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di Michele Paris
Il voto della Lega Araba di sabato scorso per sospendere la Siria dall’organizzazione con sede al Cairo rende sempre più probabile una soluzione militare alla crisi in corso nel paese mediorientale. La decisione, presa con 18 voti a favore, tre contrari (Libano, Yemen e la stessa Siria) e una astensione (Iraq), diventerà effettiva a partire da mercoledì se Damasco non procederà ad implementare le misure previste dalla road map a cui aveva dato il proprio assenso ai primi di novembre.
Il documento concordato tra il regime di Assad e la Lega Araba prevedeva il ritiro delle forze di sicurezza dalle città siriane interessate dalle proteste, lo stop alla repressione e l’avvio di negoziati con l’opposizione. Nonostante alcuni timidi passi da parte del governo di Damasco, la proposta della Lega Araba è sembrata naufragare dopo pochi giorni a causa delle continue violenze nel paese e, soprattutto, sull’onda di una campagna mediatica anti-siriana orchestrata dall’Occidente e da alcuni paesi arabi.
La sospensione da una Lega di cui è membro fondatore ha avuto profonde ripercussioni in Siria, tanto che in molte città sono esplose violente proteste popolari che hanno preso di mira le rappresentanze diplomatiche di Turchia, Qatar, Arabia Saudita e Francia. Tutti questi paesi hanno avuto infatti un ruolo fondamentale nell’escalation di una crisi che ha condotto il paese sull’orlo della guerra civile.
La Francia è uno dei paesi che ha condannato con più forza il comportamento del governo di Assad, mentre la Turchia sta fornendo sostegno materiale e diplomatico sia al cosiddetto Consiglio Nazionale Siriano che all’Esercito Libero della Siria. Quanto ad Arabia Saudita e Qatar, oltre a finanziare i gruppi armati di opposizione nel paese, le loro pressioni sono risultate decisive per convincere la Lega Araba a sospendere la Siria. Il Qatar, inoltre, aveva ritirato il proprio ambasciatore a Damasco già lo scorso mese di luglio, seguito ad agosto dall’Arabia Saudita.
Nel prendere la decisione nei confronti della Siria sabato scorso, la Lega Araba ha citato innanzitutto il numero di morti causati dalla repressione di Assad, almeno 3.500 secondo i dati ONU. Come è ovvio, la stessa Lega Araba non ha sanzionato allo stesso modo altri paesi che hanno soffocato nel sangue le rivolte popolari entro i propri confini in questi mesi - come Egitto o Bahrain - mentre al tavolo dell’organizzazione panaraba siedono governi (Arabia Saudita, Qatar) che stanno fornendo armi e denaro ai gruppi islamici di opposizione che contribuiscono ad alimentare la violenza in Siria.
Dall’andamento della crisi siriana e dalla risposta della comunità internazionale, ad ogni modo, è difficile non vedere un’evoluzione in corso simile a quella che ha portato alla fine di Gheddafi in Libia. Il 23 febbraio scorso, la Lega Araba, su richiesta occidentale e in seguito alle manovre saudite, sospese la “membership” di Tripoli, fornendo così una presunta giustificazione al voto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e alla successiva aggressione militare della NATO.
Alla luce di una situazione decisamente più complessa in Siria, è per il momento improbabile un intervento militare diretto da parte della NATO o di singoli paesi occidentali. Più probabile è che si continui piuttosto a contare sul contributo degli alleati nella regione, con la fornitura di armi, il sostegno alle forze di opposizione più o meno legittime o, in ultima istanza, una possibile azione armata della Turchia.
In un’altra mossa che fa presagire un immediato futuro simile a quello riservato alla Libia, la Lega Araba ha anche per la prima volta offerto un riconoscimento ufficiale al Consiglio Nazionale Siriano, invitando membri dell’opposizione al Cairo nella giornata di martedì. Questo passo della Lega Araba potrebbe aprire la strada a riconoscimenti da parte di altri governi, come accadde appunto con il CNT libico attualmente al potere nel paese nordafricano.
Il Consiglio Nazionale Siriano è formato principalmente da due gruppi di opposizione: la Dichiarazione di Damasco (dissidenti appoggiati da Washington e dall’Occidente) e i Fratelli Musulmani, sui quali cercano di esercitare la loro influenza governi come quelli di Turchia, Egitto o Giordania. A questi vanno aggiunti poi i gruppi estremisti salafiti, appoggiati da Arabia Saudita e Qatar. Tutti si oppongono fermamente a qualsiasi dialogo con il governo di Assad e alcuni dei loro esponenti chiedono l’imposizione di una “no fly-zone” sul modello libico.
