Con grande sfoggio di foto e narrazioni a favor di propaganda, è stato siglato a Camp David, tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, quello che viene definito un accordo di “cooperazione trilaterale”. I media atlantisti lo definiscono “un duro monito alla Cina”, dimenticandosi però che essa non ha una politica aggressiva. C’è poi chi - come Pechino - la definisce una mini-Nato, e questo sembra più calzante, dato che i presupposti di partenza e le convenienze strategiche sono in linea con quanto visto nella fondazione della NATO nel 1949. Il copione non muta: così come la nascita della Nato fu un intento aggressivo verso l’allora Unione Sovietica, oggi la nuova alleanza del Pacifico riproduce lo stesso atteggiamento verso la Cina.

 

«I tentativi di formare gruppi e cricche esclusive e di portare il confronto tra blocchi nell’Asia-Pacifico sono impopolari e susciteranno sicuramente vigilanza e opposizione nei Paesi della regione», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin.

Che la Cina sia circondata da una ventina di installazioni e basi militari statunitensi  mentre gli USA non abbiano vicino ai loro confini nemmeno una base cinese, benché si chiami Mar della Cina e non del Maryland o del Texas, pare un dettaglio trascurabile nella narrazione politologica e propagandista degli eventi. Quella nella regione dell’Indo-Pacifico è, in fondo, solo una porzione delle 544 basi degli USA in 43 Stati esteri più altre 159 in territori statunitensi d'oltremare apertamente riconosciute dal Pentagono, quindi inferiori a quelle effettivamente esistenti.

Il Segretario di Stato USA, Blinken, lo ha definito “l’inizio di una nuova era di cooperazione” ma la definizione appare decisamente insufficiente e deviata nei contenuti ed intenzioni dell’operazione, che ha molto di militare e poco di economico. Si somma - e per diversi aspetti si integra - sia con il QUAD (Quadrilateral Security Dialogue) con Australia, India, Giappone che, soprattutto, con l’Aukus, firmato nel 2021 dagli USA con Australia e Regno Unito. L’alleanza tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti venne definita dai governi che la siglarono come “una partnership per la sicurezza trilaterale rafforzata” il cui scopo sarebbe quello di “approfondire la cooperazione diplomatica, di sicurezza e di difesa nella regione indo-pacifica, anche lavorando con i partner, per affrontare le sfide del ventunesimo secolo”. Molto meno pomposamente, invece, l’Aukus è un patto che prevede la condivisone e cooperazione di tecnologia militare, intelligence, capacità nell’intelligenza artificiale ma soprattutto la dotazione di sottomarini a propulsione nucleare all’Australia.

La stessa filosofia che fa sfondo a questa nuova trimurti, nonostante venga, come di prammatica, presentata come fosse il suo esatto contrario. Del resto, come fu per la NATO, che venne dipinta come alleanza difensiva pur non dovendo difendersi da nessuno, anche oggi l’operazione politico-militare nel Pacifico viene narrata come una necessità difensiva dalle minacce di Cina e Corea del Nord, pur non essendovi stata né nel passato né oggi, nessuna minaccia da parte di  Pechino, che dalla seconda guerra mondiale ad oggi non ha mai combattuto nessuna guerra, se si esclude un conflitto a bassa intensità e di breve durata (un mese) con il Viet-Nam.

 

La storia dimenticata

L’operazione politica voluta dall’Amministrazione Biden, per quanto sembri nell’immediato segnare un punto per Washington, appare però non semplice da strutturare con un programma continuativo. Le resistenze politiche interne alla Corea del Sud sono infatti di notevole peso nei confronti del Presidente conservatore Yoon Suk Yeol, che non pago di ospitare 79 installazioni militari statunitensi, ha voluto fortemente un accordo che in nome delle esigenze USA sciacqua con il cloro la storia della relazione infame tra Corea e Giappone.

Giappone chesolo dal Dicembre del 2022 ha apportato le modifiche costituzionali che, dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, ne impedivano il riarmo in funzione offensiva. Non si tratta di un dettaglio: il Giappone è la terza economia del mondo e un suo maggiore investimento nell’esercito potrebbe avere conseguenze importanti in tutta la regione, e non solo. Ma è paradossale che a firmare un programma difensivo contro le altrui minacce sia Tokyo, ovvero il paese che ha prodotto le guerre più sanguinarie della storia, con la più che trentennale occupazione giapponese della penisola coreana. L’esercito imperiale di Hirohito è passato alla storia come il primo che applicò in scala ampia e in tempi continuativi, uccisioni, stupri e torture ai danni della popolazione civile.

