L’accusa di “genocidio” contro la minoranza musulmana uigura dello Xinjiang è da qualche tempo lo strumento preferito dall’Occidente per denunciare la Cina e le pratiche presumibilmente anti-democratiche o criminali del Partito Comunista Cinese. Questa accusa è del tutto strumentale, oltre che infondata, ma continua a essere insistentemente al centro di iniziative e dichiarazioni ufficiali di governi e parlamenti, così come di commenti e analisi dei media ufficiali. L’ultimo paese a muoversi in questa direzione è stato il Canada, che ha deliberatamente aggravato le tensioni già alle stelle con Pechino, di fatto per segnalare da subito alla nuova amministrazione americana l’intenzione di partecipare alla campagna anti-cinese che verrà pianificata da Washington con metodi in larga misura simili a quelli impiegati dall’ex presidente Trump.

Con l’avvicinarsi della data che dovrebbe in teoria segnare il ritiro del contingente americano rimasto in Afghanistan, Joe Biden dovrà decidere se onorare l’accordo stipulato un anno fa tra l’amministrazione Trump e i Talebani o se prolungare ancora una volta l’occupazione del paese asiatico e il più lungo conflitto nella storia degli Stati Uniti. Il presidente democratico potrebbe essere orientato ad avviarsi verso il disimpegno dall’Afghanistan, ma su questa strada restano ostacoli enormi che rischiano di far saltare il fragilissimo negoziato in corso.

I movimenti sul fronte diplomatico degli ultimi giorni hanno suscitato timide aspettative per il possibile ritorno di Washington e Teheran al rispetto integrale dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015 (JCPOA). L’amministrazione Biden ha in particolare rotto gli indugi, sia pure in maniera prudente, segnalando la propria disponibilità a negoziare una soluzione allo stallo provocato da Trump ormai quasi tre anni fa. L’Iran, da parte sua, nel fine settimana ha attenuato gli effetti di una legge domestica che sta per entrare in vigore sui limiti alla collaborazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA).

L’assoluzione incassata lo scorso fine settimana da Donald Trump nel secondo impeachment del suo mandato ha favorito il ricompattarsi del Partito Repubblicano attorno alla figura dell’ex presidente. Allo stesso tempo, quei senatori e deputati che hanno votato a favore dell’incriminazione per “incitamento all’insurrezione” sono al centro di provvedimenti di censura che preannunciano già una sanguinosa lotta intestina nel partito in vista dei futuri appuntamenti elettorali.

Una disastrosa operazione militare della Turchia contro il PKK in territorio iracheno ha innescato in questi giorni una bufera politica sul fronte interno e riacceso le tensioni tra Ankara e Washington, proprio mentre i due alleati NATO stavano esplorando una possibile riconciliazione dopo l’ingresso di Joe Biden alla Casa Bianca. A fare esplodere l’ira di Erdogan è stata la presunta esecuzione di 13 tra soldati, membri della polizia militare e, forse, agenti segreti turchi da tempo nelle mani dei militanti curdi. I contorni dell’episodio restano per molti versi ancora oscuri, ma il presidente turco e il suo partito hanno già sfruttato l’accaduto a fini politici e per fare pressioni sugli Stati Uniti in vista di un prossimo riassetto degli equilibri strategici in Medio Oriente.


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