Al voto di sabato della Lega Araba al Cairo, il governo siriano ha risposto molto duramente. Il vice-ministro degli Esteri, Faisal al-Mikdad, ha ribadito che l’opposizione interna è sponsorizzata da potenze straniere che intendono rovesciare il regime ed ha puntato il dito contro Turchia, Arabia Saudita, Qatar e Giordania, i cui governi “finanziano gruppi terroristici in maniera non ufficiale”. Per alcuni membri dell’Assemblea del Popolo siriana, poi, la risoluzione della Lega Araba che sospende la Siria vìola le stesse regole dell’organizzazione, in quanto rappresenta una palese interferenza negli affari interni di un paese membro.
Critiche alla Lega Araba sono arrivate anche dalla Russia. Il Ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, nel corso di una conferenza tra i paesi del Pacifico in corso alle Hawaii, ha affermato la contrarietà di Mosca alla sospensione della Siria, una decisione che farebbe parte del tentativo, promosso dall’Occidente, di rimuovere Assad. Per Lavrov, USA e Francia stanno facendo di tutto per scoraggiare il dialogo tra governo e opposizione in Siria, mentre anch’egli ha condannato i traffici di armi che entrano nel paese attraverso la Turchia e l’Iraq.
Sulla stessa lunghezza d’onda della Russia è anche l’Iran, il paese che pagherebbe il prezzo più caro in caso di crollo del regime alleato di Bashar al-Assad. Tramite una dichiarazione di un portavoce del Ministero degli Esteri alla rete di stato Press TV, Teheran ha fatto sapere che la sospensione della Siria dalla Lega Araba complica la situazione nel paese invece che contribuire a risolverla.
Di fronte alle pressioni esterne, tutti i segnali di disponibilità alla risoluzione della crisi mostrati finora da Damasco sono caduti nel vuoto. Le autorità siriane hanno infatti chiesto una riunione d’urgenza della Lega Araba per far fronte alla situazione del paese. In risposta alla già ricordata road map, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa ufficiale SANA, il governo di Assad ha inoltre affermato che una delegazione (civile o militare) della stessa Lega sarebbe benvenuta, in modo da poter osservare direttamente quello che accade sul campo e l’implementazione dell’accordo.
Ogni iniziativa di Damasco, agli occhi dell’Occidente e della maggior parte dei membri della Lega Araba, sembra però superata nel momento stesso in cui viene proposta e viene accolta con indifferenza o con nuove minacce di misure e sanzioni sempre più pesanti.
La difficoltà di giungere a una soluzione pacifica alla crisi siriana è dovuta soprattutto agli interessi strategici che coinvolgono le principali potenze regionali e i loro sponsor occidentali. In primo luogo, il declino dell’influenza americana in Medio Oriente ha trasformato il cambiamento di regime in Siria in un obiettivo primario di Washington, soprattutto alla luce del terreno conquistato dall’Iran in seguito agli sviluppi della primavera araba e del sostanziale fallimento dell’impresa irachena. In funzione anti-iraniana va giudicata anche l’intraprendenza dell’Arabia Saudita in Siria, con il cui governo negli ultimi anni aveva invece coltivato relazioni relativamente cordiali, più che altro per evitare il deterioramento della situazione in Libano, sul quale Riyadh e Damasco esercitano una sorta di protettorato.
A riassumere con sufficiente chiarezza il “Grande Gioco” che si sta svolgendo attorno alla Siria è stato infine un articolo dell’ex diplomatico e membro dell’intelligence britannica Alastair Crooke, apparso sul Guardian il 4 novembre scorso, dal titolo “Syria and Iran: the great game”. Secondo Crooke, il cambio di regime a Damasco, dal punto di vista strategico, sarebbe un “trofeo” che supererebbe di gran lunga quello ottenuto recentemente in Libia, per questo l’Arabia Saudita e l’Occidente lo stanno perseguendo.
