di Mario Braconi

Come noto, al Governo israeliano non è andato giù il successo palestinese all’UNESCO, che ha riconosciuto la Palestina come suo stato membro. La punizione collettiva messa in atto da Netanyahu nei confronti dei riottosi palestinesi è stata quella di “congelare” i trasferimenti finanziari all’Autorità Palestinese (i dazi sulle merci destinate ai Territori sdoganate presso i porti isrealiani). Anche se la mancata revoca dell’iniquo provvedimento è un tentativo di dissuadere Abbas dal suo tentativo di ricucire con Hamas: o forse no?

Secondo una stima del Financial Times (FT), la somma che Israele si rifiuta di pagare ai Palestinesi è di circa 100 milioni di dollari americani (circa 73 milioni di euro) e rappresenta due terzi delle fonti di finanziamento dell’Autorità Palestinese ma quasi la metà delle sue uscite complessive.

Queste proporzioni spiegano in modo eloquente lo stato delle finanze dell’Autorità Palestinese che, anche anche in condizioni normali, per sopravvivere non può fare altro che ritardare i pagamenti e  ricorrere al credito bancario. Con un debito bancario di circa un miliardo di dollari (730 milioni di euro) ed uno scaduto commerciale di 500 milioni (365 milioni di euro), l’Autorità è prossima alla bancarotta.

Poiché circa il 60% del bilancio della ANP è rappresentato dagli stipendi dei suoi dipendenti, continuando a non pagare le somme dovute ai palestinesi Israele sta mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’Autorità, come ha dichiarato un suo portavoce Ghassan Khatib. Secondo alcuni diplomatici sentiti dal FT l’altro ieri, il governo israeliano sta scherzando con il fuoco: “E’ possibile che l’Autorità riesca a tirare avanti ancora un po’, ma c’è la prospettiva concreta che una parte o l’altra facciano un errore di valutazione che potrebbe condurre ad uno scenario ideale solo per gli estremisti”.

Una ANP azzoppata dall’incapacità di pagare gli stipendi e di erogare servizi ai cittadini è una mina innescata: la rabbia e la frustrazione della popolazione palestinese, oltre a mettere a rischio la tanto sbandierata sicurezza di Israele, potrebbe infatti condurre perfino ad una sommossa palestinese e al conseguente rovesciamento dell’attuale leadership.

Non è un mistero, del resto, che l’obiettivo finale di alcuni importanti ministri israeliani sia esattamente disarcionare Abu Mazen. Avigdor Lieberman lo ha anche dichiarato pubblicamente non più tardi di qualche settimana fa: “Qualsiasi rimpiazzo sarebbe meglio di Mahmoud Abbas”. Il FT ascrive anche il ministro delle Finanze israeliano Yuval Steinitz al gruppo di “strateghi” israeliani convinti che ficcare le mani nel portafoglio dei palestinesi sia un’iniziativa politicamente proficua, oltre che moralmente accettabile.

Sembra sia quella di Steinitz la firma sotto la precedente iniziativa dello stesso tipo, messa in atto a maggio. In quel caso il governo israeliano intendeva censurare l’abbozzo di accordo tra Al Fatah e Hamas, che prevedeva la formazione di un governo tecnico unitario su West Bank e Gaza, e nuove elezioni entro un anno.

Se l’obiettivo israeliano era quello di mettere in difficoltà la possibile riconciliazione tra i due gruppi palestinesi al potere a West Bank e Gaza, si può dire che anch’esso è fallito. Mercoledì, infatti, nel corso di una commemorazione di Arafat a Ramallah, il presidente Mahmoud Abbas ha annunciato che il 23 novembre incontrerà il leader di Hamas Khaled Meshaal, sei anni dopo la cacciata di Al Fatah da Gaza. L’incontro si svolgerà al Cairo: la negoziazione è stata infatti condotta, almeno nelle ultime settimane, da Nader al-Assar, ex console egiziano in Israele, nonché artefice dell’operazione Shalit.

