarsi solo all’ultimo decennio, compiute sia durante la presidenza Bush sia durante quella di Obama.
Il rapporto del governo americano con compagnie private di sicurezza come Blackwater non è infine sostanzialmente cambiato. Quest’ultima, ad esempio, dopo essere stata ribattezzata “Xe Services” nel 2009 e “Academi” nel 2011, ha continuato ad essere utilizzata come strumento della politica estera USA, avendo ottenuto contratti milionari con il Dipartimento di Stato e partecipando alla repressione in Ucraina orientale messa in atto dalle forze di Kiev e dalle milizie neo-naziste appoggiate dall’Occidente.
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di Michele Paris
La singolare coincidenza della sparatoria al Parlamento di Ottawa nella giornata di mercoledì con la prevista presentazione di una nuova legge, che dovrebbe assegnare maggiori poteri alle forze di sicurezza, ha finito per creare un’atmosfera di panico diffuso in tutto il Canada, garantendo mano libera al governo nel fronteggiare la presunta minaccia terroristica che graverebbe sul paese nordamericano.
I fatti di mercoledì, assieme a un altro episodio accaduto non lontano da Montréal solo due giorni prima, si conformano apparentemente alla perfezione alla tesi sostenuta da settimane dal primo ministro ultraconservatore, Stephen Harper, in concomitanza con la partecipazione del Canada alla guerra lanciata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico (ISIS) in Iraq e in Siria.
Il governo canadese continua infatti a mettere in guardia da possibili attentati terroristici nel paese, mentre recentemente era stato innalzato il livello di allerta proprio in previsione di eventi come quelli di questa settimana.
Un altro provvedimento da poco adottato in questo ambito è la confisca arbitraria dei passaporti di quei cittadini canadesi a cui viene attribuita l’intenzione di recarsi in Medio Oriente per combattere nelle fila del fondamentalismo islamico. Questa iniziativa, assieme al monitoraggio di sospetti jihadisti di ritorno in patria, si è rapidamente diffusa in vari paesi occidentali che intendono prendere di mira qualche centinaia di propri cittadini, ritenuti simpatizzanti o militanti dell’ISIS e di altre formazioni integraliste, che fino a pochi mesi fa condividevano di fatto lo stesso obiettivo perseguito dai loro governi, vale a dire il cambio di regime in Siria.
Destinatario di questo provvedimento era stato proprio il responsabile dell’uccisione di un soldato canadese di fronte al monumento del Milite Ignoto a Ottawa nella giornata di mercoledì. L’attentatore, identificato dalle forze di sicurezza nel 32enne Michael Zehaf-Bibeau, aveva una serie di precedenti per crimini vari, come rapina e possesso di stupefacenti, risiedeva presso un rifugio per senzatetto e pare si fosse da poco convertito all’Islam.Quest’ultimo era dunque finito su una lista di sospettati e perciò tenuto sotto controllo dalle autorità canadesi, le quali non hanno però spiegato come abbia potuto giungere indisturbato e armato di fucile al National War Memorial di Ottawa e successivamente fare irruzione nel palazzo del Parlamento. Qui si trovava mercoledì lo stesso premier Harper e i principali partiti canadesi stavano tenendo le loro riunioni settimanali.
Privato del passaporto e sulla lista nera del governo canadese era anche Martin Couture-Rouleau, l’uomo che lunedì scorso alla guida di un’auto aveva investito deliberatamente due soldati – uccidendone uno – a St. Jean-sur-Richelieu, nel Québec. Anch’egli ben noto alle forze di sicurezza, Couture-Rouleau è stato freddato con numerosi colpi di arma da fuoco dalla polizia nonostante avesse con sé soltanto un coltello.
Anche se eventuali simpatie per l’ISIS degli attentatori non sono ancora emerse, così come oscuri rimangono i reali moventi dei due episodi, il governo canadese non ha perso tempo a collegare l’accaduto al dilagare della formazione fondamentalista in Siria e in Iraq. Assoluto silenzio è stato invece mantenuto sulle responsabilità del governo canadese che, assieme a quello di Washington e a quelli europei, è tra i principali responsabili della nascita e dell’esplosione dell’ISIS, avvenute grazie a denaro, addestramento e armi forniti da vari regimi mediorientali con la supervisione, quanto meno, dei loro alleati in Occidente.
Senza mezzi termini, in una conferenza stampa Harper ha definito i due casi “atti terroristici”, assicurando che nei prossimi giorni emergeranno maggiori informazioni sugli autori ed eventuali complici. Il primo ministro ha poi affermato in diretta TV che il Canada “non si farà mai intimidire” e ha promesso poi che il governo farà tutti gli sforzi necessari per contrastare la minaccia terroristica.
Gli sforzi annunciati dovrebbero concretizzarsi in un nuovo grave attacco ai diritti democratici in Canada attraverso una serie di modifiche alla legge sull’anti-terrorismo del 2001 per renderla ancora più rigida. Il contenuto del provvedimento allo studio non è stato reso noto ma dovrebbe includere, tra l’altro, un allargamento dei poteri di sorveglianza assegnati ai servizi segreti canadesi (CSIS) e la restrizione dei diritti legali dei sospettati.
Le nuove misure avrebbero dovuto essere discusse in Parlamento proprio mercoledì ma la sparatoria ha determinato quella che la Reuters ha definito una “pausa di riflessione”. Secondo un esperto di sicurezza nazionale canadese citato dalla stessa agenzia di stampa, il govero Harper si troverebbe ora a dover fare una scelta tra la presentazione dello stesso provvedimento con quelle che vengono definite “modifiche minori” alla legge sull’anti-terrorismo o, più opportunamente, “riflettere sul fatto che siano necessari interventi più incisivi” dopo i fatti di Ottawa.Minacce sventate e attentati talvolta insoliti andati a buon fine, e spesso caratterizzati da fin troppo clamorose falle dei sistemi di sicurezza, si stanno moltiplicando in queste settimane dall’Australia al Canada, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, parallelamente al lancio della nuova “guerra al terrorismo” di matrice islamica in Medio Oriente.
Allo stesso tempo, a ciò si sta accompagnando una nuova ondata di leggi anti-democratiche che, più di un decennio dopo gli attacchi dell’11 settembre, stanno ulteriormente erodendo le libertà democratiche nei paesi occidentali e anche in questo caso grazie allo spauracchio del terrorismo jihadista, debitamente agitato dai governi e dai media ufficiali.
A confermare la portata della preoccupante campagna ultra-reazionaria in atto in Occidente c’è anche la stessa mobilitazione delle forze di sicurezza canadesi seguita alla sparatoria di mercoledì a Ottawa. Ricordando in maniera inquietante lo stato d’assedio nell’area di Boston dopo l’attentato alla maratona nella città americana nel 2013, la polizia canadese ha messo in atto misure di emergenza spropositate che hanno causato la chiusura di strade, scuole ed esercizi commerciali praticamente in tutto il centro di Ottawa.
Agenti di polizia armati fino ai denti hanno inoltre ispezionato gli edifici del centro per svariate ore dopo la sparatoria nel palazzo del Parlamento, così come sono state fermate per controlli molte auto che stavano lasciando la capitale federale.
L’emergenza non si è limitata infine a Ottawa ma anche le altre principali città canadesi - a cominciare da Toronto e Montréal - sono state interessate dalla chiusura forzata di uffici e dal dispiegamento massiccio delle forze di polizia, nel tentativo deliberato da parte delle autorità di creare, senza ragione, un clima di paura e di minaccia imminente.