Per ottenere questo obiettivo, spiega Crooke, si sta così “mettendo in piedi frettolosamente un Consiglio di Transizione che appaia come unico rappresentante del popolo siriano, senza preoccuparsi se abbia un effettivo seguito nel paese; si impongono sanzioni che colpiscono la classe media [il cui sostegno è decisivo per la sopravvivenza del regime]; si costruisce una campagna mediatica per sminuire ogni tentativo di riforma del governo siriano; si incitano divisioni nelle forze armate e nelle élite del paese”. Seguendo questa ricetta ben consolidata, “alla fine si otterrà la caduta del presidente Assad”.
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di Fabrizio Casari
La campagna elettorale negli Stati Uniti, come tradizione, cerca una nuova guerra con la quale far salire le quotazioni del Presidente in carica. Dopo Irak e Afghanistan, non si è ancora sopita l’eco delle bombe sulla Libia, che già si profila all’orizzonte una nuova guerra per una nuova presidenza. Stavolta l’obiettivo è l’Iran. Su Teheran, peraltro, oltre alle necessità propagandistiche della Casa Bianca, s’inserisce il bisogno di Israele di uscire dall’isolamento internazionale nel quale si trova: un attacco militare contro l’Iran sembra essere il modo migliore per rinsaldare l’unità d’intenti con l’Occidente e, nel contempo, lanciare un’ipoteca violenta e decisiva sul controllo militare del Medio Oriente e del Golfo Persico.
La pubblicazione del rapporto AIEA, infatti, vorrebbe legittimare gli Stati Uniti e Israele a sostenere come il tema della neutralizzazione degli impianti iraniani non sia solo questione suggerita dalle rispettive intelligence, ma abbia motivi oggettivi di riscontro nell’Ente internazionale deputato, cioè la stessa AIEA. Dunque le diplomazie internazionali (questa la convinzione israelo-americana) dovrebbero superare la precedente lettura diffidente nei confronti dei report della Cia e del Mossad proprio a partire dalla pubblicazione delle stesse informazioni rese però da una fonte “neutra” quanto deputata al controllo internazionale degli impianti.
Ora, sebbene da parte di numerosi esponenti della comunità scientifica vengano evidenziate alcune incongruenze presenti nel rapporto AIEA, e si consolidino ulteriormente i dubbi circa la correttezza e neutralità del suo Direttore Generale, il giapponese Amano, non c’è dubbio però che la sua pubblicazione è servita a chiamare alle armi la diplomazia internazionale.
La giostra è così partita: Obama ha annunciato che nelle prossime settimane si consulterà con Pechino e Mosca circa il da farsi. L’intenzione del Presidente Usa sarebbe quella d’inasprire ulteriormente le sanzioni contro Ahmadinejiad senza tuttavia escludere anche l’opzione militare. Ma da Mosca e Pechino non arrivano disponibilità in questo senso. Mosca, in particolare, crede che vi sia “una campagna orchestrata” contro il programma nucleare iraniano per “alimentare le tensioni e imporre nuove sanzioni”: la via però, a giudizio del Ministro degli Esteri, Lavrov, “è esaurita” e sarebbe invece giusto continuare e percorrere quella delle pressioni diplomatiche.
Quanto agli alleati europei degli Usa, se da Londra arriva la scontata adesione all’ipotesi dell’attacco, a Parigi e a Berlino l’accoglienza ai piani di guerra sembra piuttosto tiepida, per non dire nettamente contraria. Il Ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha respinto ogni discussione su possibili raid militari contro l’Iran: “Sanzioni più rigorose saranno inevitabili se Teheran rifiuterà di collaborare con l’AIEA, ma non partecipiamo alla discussione su un intervento militare che respingiamo in quanto controproducenti”. In sintonia con il collega tedesco c’é Alain Juppè, Ministro degli Esteri francese, che definisce anche solo l’ipotesi di un’azione militare “un rimedio peggiore del male”.
Il Consiglio affari esteri dell'Ue, condanna "la continua espansione del programma di arricchimento" dell'uranio ed esprime "particolare preoccupazione" per i contenuti del rapporto dell'Aiea, che confermano la natura militare del suo programma nucleare. Esprime le sue "crescenti preoccupazioni per il programma nucleare iraniano e per la mancanza di progressi negli sforzi diplomatici" e conferma di essere pronta a nuove sanzioni contro Teheran.