E’ praticamente certo che il potenziale futuro governo di transizione vedrà la defenestrazione dell’attuale primo ministro di Al Fatah, Salam Fayyad, inviso ad Hamas. Abbas finora non si era piegato alle pressioni di Gaza, e aveva mantenuto Fayyad nel suo ufficio, dal momento che è figura ben vista dagli americani e in generale dalla comunità internazionale, ovvero da coloro che pagano il denaro necessario al funzionamento della macchina amministrativa di West Gaza.

Ora lo scenario è cambiato: con gli Stati Uniti che fanno il broncio a causa della corsa di Abbas all’ONU per il riconoscimento dello stato palestinese (pur se in forma diluita) e con i falchi israeliani intenzionati a non mollare nemmeno mezzo shekel ai suoi connazionali, Abbas ha compreso che silurare Fayyad non è più un vero problema. L’abbraccio (soffocante) con i rivali di Gaza è ovviamente una mossa rischiosa per la causa palestinese, se non altro perché non solo gli USA e Israele, ma anche l’Unione Europea la considerano Hamas un’organizzazione terrorista.

Che però si presenta obiettivamente con il vento in poppa: non solo perché politicamente rafforzata dal risultato inusitato dello scambio di prigionieri del caso Shalit. Hamas può beneficiare della revanche islamista, unico risultato certo delle ex primavere arabe, nonché dell’apparente decisione di Abu Mazen di ritirarsi a vita privata. L’unico candidato che potrebbe succedergli, Barghouti, è infatti in un carcere israeliano (e ci rimarrà, per una precisa scelta del governo, che ha escluso il suo nome dalla lista dei prigionieri da scambiare con Shalit). Dunque comincia a dare i suoi frutti il sistematico lavorio israeliano il cui obiettivo finale è delegittimare completamente la fazione palestinese potenzialmente più disponibile ad un dialogo, in modo tale da creare anche a West Bank uno scenario simile a quello inveratosi a Gaza.

di Luca Mazzucato 

NEW YORK. L'atmosfera è surreale a Zuccotti Park. Dove fino a ieri campeggiavano centinaia di giovani ribelli, ora si vedono solo transenne di metallo della polizia. Non si può più attraversare il parco, tranne per uno stretto ingresso sorvegliato dalla security privata, che controlla le borse, ferma chi porta una coperta, segnala alla polizia a pochi metri eventuali sospetti. Dentro il parco, al di là della security, qualche decina di persona all'inizio, poi via via oltre un centinaio.

Roberto Saviano parla al 99%: “mic check? Mic check!” (prova microfono ndr). Decine di telecamere lo incalzano, tra la folla e le sue guardie del corpo. È illegale usare megafoni, la polizia non aspetta altro pretesto per arrestarti sul posto. Quindi lo scrittore deve gridare per farsi sentire, tra il vento e il vocio tutt'intorno. Ogni frase pronunciata, ripetuta dal microfono umano, come ci ha abituato Occupy Wall Street. L'emozione di sentirsi parte di quest'onda di parole che si espande dal centro alle estremità della folla è indescrivibile. “This is what democracy looks like!” Questa è la democrazia.

Una lezione sulla Mafia e Wall St, su come la criminalità organizzata sfrutti la crisi finanziaria per allargare i suoi tentacoli. Il ruolo svolto in Italia dalle mafie, qui in America, spetta alle grosse banche “too big to fail.” Dunque gli americani sono in perfetta sintonia con Saviano, capiscono bene di cosa si parli, mutatis mutandis. È difficile fare discorsi articolati usando il mic check di Occupy Wall Street, ma Saviano sembra entusiasmare gli attivisti che gli si stringono cercando di carpire le sue parole.

