Il comportamento tipico di Israele quando diventa bersaglio di critiche legittime non consiste nell’accettazione di queste e nella messa in atto di iniziative per correggere il proprio comportamento, come dovrebbe essere per uno stato democratico, bensì nel tentativo di zittire i suoi accusatori, se non di metterli addirittura fuori legge. Questo copione è stato seguito ancora una volta dall’attuale governo di Tel Aviv dopo che qualche giorno fa una delle più autorevoli organizzazioni israeliane a difesa dei diritti umani – B’Tselem – ha pubblicato un rapporto nel quale lo stato ebraico viene definito niente meno che un regime basato sull’apartheid.

L’arresto all’aeroporto Vnukovo di Mosca del “dissidente” russo Aleksei Navalny è stato accolto in Occidente con reazioni di sdegno a dir poco sproporzionate, anche se tutt’altro che inaspettate. L’intera sceneggiata del ritorno in patria del presunto eroe anti-Putin, vittima la scorsa estate di un avvelenamento altrettanto improbabile, sembra essere stata anzi orchestrata proprio da governi e servizi di sicurezza occidentali, con lo scopo di rilanciare l’immagine di un politico non esattamente popolare in Russia e, soprattutto, di intensificare le pressioni sul Cremlino alla vigilia del passaggio di consegne alla Casa Bianca.

Le ultime settimane dell’amministrazione Trump hanno visto l’implementazione deliberata di una serie di provvedimenti sul fronte internazione che indicano il tentativo di fissare dei paletti ben precisi alla politica estera del presidente americano entrante, Joe Biden. La questione non riguarda solo l’Iran, ma anche e forse soprattutto la Cina, di gran lunga il principale rivale strategico degli Stati Uniti. A questo scenario va ricondotta l’ultima provocatoria iniziativa presa dal dipartimento di Stato a proposito di Taiwan, sia pure relativamente attenuata dalla cancellazione all’ultimo minuto di una clamorosa visita a Taipei dall’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite.

Nella serata italiana di mercoledì, Donald Trump è diventato il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a subire due procedimenti di impeachment davanti al Congresso di Washington. Il voto, promosso dalla leadership democratica alla Camera dei Rappresentanti e appoggiato da una decina di deputati repubblicani, ha inviato al Senato la pratica di incriminazione per i fatti del 6 gennaio scorso, anche se è improbabile che il procedimento arrivi a conclusione in tempi brevi e, di certo, non prima dell’insediamento di Joe Biden.

La guerra scatenata dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati contro lo Yemen ha già provocato la peggiore catastrofe umanitaria del pianeta, ma le recenti decisioni prese dal governo americano uscente potrebbero rendere a breve ancora più tragica la situazione nel paese della penisola arabica. Con una decisione riconducibile alla strategia di “massima pressione” contro l’Iran, il dipartimento di Stato USA ha aggiunto questa settimana alla propria lista delle organizzazioni terroristiche i “ribelli” Houthi sciiti che controllano buona parte del territorio yemenita, mettendo in serio pericolo il flusso di aiuti destinati a una popolazione da tempo allo stremo.


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