Il documento UE, come si vede, accenna solo ad eventuali, ulteriori sanzioni, ma non si pronuncia sull’eventualità di azioni militari, richieste da Londra ma rifiutate da Berlino e Parigi. Contro l’Iran sono già state adottate quattro serie di sanzioni in sede Onu, tutte di natura politica e finanziaria. Margini per ulteriori sanzioni, però, visto il “No” di Russia e Cina, non sembrano esserci. Bruxelles potrebbe quindi decidere di attivare provvedimenti contro le esportazioni di petrolio e contro la Banca Centrale iraniana, ma tali misure avrebbero comunque un effetto diretto sulla già disastrata economia europea.
Ma le pressioni israeliane su Washington sono fortissime. Tel Aviv appare ancora sotto shock a seguito delle rivolte arabe e, nell’incertezza del quadro geopolitico (cui ha contribuito non poco la rottura con la Turchia) tenta la carta del primo colpo per ristabilire distanze e timori contro le organizzazioni islamiche che, dall’Egitto alla Libia (e anche alla Siria) sembrano aver avuto il sopravvento su regimi che, pur nemici storici di Israele (Irak, Libia e Siria) erano comunque gestibili attraverso un assetto sperimentato e internazionalmente garantito.
Oggi, in un quadro complessivo mutato, con la rottura intervenuta nelle relazioni con Ankara e con una crisi di governance regionale evidente, Israele tenta di affondare il colpo contro l’unico nemico nell’area in grado di metterne in discussione il predominio e capace di esercitare una presa importante su tutto l’Islam dallo stretto dei Dardanelli fino a quello di Gibilterra.
Ritiene di doverlo fare e di doverlo fare in fretta, approfittando della congiuntura politica relativa alla campagna elettorale in Usa. I quali Usa, da parte loro, irritati con l’Europa e preoccupati degli sviluppi in Medio Oriente, nonché ansiosi di vedere il petrolio iraniano (dopo quello libico) alla mercè delle monarchie saudite e dei sultanati amici, approfitta della crisi con Teheran per ribadire alla comunità internazionale ed all’elettorato interno l’irrevocabilità dell’alleanza storica con Israele.
Per questo il Premio Nobel per la Pace Shimon Peres e il Premio Nobel per la Pace Barak Obama invocano sanzioni e guerra all’Iran. Proveranno in tutti i modi a mobilitare la comunità internazionale per sferrare un attacco militare che però, è chiaro, serve soprattutto a riparare Obama e Netanyahu dagli scontri politici interni.
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di Mario Braconi
“A meno che i Palestinesi non abbiano un asso della manica che non hanno mostrato fino ad ora, ci aspettiamo che rinuncino alla corsa al riconoscimento dello stato di paese membro presso il Consiglio di sicurezza; con la certezza di avere nove voti a favore, si affronta la votazione, altrimenti si lascia perdere”. Così si è espresso un diplomatico presso le Nazioni Unite, sentito nella notte (pomeriggio negli Stati Uniti) dal Wall Street Journal. Benché il verdetto finale del Comitato di Ammissione (MAC) sia atteso per domani, un documento “riservato” delle Nazioni Unite fatto filtrare alla stampa sembra confermare che non vi sia alcuna speranza di raggiungere al Consiglio di Sicurezza i voti necessari.
Gli Stati Uniti, che hanno fieramente e apertamente osteggiato l’iniziativa palestinese fin dall’inizio, possono cantare vittoria. Il loro obiettivo immediato era infatti impedire alla ANP di andare al voto al Consiglio di Sicurezza: se infatti Abbas fosse riuscito a coagulare attorno al suo progetto almeno nove voti del Consiglio di Sicurezza, gli USA avrebbero dovuto abbandonare le pressioni diplomatiche sui membri dei suoi stati membri per passare alle maniere forti. Ovvero al veto, cui si sono detti pronti in svariate occasioni ufficiali.
Senza il nono voto al Consiglio di Sicurezza, i palestinesi rinunceranno in partenza ad esporsi ad un fallimento clamoroso, mentre gli americani avranno sventato l’ennesimo tentativo di operazione politica non conforme ai propri diktat: il tutto senza “sporcarsi le mani” con un’iniziativa come il veto, particolarmente onerosa politicamente specie in tempi di (sfiorite) primavere arabe.
Il lavorio americano ai fianchi degli altri Paesi ha prima dissuaso la Colombia e poi, evidentemente, anche la Bosnia: i Palestinesi infatti non sono riusciti ad “convincere” il nono Paese dopo aver portato dalla propria parte, già diverse settimane fa, Russia, Cina, India, Sud Africa, Brasile, Libano, e perfino i tentennanti Nigeria e Gabon. Non stupisce che l’atteggiamento americano nei confronti della questione sia smaccatamente pro-Israele, vale però la pena rilevare l’ignavia delle diplomazie europee.