Ora che il sindaco Bloomberg ha sgomberato la rivolta, per un giorno luogo simbolo del 99% è diventato meta più che altro di turisti. Tra le decine di italiani riusciti a intrufolarsi all'interno del parco, molti invece gli americani che non hanno idea di cosa stia succedendo. Con aria spocchiosa, certi si chiedono chi sia quel tizio o se sappia almeno parlare inglese, sarcasmo che ovviamente non fa centro data la perfetta dizione inglese di Saviano. Le troupe televisive americane gli fanno domande e tra la folla che lo circonda, mentre questi cammina qua e là per il parco, svettano le due guardie del corpo, due colossi della legge a protezione di Saviano, armati di auricolare come in Men in Black.

Dopo l'enorme mobilitazione di Giovedì 17 novembre, con gli arresti di massa che ne sono seguiti, in questo freddo giorno di novembre l'1% sembra aver vinto la battaglia, anche se per poche ore. Ancora una volta la polizia e le autorità cittadine puntano sulla repressione, facendo si spera un clamoroso autogol. Con l'arrivo dell'inverno, l'occupazione di Zuccotti Park si prospettava piena di complicazioni, soprattutto polmonari. Il sindaco ha optato per sgombero arrestando quattrocento persone, in una retata coordinata a livello federale con la polizia di altre città, come Oakland, dove la protesta sta crescendo.

Il modo in cui si è arrivati allo scontro finale tra polizia e attivisti è un simbolo dei metodi oppressivi dell'1%: in questo caso l'insider trading. Zuccotti Park é di proprietà di una grossa azienda, la Brookfield Properties. Il parco fu costruito nel 1968, in cambio di una deroga alle regole cittadine che permise di aumentare la cubatura del grattacielo della Brookfield. La proprietà è privata, ma è vincolato a garantire l'accesso al pubblico ventiquattro ore su ventiquattro, tutti i giorni. A meno che la proprietà non ne richieda l'evacuazione, la polizia non può intervenire.

Per due mesi, il consiglio di amministrazione della società è rimasto indeciso. La fidanzata del sindaco Bloomberg siede nel consiglio di amministrazione di Brookfield e per due mesi ha tentato invano di convincere l'intera proprietà a chiedere l'intervento della polizia, finché la settimana scorsa ha finalmente vinto la battaglia. Ma ancora una volta, la brutalità della polizia è stata un vero e proprio boomerang per Bloomberg e il pubblico è saldamente a favore degli sfollati e della loro protesta.

In alcune altre città, gli Occupy si sono spostati nei campus universitari oppure hanno trovato amministrazioni locali più bendisposte. A Washington DC, nel cuore dell'Impero, le tende di OccupyDC popolano un parco cittadino a un isolato dalla Casa Bianca. “Non cambia molto se ce li teniamo qui nel parco,” mi svela un amico del posto, “tanto davanti alla Casa Bianca ci son sempre attivisti accampati ogni giorno. Almeno così si evitano gli scontri e tutti sono contenti.” La capitale supera a sinistra la grande mela.

Un risultato duraturo Occupy Wall Street l'ha sicuramente portato a casa. Gli americani pensavano di vivere nel Paese delle Libertà, ma tutto a un tratto si son risvegliati in uno stato di polizia. Le immagini di guerriglia urbana a Wall Street, Berkeley e Oakland sono per il pubblico indistinguibili dalla repressione militare in Tahrir Square o in Siria. Arresti di massa, giornalisti, troupe televisive, avvocati, persino bambini rastrellati e montati su camionette, accusati di resistenza a pubblico ufficiale. Uso massiccio e indiscriminato di spray urticante, nell'era di Youtube non si può più nascondere, in pochi minuti i video degli abusi vengono visti da centinaia di migliaia di utenti.

Occupy Wall Street ha raccolto finora più di mezzo milione di dollari in donazioni online. Riusciranno se non altro a pagare le spese legali per le centinaia di persone arrestate. La vera domanda ora è cosa fare. Il pericolo è che l'enorme potenziale sprigionato da questa rivolta degli “underemployed and overqualified” svanisca nel nulla. Il ciclo delle news televisive e della carta stampata è completamente controllato dalle corporation, proprio quell'1% contro cui la rivolta si è coalizzata.