Se proprio ci si deve immaginare una minaccia e un minacciato, basta ricorrere alla storia. L’imperialismo giapponese fece oltre 14 milioni di vittime solo in Cina: l’episodio più tristemente noto avvenne il 13 dicembre 1937, quando la soldataglia del Sol Levante entrò a Nanchino, l'allora capitale della Cina, trucidando 300 mila persone nelle prime settimane di occupazione e stuprando oltre 20 mila donne, anziane, madri e bambine.

Da parte sudcoreana, nazione che ha fato della servitù verso l’Occidente la sua cifra identitaria, oltre che una genuflessione verso le due potenze, la scelta del mese appare per certi versi una coincidenza simbolicamente maligna, visto che nello stesso mese di Agosto del 1910 pose la firma sotto il Trattato di annessione della Corea al Giappone. Ricorrenze nefaste a parte, la scelta di Seul di associarsi militarmente ad una alleanza che ha come nemici dichiarati Cina e Corea del Nord, lungi dall’essere una soluzione per la sua sicurezza, rappresenta semmai la crescita esponenziale del rischio di essere colpita, essendo Seul la prima ed immediata vittima di qualunque ipotesi di attacco a Pyongyang.

Che poi Pechino sappia ben considerare il livello della minaccia militare non è un mistero. Costretta a dirottare sulle spese militari parte dei suoi investimenti, è oggi in grado di fornire risposte adeguate a qualsivoglia minaccia e le sante alleanze (già sperimentate in Ucraina) non depongono a favore di un occidente collettivo che dall'Afghanistan, alla Siria e all'Ucraina, sembra specializzato nel perdere tutte le guerre che ingaggia.

 

La dottrina militare USA: guerre per procura

Con questo nuovo accordo si manifesta in forma definitiva il procedere politico degli Stati Uniti nell’area del Pacifico, ovvero la preparazione di un confronto militare strategico con la Cina, considerata il maggiore ostacolo al mantenimento del suo ordine unipolare e la maggiore sfida al suo potere economico e tecnologico, ormai già da anni superato dall’avanzare cinese in ogni campo della tecnologia, da ultimo sugli studi e le applicazioni sulla IA.

Leggendo anche questo accordo in prospettiva, si può notare come gli Stati Uniti siano ormai orientati ad una idea della loro minaccia militare globale incentrata non più e non solo sul dispositivo NATO, ma anche su accordi militari a carattere regionale che sembrano acquisire sempre maggior peso nel dispositivo generale della Dottrina di Sicurezza Strategica statunitense.

In Europa scalano velocemente e posizioni di rilievo i paesi Baltici, ormai elevati a punto di primo impatto e a referenti diretti degli ordini statunitensi. Si tratta di paesi che hanno nel revanscismo russo fobico e nell’ideologia nazista la loro cifra ideologica e che sono privi del peso diplomatico, politico e militare dei fondatori dell’Unione Europea; quindi, sotto il profilo dell’obbedienza senza compromessi a Washington, nella disponibilità ad immolarsi contro l’odiato nemico russo, risultano adeguati al ruolo di braccio estensivo del dispositivo militare a guida USA.

Nella regione dell’Indo-Pacifico identico ruolo sembra essere previsto per Corea del Sud, Giappone, Australia e Nuova Zelanda. I diversi accordi militari indicano come USA e GB saranno i fornitori di tecnologie avanzate sia convenzionali che nucleari, ma che il confronto con il nemico sarà, dal punto di vista delle risorse umane, tutto sulle spalle degli alleati.

E’ la coda di una politica bellicista che ha caratterizzato l’amministrazione Biden, che ha passato tutto il suo mandato a cercare alleati disponibili a guerre per procura o a corse al riarmo destinate a supportare gli USA nella loro guerra suprematista. Paesi che, nel quasi esclusivo interesse di Washington, fossero disponibili anche ad affrontare gravi problemi economici di tenuta dei loro bilanci, distorcendo i flussi di spesa per orientarli alle spese militari in sottrazione a quelle civili destinate alla crescita.

Di questo aveva bisogno la Casa Bianca e per questo ha incessantemente lavorato: trovare paesi che, pur assumendo un rischio altissimo nell’ingaggiarsi senza motivo nell’accelerazione di un confronto strategico che non li riguarda direttamente, si ingaggiano per contrastare la crescita e il diffondersi non tanto di Cina o Russia, quanto del multipolarismo, prospettiva di governance globale condivisa e, per ciò stesso, minaccia autentica e vincente al dominio globalista a trazione anglosassone.

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