La Germania condivide pienamente le posizioni degli Stati Uniti ed è quindi apertamente contraria all’iniziativa palestinese: nel suo discorso del 26 settembre alle Nazioni Unite, l’ambasciatore tedesco presso le NU ha detto: “Non voglio che vi sia alcun dubbio: la sicurezza di Israele è interesse nazionale per la Germania. Non vi sarà pace senza sicurezza in Israele. Colloqui di pace tra israeliani e palestinesi sono possibili. E’ possibile la prospettiva di due nazioni che vivano fianco a fianco in pace. Ma ci possiamo arrivare solo attraverso i negoziati”. Sembrano le parole dell’ambasciatore americano…
Nella serata dello scorso giovedì anche Gran Bretagna e Francia, due dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, hanno fatto sapere che si asterranno. I diplomatici francesi, che pure hanno votato a favore dell’ammissione della Palestina all’UNESCO e che comunque stanno lavorando con i palestinesi a una “fase due” del progetto (il passaggio all’Assemblea Generale), hanno dichiarato di essere di fatto costretti a questa mossa dalla promessa americana di esercitare il veto in caso di votazione.
Questa la dichiarazione di Romain Nadal, portavoce del Ministro degli Esteri francese: “E’ indiscutibile la legittimità del desiderio dei palestinesi di avere uno stato. Ma la richiesta palestinese non ha nessuna speranza di arrivare ad alcunché al Consiglio di Sicurezza, soprattutto per l’opposizione ufficiale americana”. Tale giustificazione dimostra che sostegno della causa palestinese da parte dei francesi è tiepido e che non potrà mai spingersi fino ad un “confronto finale” con gli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza.
Più contorto il ragionamento politico dei britannici: il Ministro degli esteri britannico William Hague, nel suo discorso al Parlamento di ieri ha dichiarato: “Non voteremo contro la richiesta palestinese perché riconosciamo i progressi fatti dalla leadership palestinese per ottenere l’idoneità ai requisiti richiesti. D’altra parte, non possiamo votare a favore, dal momento che il nostro obiettivo principale resta quello di ritornare ai negoziati condotti dal Quartetto e di fare in modo che essi abbiano successo. […] Anche se i criteri sono soddisfatti lo Stato palestinese non sarebbe in grado di funzionare come un vero stato.”
Dunque la partita sarebbe chiusa prima ancora di iniziare? Non sembra proprio, visto che il Ministro degli Esteri Palestinese, Riad Malki, nel riconoscere il fallimento della prima iniziativa si dimostra pugnace e per niente rassegnato: “Sapevamo che andare al Consiglio di Sicurezza non sarebbe stato un picnic”, ha dichiarato ad Associated Press. “Ma la cosa più importante è chi vincerà il round finale. Ci saranno altri match e noi non disperiamo”. E infatti, i diplomatici palestinesi stanno scaldando i motori per una seconda iniziativa, la votazione davanti all’Assemblea Generale per ottenere una promozione dello status da “osservatore permanente” ad “osservatore permanente non membro”.
La Palestina, infatti, è attualmente uno "non-state observer", che è cosa diversa dagli Stati "non-membri" dell'ONU e dispone di un ufficio permanente nel Palazzo di Vetro, come la Santa Sede. La mossa tattica è dunque questa: "accontentarsi" di una Risoluzione che gli garantisca il pieno riconoscimento di "osservatori" nella Assemblea. In quel contesto non è previsto il veto e l’ANP ha praticamente una vittoria in mano, considerando che sono ben 120 i paesi che hanno riconosciuto la Palestina in base ad accordi bilaterali.
Cambierebbe dunque lo status da "missione di osservatore permanente" a "Stato osservatore permanente non membro". Israele é furibonda con Sarkozy e si capisce. Se la mediazione francese andasse in porto, per i palestinesi significherebbe passare da “entità” a “Stato non membro”; in questo modo farebbero un passo avanti verso la nascita del loro Stato aggirando il veto americano, e potrebbero - appunto in questa veste - chiedere alla Corte Penale Internazionale di aprire inchieste formali sui crimini di guerra israeliani, in passato sempre negate. Un primo colpo di piccone per abbattere il muro.
