Le pressioni occidentali attraverso le proteste violente dell’opposizione georgiana hanno alla fine convinto il governo di Tbilisi e la maggioranza parlamentare del paese caucasico a ritirare il discusso disegno di legge sulla “registrazione degli agenti stranieri”. La notizia è stata annunciata giovedì dopo che nei due giorni precedenti si era scatenato il caos nella capitale dell’ex repubblica sovietica, incluso un tentativo di assalto all’edificio che ospita il Parlamento. Il ritiro della proposta potrebbe essere solo momentaneo, ma rappresenta comunque una sconfitta per il partito di governo “Sogno Georgiano”, i cui sforzi per evitare il coinvolgimento del paese nel conflitto tra Russia e Ucraina (NATO) sono sempre più sotto attacco delle forze politiche filo-occidentali.

La macchina della propaganda americana sembra essersi messa in movimento questa settimana per confondere le acque in merito al sabotaggio dei gasdotti Nord Stream (1 e 2) sul fondo del Mar Baltico a fine settembre 2022. L’offensiva mediatica punta a screditare la tesi proposta dalla rivelazione di Seymour Hersh di inizio febbraio, che attribuiva la responsabilità dell’esplosione direttamente alla Casa Bianca. Il New York Times ha aperto la campagna di disinformazione martedì con la pubblicazione di una “esclusiva” nella quale vengono citati i soliti anonimi funzionari governativi per spiegare che l’operazione sarebbe stata condotta da un non meglio definito “gruppo filo-ucraino” non collegato al regime di Zelensky.

La conferenza annuale dei conservatori americani (“Conservative Political Action Conference” o CPAC) è stata nel fine settimana il primo appuntamento politico di rilievo per tastare il terreno in casa repubblicana a meno di un anno dall’inizio delle primarie per le presidenziali del 2024. L’ex presidente Donald Trump è per il momento il favorito quasi indiscusso e il suo discorso alla chiusura dell’evento tenuto nel Maryland ha confermato in larga misura la strategia vincente già impiegata nel 2016. Populismo e anti-comunismo restano gli elementi centrali di una campagna elettorale che trae beneficio in primo luogo dalle politiche anti-sociali e guerrafondaie dell’amministrazione democratica di Joe Biden.

L’imposizione praticamente indiscriminata di sanzioni è ormai il tratto distintivo della strategia degli Stati Uniti per colpire i paesi rivali e cercare di arrestare il proprio declino internazionale. Dopo il sostanziale fallimento dell’offensiva contro la Russia, Washington si prepara ora a colpire con questa arma anche la Cina, cercando di ottenere appoggio tra gli alleati più fedeli. A riportare la notizia è stata questa settimana l’agenzia di stampa Reuters con un tempismo pressoché perfetto per farla coincidere con il rilancio delle tesi cospirazioniste sull’origine del COVID-19 e la nuova escalation delle tensioni attorno all’isola di Taiwan.

“Consultazioni” sarebbero appunto iniziate con i partner del G-7 per concordare una serie di misure economiche punitive contro Pechino. L’iniziativa si collega direttamente alla recente presentazione da parte della Cina di una proposta di negoziato per risolvere diplomaticamente la guerra in Ucraina. Il documento in dodici punti redatto dal governo cinese è stato di fatto respinto da Stati Uniti e NATO perché troppo sbilanciato a favore della Russia. Scrupolo assoluto dell’amministrazione Biden è di impedire che il “mostro” cinese possa essere protagonista di un’iniziativa di pace in Ucraina, assecondando il desiderio anche dell’opinione pubblica occidentale.

L’Unione Europea e il Regno Unito hanno finalmente raggiunto un accordo per risolvere la complicata questione del “protocollo nordirlandese” a tre anni di distanza dall’entrata in vigore della Brexit. Il primo ministro britannico, Rishi Sunak, ha ostentato toni quasi trionfali nel darne la notizia dopo il vertice di lunedì a Windsor con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Le probabilità che il documento venga ratificato dal parlamento di Londra appaiono in effetti buone, ma il parere decisivo sarà quello degli unionisti nordirlandesi, i cui leader si sono mostrati per il momento solo cautamente ottimisti.


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