Il tentativo è di tornare all'oscuramento, da cui il movimento era uscito grazie agli arresti di massa per la marcia sul ponte di Brooklyn. L'idea di spostare gli accampamenti nei campus universitari è sicuramente una mossa azzeccata, per mettere a punto una nuova strategia di primavera - la campagna elettorale è in arrivo, chissà da che parte decideranno di stare i democratici e l'Amministrazione. La strada è ancora in salita, ma quando non si ha niente da perdere, tranne liberarsi dagli enormi debiti accumulati per andare al college, non resta altro che occupare.

di Michele Paris

Ultimato alle Hawaii il vertice APEC (Cooperazione Economica dell’Asia e del Pacifico), il presidente americano Barack Obama è atterrato mercoledì in Australia per una visita destinata a cementare la partnership militare tra i due paesi alleati in funzione anti-cinese. In occasione dell’incontro tra l’inquilino della Casa Bianca e il primo ministro, Julia Gillard, è stato festeggiato il 60esimo anniversario dell’alleanza militare tripartita tra USA, Australia e Nuova Zelanda (ANZUS) e, soprattutto, è stato dato l’annuncio ufficiale del prossimo dispiegamento di truppe militari americane sul suolo australiano.

In una conferenza stampa congiunta nella capitale, Canberra, Obama e il premier laburista Gillard hanno presentato il progetto di collaborazione che prevede, a partire dal prossimo anno, la presenza di circa 250 marines americani in una base di Darwin, nel nord dell’Australia. Il numero dei militari a stelle e strisce potrebbe salire fino a 2.500 nei prossimi cinque anni. Inoltre, secondo l’accordo bilaterale, l’Australia ospiterà a rotazione un certo numero di aerei da guerra statunitensi e viceversa.

Il patto tra i due paesi non si tradurrà nella creazione di una base americana stabile in Australia ma permetterà ai militari USA di avere più rapido accesso a un’area cruciale del sud-est asiatico come quella del Mar Cinese Meridionale. Dal nord dell’Australia è infatti più agevole raggiungere questa regione che dalle basi americane situate in Giappone e in Corea del Sud. In realtà, gli Stati Uniti dispongono già di una base in territorio australiano, quella dell’intelligence a Pine Gap, nel centro del paese, condivisa con i colleghi locali.

Questa iniziativa di Washington in Australia fa parte di una più ampia strategia, destinata a riproporre una massiccia presenza americana in Estremo Oriente e nell’Oceano Pacifico, adottata dall’amministrazione Obama fin dall’indomani del suo insediamento nel gennaio 2009. Quest’area è giudicata dagli USA come cruciale per i propri interessi strategici, da difendere contenendo a tutti i costi la crescente espansione dell’influenza cinese.

Dal Mar Cinese Meridionale transitano alcune delle rotte commerciali più cruciali e trafficate di tutto il pianeta e, come se non bastasse, non solo al di sotto di questi fondali ci sono ingenti risorse petrolifere non ancora esplorate, ma i confini delle acque territoriali e alcune isole sono aspramente contese tra Pechino e paesi come Filippine e Vietnam. Su queste rivendicazioni gli Stati Uniti hanno da qualche tempo fatto sentire la loro voce, sostenendo la necessità di trovare una soluzione mediata dalla comunità internazionale, laddove Pechino predilige invece la strada di accordi bilaterali senza interferenze esterne.

Il ritorno della regione estremo orientale al centro degli interessi americani è stata ribadita ieri da Obama a Canberra con un tono di minaccia nemmeno troppo velato. Per il presidente democratico, USA e Australia sono “due nazioni del Pacifico” e la sua visita nella regione serve a chiarire che “gli Stati Uniti stanno aumentando il loro impegno verso l’intera area dell’Asia e del Pacifico”. Alle iniziative americane di questi giorni la Cina ha risposto duramente, bollando il prossimo dispiegamento di soldati USA in Australia come “una mossa inopportuna” che “potrebbe contrastare con gli interessi dei paesi della regione”, come ha affermato il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Liu Weimin.