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di Michele Paris
Nella serata di mercoledì, in Michigan, è andato in onda il nono dibattito dell’anno tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito Repubblicano. Ad animare una discussione diversamente fiacca è stata l’ennesima gaffe di uno dei principali contendenti per la nomination - il governatore del Texas, Rick Perry - il quale, nella smania di ridurre all’osso le prerogative del governo centrale, ha dimenticato il nome di un’agenzia federale che intenderebbe abolire in caso di elezione alla Casa Bianca.
Il confronto si è tenuto presso la Oakland University di Rochester, a nord di Detroit, ed è stato trasmesso in diretta TV dalla rete CNBC. A dibattito inoltrato, mentre stava rispondendo ad una domanda, Rick Perry ha iniziato a parlare di tre dipartimenti del governo che sarebbe sua intenzione sopprimere poiché, a suo dire, i rispettivi campi d’azione non dovrebbero rientrare nelle prerogative federali. Dopo aver citato i primi due - Educazione e Commercio - Perry ha però indugiato sul nome del terzo.
Dopo una lunga pausa e una ricerca disperata tra i suoi appunti, un moderatore gli ha chiesto se era in grado di dire il nome della terza agenzia da tagliare. Trascorsi 53 secondi, Perry ha alla fine ammesso di non ricordarne il nome, chiudendo il suo intervento con un imbarazzante “Sorry. Oops”. Alcuni minuti più tardi, nel corso di una nuova tornata di domande, Perry è finalmente riuscito a rintracciare il nome del dipartimento mancante, quello dell’Energia.
Il lapsus apparentemente irrilevante di Rick Perry rischia in realtà di avere conseguenze molto gravi sul proseguimento della sua campagna elettorale. Il governatore del Texas aveva infatti già commesso una serie di gaffes nei precedenti dibattiti e aveva perciò bisogno di una prestazione convincente per fermare l’emorragia di consensi tra gli elettori repubblicani che avevano invece mostrato un grande entusiasmo nei suoi confronti immediatamente dopo l’annuncio ufficiale della sua candidatura lo scorso mese di agosto.
Per la maggior parte della stampa americana, in ogni caso, la figuraccia di mercoledì dovrebbe segnare la fine delle chances di Rick Perry di centrare la nomination repubblicana il prossimo anno. Gli effetti di questo passo falso in diretta nazionale si potranno vedere soprattutto dal comportamento dei suoi finanziatori nelle prossime settimane, in vista dei primi appuntamenti elettorali nei caucuses dell’Iowa e nelle primarie del New Hampshire - previsti per i primi giorni di gennaio - dove Perry ha investito in maniera massiccia.
La discesa in campo di Rick Perry aveva rinvigorito in particolare l’ala conservatrice del suo partito, tanto da consentirgli di presentarsi come il rivale più accreditato del favorito d’obbligo, il miliardario mormone ed ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney. Il successivo crollo nei sondaggi di Perry aveva poi dato un impulso insperato a Herman Cain, imprenditore di colore e autentico outsider nella corsa alla Casa Bianca, a sua volta però in difficoltà dopo il recente coinvolgimento in uno scandalo sessuale.
A meno di due mesi dall’inaugurazione della stagione delle primarie, Mitt Romney sembra avere quindi la strada spianata verso la nomination, anche se molti dubbi e diffidenze circondano tuttora la sua candidatura. Gli stenti di Perry e Cain, inoltre, stanno già dando vita ad una sfida nella sfida, con i rimanenti candidati che faranno di tutto per presentarsi come la principale alternativa a Romney. Gli altri contendenti in casa repubblicana sono l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, il deputato libertario del Texas Ron Paul, l’ex governatore dello Utah John Huntsman e la deputata del Minnesota Michele Bachmann.
Tornando alla serata di mercoledì, a parte la disavventura di Rick Perry, il dibattito è stato contraddistinto da scambi di battute relativamente cordiali tra i candidati presenti, a differenza dei toni accesi degli appuntamenti precedenti. Alla vigilia, la discussione era attesa soprattutto per testare gli effetti del già citato scandalo sessuale sulla campagna di Herman Cain. In seguito alle rivelazioni della testata on-line Politico.com, quest’ultimo è stato infatti accusato pubblicamente di molestie sessuali da almeno due donne che lo avevano conosciuto sul finire degli anni Novanta quando era alla guida dell’Associazione dei Ristoratori.
Nel corso del dibattito la questione che rischia di affondare anche la campagna di Cain è emersa invece in una sola occasione e, quanto meno, sulle prime pagine dei giornali americani il giorno dopo ha lasciato spazio alla gaffe di Rick Perry.
Nel corso della discussione tra i candidati repubblicani, infine, a prevalere sono stati i temi economici. Nessuno dei presenti si è ovviamente scostato dalle consuete ricette ultraliberiste propagandate dal partito. Allo stesso modo, nessuno ha fatto cenno ai manifestanti che stanno scendendo nelle strade in ogni angolo del paese per protestare contro le ineguaglianze create da queste stesse politiche, né si è sentita alcuna seria analisi della sonora bocciatura di molte proposte repubblicane da parte degli elettori nell’election day di martedì scorso.
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di Michele Paris
Martedì negli Stati Uniti si è tenuto l’ultimo election day prima del voto per le presidenziali del 2012. I (pochi) elettori americani presentatisi alle urne sono stati chiamati a scegliere sindaci, governatori, membri di assemblee locali e ad esprimersi su una serie di quesiti referendari. A meno di due mesi dall’inizio delle primarie per la Casa Bianca, il voto di martedì era visto da molti come un importante test sullo stato di salute dei due principali partiti e sugli umori dell’opinione pubblica in un periodo di grave crisi economica e sociale.
Tra gli appuntamenti più seguiti c’era un referendum indetto nello stato dell’Ohio, dove si decideva la sorte della legge n. 5 del Senato, firmata dal governatore repubblicano John Kasich lo scorso mese di marzo tra le proteste di migliaia di persone. Il discusso provvedimento prevedeva la drastica restrizione dei diritti sindacali dei lavoratori del settore pubblico. Oltre a limitare seriamente la possibilità di scioperare e di contrattare su alcune questioni contrattuali, la legge n. 5 chiedeva agli stessi dipendenti pubblici, assieme ad altri sacrifici, di pagare una quota maggiore rispetto a quella attuale per il finanziamento dei loro piani sanitari e pensionistici.
La legge - simile ad altre approvate in stati come Wisconsin e Indiana - è stata bocciata dagli elettori dell’Ohio con una maggioranza schiacciante (62 per cento). Il risultato ha inflitto una sonora sconfitta ai repubblicani e alla loro crociata per cancellare i diritti residui dei lavoratori come rimedio alle ristrettezze di bilancio causate dalla crisi del debito.
Questo referendum era stato promosso in particolare dai sindacati e dal Partito Democratico, nonostante a Washington e in altri stati dove questi ultimi governano siano state adottate senza troppi scrupoli iniziative simili che tendono a peggiorare gli standard di vita di lavoratori e pensionati.
L’Ohio rappresenta in ogni caso un barometro importante in vista delle presidenziali del prossimo anno, in quanto è uno stato perennemente in bilico tra i due partiti (“swing state”) e premia quasi sempre il candidato destinato ad entrare alla Casa Bianca. Secondo alcuni, la bocciatura della legge repubblicana sarebbe un segno positivo per i democratici, dal momento che la struttura organizzativa che lavora per la rielezione di Obama ha avuto un ruolo di spicco nella campagna elettorale per il referendum.
In realtà, l’avversione generalizzata nei confronti della legge anti-sindacale non dovrebbe tradursi necessariamente in un sostegno per il partito del presidente, come dimostra il fatto che sempre martedì, in un altro quesito referendario poco più che simbolico, gli elettori hanno approvato l’esenzione per gli abitanti dell’Ohio dall’obbligo di stipulare un’assicurazione sanitaria, come previsto dalla riforma di Obama approvata dal Congresso nel marzo 2010.
Un altro voto dalle vaste implicazioni era quello del Mississippi, dove era sottoposta a referendum una proposta per modificare la costituzione dello stato inserendo una clausola che di fatto avrebbe messo fuori legge l’interruzione di gravidanza. A sorpresa, gli elettori di uno degli stati più conservatori degli Stati Uniti si sono espressi contro un emendamento che intendeva dare lo status legale di “persona” all’embrione fin dal momento del concepimento, rendendo illegale l’aborto - anche in caso di stupro, incesto o pericolo di vita per la madre - così come la fertilizzazione in vitro, la pillola del giorno dopo e alcune forme di contraccezione.