Obama, da parte sua, sostiene che la presenza statunitense nella regione non deve essere interpretata in un’ottica anti-cinese e che, anzi, Washington vede con favore la crescita di Pechino e gli sforzi per affrancare dalla povertà centinaia di milioni di cinesi. In realtà, com’è evidente, tutta la strategia degli USA in Asia orientale è guidata precisamente dalla necessità di fronteggiare l’espansionismo e la competizione cinese sui mercati della regione.

Tutt’al più, gli Stati Uniti sono interessati alla crescita del mercato interno cinese, come destinazione del proprio export, e all’apertura del paese alla penetrazione ancora più sostenuta dei capitali americani. In questo senso vanno interpretati i continui appelli - ripetuti da Obama e Julia Gillard mercoledì a Canberra - per una Cina che “rispetti le regole del gioco” sullo scacchiere globale.

L’atteggiamento complessivamente più aggressivo di Washington nei confronti della Cina è ora dettato anche da esigenze di politica interna. A un anno dalle elezioni presidenziali, Obama è pressato da quasi tutti i candidati repubblicani alla Casa Bianca, che l’accusano di essere troppo tenero verso Pechino e chiedono misure punitive, ad esempio, sulle questioni del mancato rispetto della proprietà intellettuale e della svalutazione artificiosa della valuta cinese per favorire le esportazioni.

Anche per questo, nel recente summit dell’APEC alle Hawaii, l’amministrazione Obama ha cercato così di adoperarsi per rafforzare l’area di libero scambio trans-pacifica (Tran-Pacific Partnership, TPP) - formata da Brunei, Cile, Nuova Zelanda, Singapore, Australia, Malaysia, Perù, Vietnam e Stati Uniti - da cui la Cina continua significativamente ad essere esclusa. Proprio durante il vertice di Honolulu, il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha tenuto un discorso nel quale ha ripetuto come la creazione di un sistema di relazioni tra il proprio paese e l’area Asia-Pacifico sia diventata una priorità americana fin dal 2009.

Lo stesso messaggio è stato trasmesso, a Pechino così come agli alleati americani nella regione, anche dal Segretario alla Difesa, Leon Panetta, nel corso di un suo recente tour asiatico. Il numero uno del Pentagono ha escluso che i possibili futuri tagli al bilancio della Difesa porteranno a una diminuita presenza americana in Asia orientale. Questo riallineamento degli obiettivi strategici degli Stati Uniti, come ha fatto notare qualche giorno fa il consigliere di Obama per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, è anche il risultato della presa di coscienza che le guerre in Iraq e Afghanistan hanno nel recente passato distolto l’attenzione americana dall’Estremo Oriente, a tutto vantaggio degli interessi cinesi.

Pechino ha effettivamente costruito intensi rapporti soprattutto commerciali con i paesi del sud-est asiatico in questi anni di crescita impetuosa. Inoltre, le preoccupazioni degli USA sarebbero causate dalla presunta corsa agli armamenti da parte della Cina, anche se il budget militare di quest’ultima rimane tuttora una frazione di quello, colossale, del Pentagono.

In ogni caso, molti dei paesi oggi economicamente dipendenti dalla Cina sono alla ricerca di legami più stretti con Washington, così da bilanciare l’influenza del potente vicino settentrionale. Alcuni sono peraltro alleati storici degli USA, mentre altri - come il Myanmar - solo ora stanno mostrando aperture strategiche verso l’Occidente. Gli Stati Uniti, da parte loro, cercano di sfruttare ogni occasione per schierarsi al fianco di questi stessi paesi, spesso alimentando le divergenze tra di essi e Pechino. La più recente disputa in questo senso è stata registrata proprio questa settimana, quando la Cina ha emesso una nota di protesta ufficiale verso un progetto di esplorazione delle Filippine in un’area contesa al largo delle coste di quest’ultimo paese.

A ulteriore conferma dell’importanza che gli americani attribuiscono a quest’area del pianeta, dopo la visita in Australia, Barack Obama si recherà a Bali, in Indonesia. Il 19 novembre, qui andrà in scena infatti il sesto Summit dell’Asia Orientale (EAS), un forum annuale dei leader di 16 paesi della regione che verrà allargato quest’anno anche a Russia e Stati Uniti e al quale, per la prima volta, parteciperà in prima persona un presidente americano in carica.

di Arturo Bandini

In un chiaro segno del continuo deterioramento della situazione in Siria, questa mattina un gruppo di militari disertori ha annunciato una serie di attacchi contro alcune basi dell’esercito e dell’intelligence nei pressi della capitale, Damasco. Il blitz condotto dal cosiddetto Esercito Libero della Siria (Free Army of Syria) contro le installazioni militari del regime, se confermato, rappresenta una svolta nella crisi in corso da otto mesi nel paese mediorientale, proprio mentre le pressioni internazionali sul governo di Assad continuano a crescere dopo la decisione di sabato scorso della Lega Araba di sospendere la Siria dall’organizzazione panaraba.

Secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa, tre gruppi appartenenti all’Esercito Libero della Siria avrebbero fatto irruzione in una base dell’intelligence dell’aeronautica nella città di Harasta. I militari ribelli hanno aperto il fuoco contro un edificio amministrativo con fucili automatici, lancia-granate e missili, infliggendo danni alle strutture prima di dileguarsi senza subire perdite. Altri attacchi sarebbero avvenuti inoltre contro check-point dell’esercito siriano nelle località di Douma, Qaboun, Arabeen e Saqba. Al momento non ci sono notizie di vittime.

Gli scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti a Damasco sono stati fino ad ora piuttosto rari. Per questo gli attacchi di oggi segnalano probabilmente un’intenzione da parte dell’Esercito Libero della Siria di allargare il conflitto con il regime anche alle città principali del paese, dove il presidente Assad raccoglie tuttora ampio sostegno.

I militari che hanno lasciato l’esercito siriano stanno trovando rifugio oltre confine, in Libano e soprattutto in Turchia. I loro leader sostengono di aver reclutato tra i 10 e i 15 mila soldati e nelle ultime settimane hanno aumentato il numero di operazioni violente, anche se finora limitate ad aree più remote del paese. Solo due giorni fa, ad esempio, l’Esercito Libero della Siria ha ucciso 34 membri delle forze di sicurezza nella città di Daraa in uno dei giorni più sanguinosi in otto mesi di rivolta. Secondo il governo, le vittime tra soldati e forze di sicurezza sarebbero già oltre 1.100, mentre complessivamente - secondo i dato ONU - i morti dall’inizio della crisi hanno superato i 3.500.

Gli attacchi alle basi militari siriane sono giunti poche ore prima della convocazione di una riunione di emergenza della Lega Araba a Rabat, in Marocco, proprio per discutere della sospensione di Damasco che dovrebbe diventare effettiva nella giornata odierna. Nella capitale marocchina si dovrebbe parlare anche di possibili sanzioni da adottare nei confronti del regime di Assad, come il ritiro delle rappresentanze diplomatiche dei paesi arabi a Damasco. La Turchia, da parte sua, ha invece prospettato la possibilità di tagliare le forniture energetiche al vicino meridionale.

Martedì, intanto, delegazioni delle forze di opposizione riunite nel Consiglio Nazionale Siriano hanno incontrato rappresentanti sia della Lega Araba che del governo russo. Nonostante Mosca rimanga contraria a qualsiasi sanzione contro Damasco, secondo alcuni questo incontro potrebbe segnalare una certa impazienza nei confronti di Assad. Le discussioni tuttavia, ha tenuto a precisare la Russia, non sono andate a buon fine e, in ogni caso, servivano esclusivamente a verificare la disponibilità del CNS ad aprire un dialogo con Assad.