I sostenitori della modifica alla costituzione del Mississippi in senso anti-abortista - già allo studio anche in altri stati - speravano che una vittoria martedì avrebbe rappresentato un trampolino di lancio per ottenere finalmente dalla Corte Suprema degli Stati Uniti la revisione della sentenza del 1973 (“Roe contro Wade”) che ha fissato il diritto all’aborto a livello federale.
In molte città importanti si è votato poi per la scelta del sindaco. Smentendo la tendenza degli ultimi tempi a punire i politici in carica, numerosi primi cittadini uscenti sono stati riconfermati, come i democratici Michael Nutter e Stephanie Rawlings-Blake - rispettivamente a Philadelphia e a Baltimora - o il repubblicano Greg Ballard a Indianapolis. Successi democratici sono stati registrati anche a Phoenix, in Arizona, e a San Francisco, dove Edwin Lee - già sindaco ad interim, subentrato l’anno scorso a Gavin Newsom, a sua volta eletto vice-governatore della California - è diventato il primo sindaco di origine cinese scelto dagli elettori per guidare una metropoli americana.
Due erano invece le competizioni per scegliere altrettanti governatori, carica particolarmente importante in vista del 2012 poiché in grado di influire sull’efficacia delle campagne elettorali per le presidenziali. In Kentucky, malgrado le difficoltà che sta attraversando lo stato, è stato rieletto il democratico Steve Beshear, mentre in Mississippi il repubblicano Phil Bryant succede al governatore uscente Haley Barbour, anch’egli repubblicano e giunto alla fine del secondo e ultimo mandato consentito dalla legge.
Delicata era anche la tornata elettorale per il parlamento locale della Virginia, stato a tendenza repubblicana dove Obama aveva trionfato nel 2008. Qui l’anno scorso i repubblicani avevano conquistato la poltrona di governatore e speravano quest’anno di estendere al Senato statale la maggioranza che già detengono alla camera bassa. Lo sfondamento repubblicano non è però avvenuto. I risultati parziali indicano una situazione di stallo al Senato (20 seggi per ciascun partito), dove l’esito finale sarà deciso da una manciata di voti in un singolo distretto elettorale tuttora in bilico.
Tra i molti altri appuntamenti elettorali dell’election day 2011 vanno ricordati almeno quelli di Arizona, Iowa e New Jersey. Un’elezione speciale in Arizona ha rimosso dall’incarico il senatore statale repubblicano ed ex vice-sceriffo vicino ai Tea Party, Russell Pearce, principale artefice della durissima legge anti-immigrazione approvata l’anno scorso da questo stato degli Stati Uniti occidentali.
In Iowa, i repubblicani non sono riusciti a conquistare la maggioranza nel Senato locale per il quale era in palio un seggio. Il voto era fondamentale per far avanzare una proposta repubblicana sul bando dei matrimoni gay, resi legali in Iowa da una sentenza della Corte Suprema dello stato nell’aprile 2009. Nel New Jersey, infine, i due rami del parlamento statale sono rimasti in mano democratica, rendendo così vani gli sforzi del governatore Chris Christie, astro nascente del Partito Repubblicano, per ottenere un mandato ancora più forte per implementare tagli alla spesa e misure anti-sindacali.
La diversità geografiche e delle questioni su cui gli elettori si sono espressi rendono pressoché impossibile trarre una valutazione univoca dell’esito del voto di martedì negli USA. Analizzando alcune delle elezioni più importanti è forse possibile ipotizzare che gli americani recatisi alle urne, pur non esprimendo un chiaro sostegno alle ricette democratiche, hanno respinto alcune delle soluzioni più reazionarie alla crisi, come quelle propagandate dai repubblicani e dalle frange estreme rappresentate da organizzazioni come i Tea Party. A un anno dal voto per la Casa Bianca e con la situazione economica in peggioramento, è comunque difficile intravedere una qualche anticipazione di quello che sarà il comportamento degli elettori nel 2012.
Come al solito negli Stati Uniti, a dominare è stata più che altro la scarsissima affluenza, in molti casi ben lontana anche dal 30 per cento degli elettori registrati. Questo dato, accentuato dalla mancanza di un voto di rilevanza nazionale, testimonia così ancora una volta la sfiducia complessiva in un sistema politico che non rappresenta in nessun modo la grande maggioranza dei cittadini americani.