Sempre ieri, infine, secondo quanto scritto dalle agenzie di stampa ufficiali siriane, il governo ha liberato oltre 1.100 detenuti politici arrestati nel corso della rivolta, come richiesto dalla road map negoziata con la Lega Araba ai primi di novembre. Visto il rapido aumento delle pressioni esterne su Damasco nelle ultime settimane, tuttavia, appare difficile che questo o qualsiasi altro gesto di apertura al dialogo da parte del regime possa invertire la rotta di una crisi che sembra avere ormai superato il punto di non ritorno.

di Eugenio Roscini Vitali

Anche se Ahmadinejad lo ha definito un dossier carico di “notizie vecchie e tendenziose”, l'ultimo rapporto sul nucleare iraniano pubblicato dall’AIEA conferma i possibili risvolti militari di un programma che per molti anni ha portato avanti una serie di attività "rilevanti per lo sviluppo di ordigni esplosivi nucleari". La prova del tentativo iraniano di diventare una potenza atomica è nei fatti che l'agenzia delle Nazioni Unite ha ricavato dalle oltre mille pagine fornite da 10 Stati membri.

Sono documenti sull'incremento della capacità di arricchimento dal 3,5% al 20%; sul trasferimento delle centrifughe dalla centrale di Natanz agli impianti sotterranei di Fordow, due serie di 174 macchine installate all'interno di una ex base militare scavata sotto una montagna nelle vicinanze della città santa di Qom; sulla decisione di accumulare 4922 chilogrammi di uranio arricchito al 5% e 73,7 chilogrammi al 20%, concentrazione e quantità sufficiente per ridurre di 5 volte lo sforzo necessario al raggiungimento del livello di purezza (85%) utilizzato per la costruzione di quattro testate nucleari.

Rispetto al precedente rapporto del 2 settembre il documento dell'AIEA non prova in modo definitivo l’esistenza di un programma militare parallelo, ma contiene minuziosi dettagli sulla sperimentazione di materiali altamente esplosivi (tecnologia EBW) e di detonatori ad azione rapida, gusci emisferici in alluminio identificati come "generatore R265". Si parla di produzione di tetrafluoruro di uranio, il cosiddetto Sale Verde, precursore dell’uranio altamente arricchito, del ricorso ad una rete clandestina per l'acquisto su mercato nero di tecnologie e materiali specifici e della realizzazione di missili a lunga gittata.

L'agenzia delle Nazioni Unite esprime le sue preoccupazione per lo sviluppo al calcolatore di un modello di testate nucleari di caratteristiche tali da poter essere installate sui vettori Shahab-3 e sui test condotti nella “vasca” per esplosioni controllate costruita all'interno della base militare di Parchin. Tutte prove confermate dai documenti forniti dell'intelligence occidentale e dalle immagini satellitari rilevate nel 2005.

In un documento allegato al recente rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica ci sono anche forti indicazioni circa l'aiuto che Teheran avrebbe ricevuto in passato da un "esperto straniero" che per gran parte della sua carriera ha lavorato nel programma di armi nucleari del suo Paese. Il riferimento va all'ingegnere nucleare russo Vyacheslav Danilenko, esperto in dinamiche dei gas e onde d'urto da detonazione che l'Iran avrebbe ingaggiato a metà degli anni Novanta e che fino al  2002 avrebbe fornito indicazioni significative sulla realizzazione del generatore R256.

Confortato dalle dichiarazioni dell'ex collega Vladimir Padalko, il settantaseienne scienziato russo nega ogni coinvolgimento e, parlando al quotidiano russo Kommersant, afferma di non essere un  fisico nucleare: "Non sono il fondatore del programma nucleare iraniano". Padalko, che oggi guida due compagnie per la produzione di nano-diamanti, materiali prodotti dai sistemi di detonazione simili a quello prodotto dall'R256, ha spiegato che questa attività non c'entra assolutamente niente con le armi nucleari e che in Iran anche Danilenko è stato impegnato in attività simili.

Secondo quanto pubblicato dal London Daily Mail, Israele starebbe per sferrare un'azione militare contro i siti nucleari iraniani. Fonti del Foreign Office avrebbero riferito che l'attacco, sostenuto da Stati Uniti e Regno Unito, potrebbe aver luogo tra dicembre e i primi mesi del prossimo anno. Il piano d’intervento sarebbe in fase di definizione, ma la recente visita a Tel Aviv del Capo di Stato Maggiore dell'esercito inglese, il Generale David Richards, conferma la volontà ad agire e di farlo in fretta.

Vista la distanza che separa Israele dagli obiettivi e l'impossibilità di utilizzare gli aerei cisterna, facilmente identificabili dai radar e dai sistemi di difesa aerea, gli israeliani si starebbero preparando ad utilizzare il rifornimento in volo "buddy-to-buddy", cioè il rifornimento tra due aerei dello stesso tipo generalmente utilizzato dagli aerei imbarcati per fornire supporto di avio-rifornimento ai velivoli in fase di rientro e in dotazione ai Tornado italiani  durante la Guerra del Golfo del '91.

 Teheran, che ha definito le accuse dell'AEIA infondate e ha ribadito che non arretrerà ''di un centimetro'', si è detta comunque disposta a rispettare gli obblighi del Trattato di non proliferazione nucleare e a collaborare con l'agenzia della Nazioni Unite. In caso di attacco l'Iran sarebbe comunque pronto a reagire e, a sentire il capo di Stato maggiore, Massoud Jasayeri, uno degli obiettivi sarebbe l'impianto di Dimona, nel Neghev, ritenuto il cuore di un arsenale atomico israeliano.

Riportando le dichiarazioni di Saad-allah Zarey, membro della Guardia rivoluzionaria e uomo vicino all'Ayatollah Ali Khamenei, l'agenzia di stampa Fars ha analizzato una possibile aggressione israeliana parlando di almeno 1.000 sortire per danneggiare in modo non permanente gli impianti atomici iraniani: uno sforzo bellico che nella migliore delle ipotesi ritarderebbe il programma nucleare di due o tre anni e che dovrebbe essere ripetuto ogni cinque. Secondo Zarey la rappresaglia arriverebbe a colpire il Mediterraneo e l'Europa, la Sesta Flotta e le basi americane in Medio Oriente e per distruggere lo Stato ebraico sarebbero sufficienti quattro missili.

Con ogni probabilità Zarey fa riferimento ai missili da crociera con capacità nucleari che Teheran avrebbe acquisito attraverso il mercato nero dagli arsenali dei paesi dell'ex Unione Sovietica, l'Ucraina e la Bielorussia, una voce che circola negli ambienti occidentali dal 2005 e che si rifà a fatti accaduti qualche anno prima.

I missili in questione sarebbero diciotto Kh-55 (Codice Nato AS-15 Kent), venduti a Cina e Iran tra il 1999 e il 200: sono armi aria-terra con range massimo di 2.500 chilometri e testata nucleare da 200 kiloton. Kiev giura che quei missili non erano armati, ma fonti intelligence spettano che la Repubblica islamica sia riuscita ad entrare in possesso delle testate nucleari attraverso un traffico di armi illeciti che potrebbe coinvolgere altri repubbliche dell'ex Unione Sovietica.

Per ora in Iran i rischi di un attacco hanno ricompattato le forze politiche. L'ex presidente della repubblica e leader riformista Mohammed Khatami ha già dichiarato che «se un giorno in Iran dovesse esserci una qualunque interferenza militare, allora tutte le fazioni, che siano riformiste o non riformiste, si unirebbero per far fronte all'attacco».

 

 


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